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Capitale umano, innovazione e crescita economica

L’economia  italiana  si  è  trovata  a  fronteggiare  le  recenti  crisi, globale prima, del debito sovrano poi, in condizioni più sfavorevoli di altri paesi. A causa di carenze strutturali, in primis l’elevato debito pubblico e la bassa crescita della produttività, che hanno frenato lo sviluppo sin dalla seconda metà degli anni novanta, l’impatto è stato in Italia più grave che altrove:  all’inizio  del  2014  la  produzione  industriale  risulta  più bassa di circa un quarto rispetto al picco ciclico del 2008; in Francia il livello è inferiore del 16 per cento, mentre in Germania l’attività industriale è ritornata al livello pre-crisi già dal 2011. La disoccupazione è aumentata in misura più marcata, raddoppiando dai minimi del 2007; come in altri paesi, la recessione ha pesato soprattutto sui giovani: il tasso di occupazione per quelli di età compresa tra i 15 e i 24 anni, escludendo gli studenti dalla popolazione di riferimento, è sceso al 42 per cento, dal 60 nel 2007; dal 74 al 65 per cento per la classe di età dai 25 ai 34 anni. 

L’attività economica mostra di recente segni di ripresa; alla fine del 2013 si è interrotta una nuova fase recessiva che durava da oltre due anni. Il quadro economico resta tuttavia fragile. Riprendere una crescita robusta e bilanciata, in grado di creare occupazione stabile e accrescere la produttività del lavoro, necessita inevitabilmente di azioni su vari fronti, inclusi il consolidamento di bilancio e le riforme strutturali.

La debolezza della produttività è evidente sia in chiave storica sia rispetto ai principali concorrenti;  si  è  riflessa  in  una  sfavorevole  evoluzione  della  competitività  esterna.  Nel periodo 1996-2007 la produttività oraria è cresciuta in media annua dello 0,6 per cento in Italia, più del doppio nell’area dell’euro (1,4), il triplo in Francia (1,7) e in Germania (2,0). Negli anni della crisi, tra il 2008 e il 2012, la produttività è arretrata nel nostro paese (-0,2 per cento in media all’anno), contrariamente a quanto accaduto in Francia e in Germania (0,3) e nella media dell’area (0,7).

Tali  andamenti  riflettono  principalmente  la  mediocre  crescita  di  quella  che  gli economisti chiamano produttività totale dei fattori, che dipende in misura fondamentale dal capitale umano e dalla capacità d’innovazione e organizzazione delle imprese, oltre che dal contesto istituzionale. Queste determinanti cruciali dello sviluppo presentano nel nostro paese carenze  note  e  finora  irrisolte.  È utile discuterne congiuntamente, seppur per sommi capi, anche in ragione delle pronunciate interrelazioni tra le tre variabili e della conseguente possibilità che si creino circoli viziosi.

Una crescita sostenuta della produttività richiede una forza lavoro che sappia da una parte sfruttare appieno le potenzialità delle nuove tecnologie, dall’altra adeguarsi tempestivamente alle rapide trasformazioni dell’economia mondiale. Ma conoscenze e competenze  dei  lavoratori  hanno  altresì  bisogno  di  imprese  e  imprenditori  dinamici  e competitivi che le sappiano valorizzare e aggiornare, in grado di raccogliere le sfide poste dall’innovazione e dalla globalizzazione. Spetta infine alla politica creare un contesto istituzionale più favorevole all’attività d’impresa e alla valorizzazione del capitale umano.

L’analisi congiunta è quindi funzionale alla definizione di strategie d’intervento organiche e di ampio respiro. Le criticità che hanno rallentato lo sviluppo sono molteplici e una strategia di riforma deve considerare in un quadro unitario tutte le variabili in gioco e il contributo  di  tutti  gli  agenti  del  sistema  economico:  il  settore  pubblico,  le  imprese,  i lavoratori.

 

Il capitale umano

Molti indicatori mostrano da tempo un ritardo del nostro paese nei livelli di istruzione e di apprendimento di studenti e adulti. I risultati dell’indagine PIAAC (Programme for the International  Assessment  of  Adult  Competencies),  pubblicata  dall’OCSE nell’autunno  del 2013,  evidenziano  per  l’Italia un grado elevato di “analfabetismo funzionale”, ovvero una diffusa carenza di quelle competenze – di lettura e comprensione, logiche e analitiche – che rispondono alle moderne esigenze di vita e di lavoro.

