La legge di stabilità proposta dal Governo offre molti motivi di soddisfazione, ma anche molti motivi di discussione. Innanzitutto è stato rilevato che si tratta di una manovra all’insegna della ricerca dello sviluppo perduto. La espansività della manovra è assegnata a una spinta alla domanda interna, sostenuta dai consumi delle famiglie.
L’altro perno della manovra dovrebbe essere il sostegno agli investimenti, sia delle imprese, a cui si sono alleggeriti tassazione sul lavoro e parzialmente sulla ricerca, che delle amministrazioni comunali, a cui è stato allargato il cappio del vincolo imposto dal fiscal compact europeo.
Sul lato degli stimoli alle assunzioni, la misura che mi sembra più efficace è quella riferita agli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato, che esprime un indirizzo inverso rispetto al passato ove si sostenevano, favorivano, incentivavano assunzioni sempre più precarie.
Sul lato delle coperture come si è detto siamo alla somma di interventi ancora da specificare, al di là dei numeri complessivi. Mi soffermo solo sul caso delle Regioni, che mi sembra siano cadute nella trappola retorica dello scontro tra il premier che si presenta come innovatore e delle amministrazioni regionali che fanno ancora una volta la parte della conservazione e della difesa degli interessi indicibili della politica.
Dal 2010 ogni finanziaria — anche se ribattezzata elegantemente legge di stabilità — ha tagliato i fondi alle Regioni e agli Enti locali. I numeri sono numeri. La risposta è stata differenziata Regione per Regione. Vi sono Regioni che hanno tagliato mantenendo i conti a posto, anzi migliorando nell’efficienza e Regioni ancora lontane o addirittura in default, come il Molise, per il quale in questa finanziaria vi sono provvidenze specifiche.
Se dobbiamo procedere, allora bisogna che al nuovo Titolo Quinto, che specifica le funzioni lasciate alle Regioni, si aggiunga un nuovo modello di fiscalità che permetta di sostenere queste funzioni, separando nettamente nelle tasche del cittadino cosa serve a finanziare le attività svolte dall’Amministrazione centrale, cosa attribuire alle Regioni in cambio delle loro attività, ai Comuni per le prestazioni e funzioni fornite a livello locale.
Se le Regioni spendono male si introducano i famosi costi standard, ma se una Regione ha raggiunto quei costi standard per quei livelli essenziali di assistenza, ritenuto necessari in tutto il Paese, allora i risparmi conseguiti rimangano alle Regioni per spingere ad esempio a maggiori investimenti in ricerca, oppure per favorire investimenti nel settore del sociale o del socio-sanitario, anche favorendo quell’associazionismo solidale, che comunque dovrà in futuro garantire servizi a una popolazione sempre più anziana.
In altre parole evitiamo la ricerca dello scontro e concentriamoci sulle riforme strutturali.
(*) Assessore Scuola, Formazione professionale, Università e ricerca, Lavoro Regione Emilia-Romagna