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La politica vera si fa fuori dai partiti*. Intervista a F.Barca (**)

Fabrizio Barca, il suo nome compare tra gli ospiti della tre giorni organizzata dal Pd a Bologna, dal 15 al 17 novembre, “Tutta un’altra storia”. Cosa proporrà al suo ex partito?

Dalle parole di Zingaretti e Cuperlo che ho sentito, il Pd si mette in una posizione di ascolto della cultura politica e delle organizzazioni di cittadinanza, e quindi anche del Forum disuguaglianze e diversità. Quello che serve sono radicalità e capacità di costruire ponti. Noi ci permettiamo di essere radicali, nel senso che le nostre proposte danno potere alle persone. In questo modo tutto assume vita.

È più politica quella che fa oggi o quella che faceva prima?

Quella che faccio oggi. Ho fatto il ministro del governo Monti, un governo d’emergenza in cui eravamo dei tecnici che si davano da soli una missione. Ho provato a fare politica successivamente, con il progetto dei “Luoghi ideali” del Pd, perché ero convinto che il partito potesse essere un centro di rivitalizzazione della sinistra sfruttando la straordinaria potenza delle unità territoriali e il mix di culture da cui è nato. Abbiamo provato a suggerire delle modifiche organizzative che il Pd avrebbe potuto darsi. Continuo a pensare che tutto quello che abbiamo prodotto fosse utile. Però, con tutta franchezza, a un certo punto uno si stufa quando propone metodologie e nessuno ti sta a sentire. Quindi sono tornato ai contenuti.

 

Una delle caratteristiche del Forum è quella di mettere insieme anime diverse, dalla Caritas alle fondazioni. Il mix delle anime diverse può essere la soluzione per la rinascita della sinistra italiana?

È una condizione importante, ma a patto che quando le diverse anime si incontrano non parlino di sé stesse ma di contenuti. Il Pd è nato attraverso l’incontro tra diverse anime, ma è sembrato che i contenuti siano stati accantonati. Come se il modo per stare assieme fosse solo quello di parlare di loro stessi. Le anime si incontrano e si piacciono non se si trovano belle, ma se trovano bello quello che fanno assieme. Se trovano bello il modo di mescolare e intersecare i contenuti.

 

Ha fatto bene Renzi a fondare Italia viva?

No, meglio rimanere insieme e mettere insieme le anime a ogni costo. Perché nell’operazione di Renzi non vedo nessuna anima. Lui non si è portato via nessuna anima dal Pd, neanche quella liberale di cui parla. Ha portato via soltanto la parte peggiore della storia del Partito democratico, cioè il guardarsi in faccia e dirsi quanto siamo belli. Ed è forse un pregio per il Pd avere perso questo autoinnamoramento e autoincensamento. Non vedo alcuna anima nell’operazione che Renzi ha fatto.

Renzi ha portato via dal Pd soltanto la parte peggiore della storia del partito, cioè il guardarsi in faccia e dirsi quanto siamo belli. È forse un pregio per il Pd avere perso questo autoinnamoramento.

Tornando ai contenuti, appunto, come vede dal punto di vista del Forum la manovra che si sta discutendo?

Vedo alcune cose giuste, che non avremmo visto nel governo che governava l’Italia 12 mesi fa. Come il rifinanziamento della strategia per le aree interne, che la stolidezza della burocrazia romana aveva paralizzato sabotandola negli ultimi mesi. Vedo poi cose giuste in alcune misure sulle università, sulla certezza del personale a scuola e anche sull’ambiente. Quello che non vedo è una strategia. Delle disuguaglianze parlano molti, ma manca ancora la diagnosi. Manca la risposta alla seguente domanda: ma perché le disuguaglianze sono aumentate in maniera così significativa? La risposta è che sono state fatte scelte erronee anche nei governi di centrosinistra e anche nei governi in cui stava il Pd negli ultimi 30 anni. Come affidare lo sviluppo delle proprie città con una inversione di ruoli tra politica e grandi corporation. I grandi e piccoli poteri immobiliari hanno dettato le regole di sviluppo delle città e non il contrario.

L’Italia deve essere grata alla “piccola Milano” perché dà creatività, connessione internazionale, investimenti ecc. Ma perché divenga esempio di città, non solo centro di ricchezza per il Paese, ma per i milanesi, è necessaria la seconda fase dell’equità sociale

A proposito di città, cosa pensa della polemica nata dopo le dichiarazioni del ministro Peppe Provenzano sul ruolo di Milano che «prende senza restituire»?

