Nel discorso al Senato prima e alla Camera dopo, in occasione della verifica di cui sappiamo tutto, Letta ha affrontato molte questioni programmatiche ma una è sembrata una novità assoluta: ha ripetutamente fatto riferimento alla cultura e all’istruzione.
In più parti del suo intervento, questa dimensione della linea governativa è stata sottolineata con vigore e orgoglio e ciò ha dato oggettivamente un valore persuasivo all’affermazione che “la cultura e l’educazione devono essere il centro della nostra ripartenza”.
Sia chiaro, nei decreti di agosto (Valore cultura) e settembre (L’istruzione riparte) non ci sono provvedimenti strabilianti, non si prevedono interventi finanziari possenti. Ma si intravvedono inversioni di tendenza, rispetto ad un passato, anche recente, contrassegnato da misure restrittive e umilianti un po’ per tutti: insegnanti, studenti, famiglie.
I numeri sono eloquenti. Tra il 2007 e il 2012, mentre venivano mantenuti stabili i finanziamenti statali alle scuole private, in quelle pubbliche i tagli negli investimenti sono stati del 12,8% reale e di 9 miliardi 748 milioni di euro in meno, in termini assoluti. Con i Governi di centro destra è diventata concreta l’idea che anche la scuola pubblica deve essere cofinanziata dalle famiglie, se vogliono che le pareti delle classi siano pulite, che la carta igienica non manchi nei gabinetti, che le fotocopiatrici funzionino. Con i Governi di centro destra è diventata pratica diffusa che le classi siano sovraffollate, che gli insegnanti debbano pensarci da soli ai supporti didattici, che gli edifici scolastici (oltre il 60%, secondo uno studio del Ministero dell’Economia del 2006) funzionino senza rispettare le norme di sicurezza.
Il Governo Letta ora è di nuovo in sella e deve dare seguito alle affermazioni espresse in Parlamento. Compresa quella relativa alla cultura. Ne va di mezzo la qualità del sapere delle giovani generazioni e lo spessore delle professionalità che sono necessarie per qualificare lo sviluppo futuro. L’aveva già capito Platone. Nella Repubblica (IV, 425b) si legge: “l’impronta iniziale che uno riceve dall’educazione, segna anche tutta la sua condotta successiva”. Priorità, dunque, all’ ammodernamento della scuola di base, alla lotta all’abbandono scolastico, dato che l’impoverimento delle famiglie fa crescere il fenomeno, all’inclusione multietnica che i bambini sanno realizzare meglio degli adulti. E poi, vengono anche la valorizzazione della scuola media e superiore, la riqualificazione di quella professionale, la crescita della partecipazione agli studi universitari e alla ricerca, migliorando il rapporto tra gli atenei e i privati.
Il nostro Paese ha bisogno di tanta innovazione, in ogni settore della vita collettiva per migliorare le proprie possibilità di recupero di quanto è stato perso negli ultimi cinque anni e predisporci ad essere competitivi nel futuro. Molti si sono cimentati nella definizione di cosa è l’innovazione. Ce n’è una arguta di Nicholas Negroponte, cervellone del Mit, che suona così: “essere innovativi è l’opposto di quello che tutti i genitori si aspettano dai loro bambini, quasi tutti i dirigenti vogliono dalle loro aziende e che i capi di Stato esigono dai loro Paesi”. Arguta, ma anche agrodolce. Meglio ripiegare su una densa elaborazione dello stesso Mit (MIT Technology Review “Doing business 2013”) che sostiene che occorre la convergenza di tre fattori: industrie che investono, sostegno pubblico alle start-up, università altamente qualificate. E quindi si torna all’educazione, alla sua funzione propulsiva.
Avremo un lungo periodo di centralità della questione lavoro, purtroppo. La disoccupazione manuale e intellettuale farà fatica a scendere sotto le due cifre. Ma il brodo si allungherà ulteriormente se non faremo convergere quei tre fattori, se non daremo a chi entra nel mondo del lavoro e a chi un lavoro l’ha perso e ne cerca un altro quel tasso di educazione necessario per sostenere l’impatto con le innovazioni, per favorire l’utilizzo di alta tecnologia, per evitare precarietà o obsolescenza precoce. La sfida è nei fatti. L’ha compresa la Spagna che ha avuto un ‘evoluzione della spesa pubblica in istruzione eclatante. Secondo i dati dell’Eurostat, tra il 2000 e il 2010 è cresciuta del 42%, meglio degli Stati Uniti (30,23) e della Germania (19,15). L’incremento medio europeo è stato del 26,22% e l’Italia è praticamente il fanalino di coda: soltanto un misero 3,24%.
Non bastano gli incentivi, la riduzione del cuneo fiscale, gli ammortizzatori sociali. Da soli tamponano e danno un po’ di respiro. Curano la febbre, ma non la malattia. Nel medio e lungo periodo contano quei tre fattori, che vanno progettati, coordinati, piazzati nei punti giusti. Si torna sani e robusti se si decide ora per allora che gli italiani devono essere educati in modo eccellente, che occorre avere industrie eccellenti, che vanno utilizzati in “hab dell’innovazione” eccellenti. Il Paese deve essere portato a credere che questo sforzo è fattibile. Viene da troppi anni d’incuria, di delusioni, di sbeffeggi della cultura. Soltanto adesso, s’intravede un impegno serio per Pompei, ma si sapeva da tempo che quel sito d’importanza mondiale stava deperendo e per giunta, per mano camorristica.
Se i segnali di controtendenza si moltiplicassero, la gente comprenderebbe che esiste una volontà politica non effimera. Si renderebbe conto che la stagione, purtroppo lunga, dell’illusione di una crescita nella spensieratezza e nell’incultura va declinando. Si potrebbe predisporre ad accogliere la fatica della conoscenza, la gravosità della eccellenza come prezzo giusto per un futuro nient’affatto banale e distante da tanti altri Paesi che si sono meglio attrezzati. Tutto questo non può avvenire d’incanto. Ci vuole un impegno costante verso gli insegnanti, da gratificare in termini di dignità di ruolo e di considerazione sociale. Ci vuole un messaggio netto verso gli studenti circa il valore premiante dello studio e del merito per il loro futuro. Ci vuole un nuovo coinvolgimento delle famiglie nella riprogettazione della scuola come comunità piuttosto che parcheggio sociale. E ci vuole un rapporto onesto tra scuola, università e mondo produttivo per rendere feconda una collaborazione inevitabile, ma nello stesso tempo possibile senza che le prime due vendano l’anima al terzo.
In altri termini, è necessario un generale clima di resilienza, di adattamento al cambiamento, trasformando le incertezze in occasioni e i rischi in innovazione. E tutto ciò, non si può fare con gli spot, con i provvedimenti una tantum, ma con politiche di lungo respiro.