Il 70 per cento degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e articolati (siamo ultimi, a fronte di una media del 49 per cento tra i paesi partecipanti) e una quota analoga non è in grado di utilizzare ed elaborare adeguatamente informazioni matematiche (contro il 52 per cento nella media degli altri paesi). Ciò è, in parte, dovuto ai modesti livelli di istruzione formale raggiunti, ancora distanti da quelli di altre economie avanzate. Nel 2011 solo il 56 per cento della popolazione italiana nella fascia di età 25-64 aveva concluso un ciclo di scuola secondaria superiore, contro il 75 per cento della media OCSE: il divario rimane, ancorché più contenuto, anche tra le coorti più giovani (71 contro 82 per cento nella fascia di età 25-34 anni). È inoltre ancora modesta la quota dei laureati (15 contro 32 per cento nella fascia di età 25-34 anni).

È limitata anche la diffusione di formazione sul posto di lavoro: secondi i dati della quarta rilevazione europea CVTS (Continuing Vocational Training Survey), nel 2010 solo il 56 per cento delle imprese italiane con almeno 10 addetti ha svolto attività di formazione professionale per i propri dipendenti. Nonostante il notevole miglioramento – nel 2005 la corrispondente quota era pari al 32 per cento – l’Italia continua a collocarsi al di sotto della media europea (66 per cento).

È necessario quindi capire perché famiglie e imprese investano in capitale umano meno che negli altri paesi. Nell’ultimo rapporto sull’istruzione (Education at a glance, 2013) l’OCSE ha calcolato, comparando costi e benefici monetari come si farebbe per un titolo finanziario, il tasso di rendimento interno di un investimento in capitale umano. In Italia l’acquisizione di istruzione universitaria renderebbe l’8 per cento, un valore inferiore di quasi 5 punti percentuali a quello registrato nella media dei paesi dell’OCSE e di quasi 6 a quello raggiunto dagli altri paesi dell’area dell’euro. Dal punto di vista della teoria economica questo appare come un paradosso: a una più bassa dotazione di capitale umano dovrebbe infatti corrispondere, ceteris paribus, un rendimento dello stesso più elevato, trattandosi di un fattore relativamente scarso.

L’anomalia italiana può essere ricondotta a vari fattori che richiedono politiche coordinate che agiscano su molteplici fronti. È sicuramente importante accrescere la qualità del capitale umano da cui possono attingere le imprese, rendendo il sistema di istruzione scolastica e universitaria più efficiente, più attrattivo anche per studenti e ricercatori stranieri, più  differenziato  e  specializzato  al  suo  interno,  con una  maggiore  mobilità  geografica  di docenti e studenti. È poi necessario rimuovere gli ostacoli all’incontro efficiente tra domanda e offerta di competenze, ad esempio migliorando il flusso informativo fra università e mondo del lavoro o differenziando i curricula universitari adeguandoli alle reali competenze richieste nel sistema produttivo. Scuole e università dovrebbero essere maggiormente indirizzate a favorire lo sviluppo di esperienze lavorative precoci, in modo da facilitare la successiva transizione nel mercato del lavoro, anche nel quadro del piano Youth Guarantee; questo programma dell’Unione Europea si propone di garantire a tutti i giovani sotto i 25 anni non occupati e che non frequentano un corso di studi un’offerta di lavoro adeguata o l’inserimento in un percorso di formazione, entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione.

Vi è infine la responsabilità del sistema produttivo, il quale sembra continuare a prediligere  –  pur  con  importanti  eccezioni  –  tecnologie  e  settori  che  non  richiedono competenze  elevate.  Una  domanda  di  lavoratori qualificati relativamente contenuta emerge anche da preliminari evidenze sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”. L’Italia è sesta per numero di ricercatori che hanno vinto un grant ERC (European Research Council), le borse di ricerca finanziate dalla Commissione europea; tuttavia è l’unico, tra i principali paesi, per cui la maggioranza dei vincitori risiede all’estero.

Linnovazione e il contributo delle imprese alla crescita

Gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e l’innovazione accrescono l’efficienza produttiva  delle  imprese  e  dell’intero  sistema  economico;  favoriscono  lo  sviluppo  del prodotto e dell’occupazione, aumentando il benessere complessivo. In Italia la spesa in R&S, un’importante misura delle risorse impiegate per la produzione di innovazione, è bassa nel confronto internazionale e lontana dall’obiettivo del 3 per cento fissato dalla Commissione europea nella strategia UE 2020.