Il Paese va trattato nello stesso modo, non ci sono travasi da una parte all’altra, ma estrazione di rendita da alcuni ad altri, ovunque siano. Per questo ha ragione Gianfranco Viesti nella sua battaglia contro il regionalismo differenziato, dove i diritti diventano delle Regioni, non delle persone. Le periferie di Milano, di Torino, di Genova, di Parma vanno affrontate con gli stessi metodi. Il Sud è l’area del Paese che può beneficiare più di tutte da un miglioramento del metodo nazionale. Non ha bisogno di metodi per il Sud. Se faccio il “metodo aree interne”, è un metodo per tutto il Paese. Ho visto parlare la Val Maira e le Madonie come due territori che stanno a pochi metri di distanza, perché condividono gli stessi problemi e le stesse operazioni. Una persona delle periferie di Napoli può dialogare con una persona delle periferie di Torino, se si esce da questa logica sudismo-nordismo.

Nel corso de Linkiesta Festival, il sindaco di Milano Beppe Sala ha detto che il “modello Milano” ora deve lavorare sull’equità sociale. È d’accordo?

Sviluppo ed equità non sono due cose separate. Se si lavora sull’equità si dà il volano a Milano, ma non a quella Milano piccola piccola, quella che serve al Paese, ma non è tutta la città. L’Italia ha bisogno di quella Milano e deve essere grata alla “piccola Milano” perché dà creatività, connessione internazionale, investimenti ecc. Milano però è il resto. Se viene perseguita l’equità sociale nel resto di Milano, parte la Milano vera, cioè la città. Perché divenga esempio di città, non solo centro di ricchezza per il Paese, ma per i milanesi, è necessaria la seconda fase dell’equità sociale. Equità per l’equità e come premessa di sviluppo.

 Da equità come premessa di sviluppo, all’ambiente come premessa di sviluppo, si arriva all’Ilva. Lei da ministro della Coesione territoriale firmò nel 2012 il Protocollo d’intesa per il risanamento ambientale di Taranto. Perché sette anni dopo siamo punto e a capo?

La situazione che ci trovammo dinanzi al naso in quella notte, quando lo stesso Mario Monti concordò di utilizzare la minaccia della nazionalizzazione, ci restituì il senso di una situazione compromessa in maniera drammatica. La contrapposizione che si ripropone è tra gli interessi del lavoro e della produttività, che coincidevano con l’interesse nazionale di avere l’acciaio, e quelli dell’ambiente e dei cittadini. Ma è una contrapposizione lacerata sin dall’inizio, sin dalla dimensione stessa dell’Italsider. L’Ilva viene sin dall’inizio costruita in una dimensione e una scala eccessiva rispetto alle esigenze del Paese. Anche nei momenti di massimo utilizzo, si rimane sempre al di sotto della capacità produttiva. Cosa vuol dire? Sin dall’inizio Italsider è insieme un pezzo del meglio delle partecipazioni statali, ma anche della degenerazione per cui le partecipazioni statali sono concepite come uno strumento per dare posti di lavoro. In questo errore dimensionale, accompagnato dall’errore sul metodo di approvvigionamento su gomma e non su rotaia, più la disattenzione assoluta all’ambiente sta tutta la problematica di Taranto.

Cosa propone?

Noi abbiamo una proposta, ma non per Taranto. Ho rispetto per questo governo che sta cercando di risolvere una situazione così complessa e non mi permetterei di fare proposte. Ma abbiamo una proposta per evitare altre Taranto. Una forma di “partecipazione strategica”. E cioè la formazione dei Consigli del lavoro e della cittadinanza, e cioè l’idea di affiancare al consiglio d’amministrazione delle aziende un consiglio del lavoro dove vengono eletti tutti i lavoratori della filiera produttiva. In quel consiglio, anche i cittadini eleggono i loro rappresentanti per tutelare le loro istanze ambientali. Il consiglio in alcuni casi viene solo informato, in alcuni casi viene informato e ha potere di controdeduzione, in alcuni casi ha potere di veto. Per evitare altre Taranto, in un Paese che ha bisogno del manifatturiero, serve questo tipo di “conflitto organizzato” da affiancare a qualunque impianto, a qualunque progetto di transizione industriale. Se ci fosse stato un consiglio del lavoro e della cittadinanza a Taranto, non nel 2012 ma nel 2000, si sarebbero potuti decidere e realizzare gli investimenti che eviterebbero la situazione di contrapposizione di oggi.

(*) da L’inkiesta 14/11/2019

(**) Economista e politico italiano. Coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità

 

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