Una  ridotta  propensione  alla  R&S  si  riflette  in  una  scarsa  capacità  brevettuale: secondo  i  dati  dell’OCSE,  la  quota  italiana  sul  totale  dei  brevetti  depositati  presso  lo European Patent Office era nel 2010 pari al 4,2 per cento, poco più della metà della Francia, un quinto della Germania, meno di un sesto degli Stati Uniti. La rilevanza dell’Italia è ancora minore nei settori innovativi delle biotecnologie, dell’ICT e delle nanotecnologie, settori in cui i brevetti italiani sono pari a poco più del 2 per cento del totale, contro l’8 per cento della Francia, il 16 della Germania, il 34 degli Stati Uniti. In quest’ultimo paese lo straordinario sviluppo di tali settori sta ridisegnando la mappa della crescita e la nuova geografia dei lavori, come  recita  l’ultimo  libro  di  Enrico  Moretti,  professore  di  economia  all’Università  di Berkeley, California. L’espansione dei settori innovativi costituisce infatti il principale motore della crescita della produttività e dell’occupazione: si stima che a ogni nuovo lavoro high-tech creato in una data area metropolitana si associno cinque nuovi posti di lavoro in altri settori, spesso anche nei servizi a più basso contenuto di istruzione e competenze.

L’utilizzo di indicatori quali la spesa in R&S o il numero di brevetti comporta inevitabilmente  una  sottostima  dello sforzo innovativo, soprattutto nei paesi, come l’Italia, dove dominante è la presenza di imprese di dimensione piccola e media, che tipicamente innovano senza registrare ufficialmente spese in R&S. Tuttavia, le innovazioni realizzate da queste imprese sono spesso soltanto incrementali, portano alla realizzazione di prodotti che sono nuovi per l’impresa ma non per il mercato; ne risulta nel complesso affievolito l’effetto sul potenziale di crescita.

Un  dato  incoraggiante  emerge  dalle  start-up  innovative  iscritte  nel  registro  delle imprese in base al decreto legge cosiddetto “Sviluppo bis” dell’ottobre 2012: sono circa 1.800 imprese che per oltre il 60 per cento operano nei settori high-tech, in particolare nelle biotecnologie  e  nell’ICT.  Ma  in  Italia  l’attività  innovativa  risente  negativamente  della modesta  capacità  delle  politiche  pubbliche  di  creare  un  ambiente  dinamico,  favorevole all’innovazione. Come risulta anche dagli indicatori Doing Business della Banca mondiale, l’allocazione  delle  risorse  verso  le  imprese  più  innovative  è  frenata  da  un  contesto istituzionale che ostacola l’avvio e lo svolgimento dell’attività di impresa e da una regolamentazione talvolta troppo restrittiva.

Il contributo delle imprese è imprescindibile, gli imprenditori devono cogliere le sfide del cambiamento, puntando sull’innovazione, sulla capacità di partecipare attivamente alle filiere produttive globali e di essere presenti sui mercati esteri più dinamici. Alcune lo hanno già  fatto,  altre  –  purtroppo  una  maggioranza  così  ampia  da  condizionare  le  statistiche aggregate – ancora stentano.

Innovazione   e   internazionalizzazione   si   rafforzano   vicendevolmente,   sono   due componenti di una medesima strategia di successo. L’internazionalizzazione, favorendo l’ampliamento e la diversificazione dei mercati di sbocco, accresce il rendimento netto degli investimenti in progetti innovativi. L’innovazione di processo accresce l’efficienza e quindi la competitività di costo dell’impresa, quella di prodotto sostiene la competitività cosiddetta non di prezzo: in entrambi i casi ne beneficia la capacità di accedere a nuovi mercati internazionali e a espandersi in quelli su cui si è già presenti.

È noto che la dimensione aziendale, pur con le necessarie qualificazioni del termine, appare cruciale nell’influenzare l’insieme delle decisioni strategiche dell’impresa. La piccola dimensione rende più difficile assorbire i costi fissi connessi con l’avvio di un’attività di esportazione o di produzione all’estero e con le asimmetrie informative sulle modalità di accesso ai mercati esteri; non consente di beneficiare delle economie di scala insite nell’innovazione tecnologica e in tutte quelle altre attività a monte e a valle della produzione – marketing, pubblicità, reti distributive – che sono fondamentali per accrescere la capacità competitiva.

È naturale – accade in tutti i paesi – che le nuove idee imprenditoriali in una prima fase prendano la forma di imprese di piccola dimensione; è meno naturale che, come accade in Italia, la gran parte di queste aziende rimanga intrappolata in scale produttive ridotte, sembrando priva del notevole potenziale di crescita tipico delle start-up innovative che stanno guidando l’attuale rivoluzione tecnologica nel mondo. L’espansione del perimetro aziendale, il rafforzamento della capacità di innovazione e di internazionalizzazione richiedono alle imprese di saper intraprendere profondi processi di trasformazione, modificando la propria struttura finanziaria – anche con l’investimento di risorse proprie – e adeguando gli assetti proprietari, la governance e i modelli organizzativi.

Il   miglioramento   della  competitività  delle  imprese  passa  in  misura  importante attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano di cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema di istruzione e di ricerca. A questo riguardo, studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività.

Nel  confronto  con  gli  altri  principali  paesi  avanzati,  la  struttura  finanziaria  delle imprese italiane è più sbilanciata verso l’indebitamento. È un tratto strutturale che dipende anche dalla scarsa propensione delle imprese ad aprire l’azionariato a investitori esterni. Altri aspetti,  di  natura  più  congiunturale,  vi  hanno  contribuito  negli  anni  precedenti  la  crisi: condizioni di offerta del credito molto favorevoli e una marcata attenuazione, dal 2001, delle agevolazioni fiscali per gli aumenti di capitale previste dalla Dual Income Tax, poi abolita nel 2004. Il grado di leverage delle imprese è aumentato di oltre 10 punti percentuali dall’inizio dello scorso decennio, raggiungendo il 47 per cento nel terzo trimestre 2013, contro il 41 della Germania e il 31 della Francia. Alla crescita dell’indebitamento non ha corrisposto un rafforzamento  della  capacità  delle  imprese  di  sostenerne  il  costo:  il  rapporto  tra  oneri finanziari e margini lordi è progressivamente aumentato.

Un maggior contributo del capitale nella struttura finanziaria delle imprese, oltre a renderle meno vulnerabili nelle fasi negative del ciclo, consentirebbe di finanziare più agevolmente progetti caratterizzati da rischi e rendimenti elevati come quelli legati all’innovazione  e  all’internazionalizzazione.  Gli  incentivi  sono  recentemente  mutati  nella giusta direzione. Limiti più stringenti alla deducibilità degli interessi pagati sul debito e la possibilità di dedurre, dal 2011, un rendimento figurativo dei nuovi apporti di capitale hanno in buona parte riequilibrato il trattamento fiscale del capitale di rischio rispetto a quello di debito. 

Le imprese non potranno che trarre vantaggio da questo mutamento di incentivi nelle loro scelte di finanziamento, anche se la difficile fase congiunturale ne rallenta gli effetti. Un segnale positivo emerge dal maggiore interesse per la quotazione in borsa. Dal gennaio 2013 si sono quotate oltre venti imprese italiane, il numero più elevato dal 2007; altre hanno annunciato l’intenzione di farlo. Le quotazioni hanno riguardato in larga parte società non finanziarie di piccole e medie dimensioni e si sono concentrate nel mercato alternativo del capitale  (AIM),  che  ha  costi  di  ammissione  e  requisiti  regolamentari  inferiori  rispetto  al mercato  principale.  Ampliare  il  ricorso  al  capitale  richiede  alle  imprese  un impegno  ad accrescere la trasparenza dei bilanci e l’apertura a soggetti esterni.

Proseguendo  nel  consolidamento  della  propria  dotazione  di  capitale,  le  banche potranno assicurare un più adeguato sostegno finanziario alle imprese; è altresì importante per gli intermediari possedere un’attitudine nei confronti del credito legata alla qualità delle stesse imprese, al loro impegno a porre in essere i necessari processi di riorganizzazione. Per il finanziamento dei loro investimenti le imprese potranno inoltre ricercare nuove risorse da affiancare  ai prestiti bancari. È nell’interesse delle banche favorire un più ampio accesso diretto delle imprese ai mercati del capitale, mirando a mantenere un rapporto equilibrato tra impieghi e depositi, condividendo con il mercato i rischi insiti nei finanziamenti alla clientela, evitando l’emergere di conflitti di interesse.

 

*** 

Una ripresa robusta e duratura della crescita dell’economia italiana costituisce il necessario presupposto per il progressivo riassorbimento della disoccupazione e per offrire concrete  prospettive  occupazionali  ai  cittadini  tutti  e  alle  generazioni  più  giovani  in particolare, le più colpite dalle crisi; è funzionale a rafforzare la sostenibilità delle finanze pubbliche e la stabilità finanziaria di banche e imprese. 

La  ripresa  della  crescita  richiede  di  affrontare  risolutamente  i  nodi  strutturali  che hanno frenato l’economia italiana già prima delle crisi e ne hanno aggravato le conseguenze. Non si tratta solo di rimuovere gli ostacoli all’investimento in capitale umano e recuperare i ritardi  accumulati  nell’adozione  di  nuove  tecnologie;  sono  necessari  comportamenti  e politiche  volti  a  stimolare  gli  investimenti  fissi  –  al  tempo  stesso  fattore  di  offerta  e componente fondamentale della domanda – e a innalzare le frontiere della conoscenza e della tecnologia, in ultima analisi, la crescita del Paese.

Per lungo tempo, l’influenza negativa di un contesto istituzionale poco favorevole all’attività imprenditoriale sulla competitività e sulla sua capacità di attrarre investimenti dall’estero è stata sottovalutata. Va riavviata e intensificata l’azione riformatrice in questo ambito, con l’obiettivo prioritario di snellire un quadro normativo complesso e ridondante, definendo per l’attività economica regole chiare, facilmente applicabili e stabili nel tempo; utili a stimolare la concorrenza e favorire la riallocazione delle risorse verso le attività a più alto potenziale di sviluppo.

È altresì cruciale intervenire sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, che sono chiamate ad applicare tali norme, innalzandone i livelli di efficienza e di efficacia e favorendone la trasformazione da soggetti che, nella percezione di molti imprenditori, costituiscono un ostacolo all’attività economica, a promotori di sviluppo e innovazione. Al riguardo, gli interventi previsti dall’Agenda Digitale, ai quali va data rapida attuazione, costituiscono un’opportunità di rilievo. Il contributo della scuola e dell’università resta altresì fondamentale per generare le competenze richieste dalle nuove strutture produttive; ne ho discusso ampiamente solo poche settimane fa all’ANVUR in occasione della presentazione di un rapporto sulle competenze dei laureandi italiani.

Lo sforzo di cambiamento richiesto ai soggetti pubblici e ai policy-maker deve essere accompagnato da un altrettanto profondo mutamento del settore privato, delle imprese e dei lavoratori. La sfida per le imprese è di realizzare un salto di qualità di prodotto e di processo, che le porti a essere più grandi, più tecnologiche, più internazionalizzate, così da agire quali incubatrici di una delle più rilevanti dimensioni del capitale umano: la capacità d’innovare. Il rafforzamento del capitale delle imprese può facilitare una più intensa attività innovativa.

Attraverso una maggiore patrimonializzazione, anche con risorse proprie, gli imprenditori potranno dimostrare direttamente la fiducia nelle prospettive delle loro imprese, così facilitando il reperimento di risorse aggiuntive da intermediari e risparmiatori. Una maggiore diversificazione delle fonti di finanziamento permette alle imprese di ridurre la dipendenza   dal   credito   bancario,  migliorando  la  capacità  di  resistenza  agli  shock  e contribuendo al tempo stesso allo sviluppo del mercato dei capitali.

L’investimento in conoscenza è da tempo presente tra i miei interessi di studio; l’accumulazione di capitale umano e l’innovazione sono tra i temi oggetto di costante analisi da  parte  della  Banca  d’Italia  in  considerazione  del  loro  ruolo  cruciale  per  la  crescita economica, condizione altresì necessaria per la stabilità finanziaria. Per concludere, mi sembra opportuno sottolineare che i benefici di questo investimento vanno ben oltre i rendimenti monetari e i contributi alla crescita; si estendono alla società nel suo complesso attraverso gli effetti positivi indiretti su una serie di fattori di contesto: lo stato di salute, la coesione sociale, il senso civico, il rispetto delle regole, la propensione al crimine. Ne vengono accresciute fiducia e cooperazione tra i componenti della collettività, rafforzato il capitale sociale.

*Governatore della Banca d’Italia, intervento al Convegno biennale del Centro Studi della Confindustria “Il capitale sociale:la forza del Paese” Bari 29/o3/201

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