Dall’inizio di maggio, l’Italia ha progressivamente allentato le misure di contenimento sociale rese necessarie dal Covid-19 ed è entrata nella cosiddetta fase 2. Al lento calare dei contagi, il Governo ha riaperto dapprima le fabbriche, poi i servizi personali, infine i viaggi e le attività di intrattenimento. Manca all’appello la scuola, che, come noto, rimarrà chiusa fino a settembre: l’unica parziale eccezione saranno gli esami di maturità che, secondo l’ordinanza della ministra Azzolina, si terranno in presenza a giugno. La mancata riapertura delle scuole ha scatenato numerose polemiche, soprattutto da parte dei genitori con figli piccoli, che si trovano compressi fra la necessità di tornare al lavoro e l’impossibilità di lasciare i bambini da soli a casa. Con il diretto coinvolgimento dei Comuni, sono allo studio caute e limitate sperimentazioni estive a favore della fascia 0-6. Per tutti gli altri, l’appuntamento è rimandato. A scuole chiuse, è impossibile, anche simbolicamente, parlare di un ritorno alla vita normale. D’altronde, sappiamo che scuole e università sono potenziali focolai di una rapida ripresa del contagio: ogni giorno, la frequenza dei contatti è all’incirca doppia rispetto agli uffici. La prudenza del governo e degli scienziati riguardo alla ripresa dell’attività didattica è quindi più che giustificata.
Ma a settembre che riapertura sarà? In primo luogo, dobbiamo augurarci che non sia un’apertura “a scacchiera”, come potrebbe avvenire se dopo l’estate si verificassero nuovi episodi epidemici in alcune aree. Ma se anche la pandemia rimarrà sotto controllo, il vero problema è che gli edifici, l’organizzazione della giornata scolastica e la composizione delle classi nella maggior parte degli istituti italiani non sembrano in grado di garantire il rispetto delle misure precauzionali, che la fase 2 richiederà. In particolare, un distanziamento fisico adeguato a prevenire nuovi contagi, magari da soggetti asintomatici, come spesso sembra siano i giovani che contraggono il virus.
Il primo problema di distanziamento riguarda già i flussi verso la scuola e l’arrivo a destinazione. Nel tragitto da casa, moltissimi studenti affollano i mezzi pubblici; arrivati davanti a scuola, inevitabilmente si creano assembramenti fra i più grandi e forse ancor più fra i piccoli, accalcati sui marciapiedi con genitori e nonni. Spesso, poi, l’accesso all’edificio avviene attraverso un’unica entrata; anche sulle scale e nei corridoi (come pure nelle mense) non sarà facile tenere distanziate frotte di ragazzi.
Il problema è ancora più serio in aula, dove si trascorrono molte ore. In Italia la numerosità media di una classe di scuola primaria è di 19 alunni (con l’8% sopra 24), alle medie di 21 (con il 14% sopra 24), alle superiori di 22 (con il 17% sopra 24, che diventa il 38% per le prime classi). Le norme in vigore dal 1975 (ma il 60% delle scuole è stato costruito prima e con criteri più angusti) prevedono che la superficie netta per studente prevista per le attività didattiche vari dai 1,80 mq dalle materne alle medie fino ai 1,96 mq per le superiori. Un semplice calcolo fa capire che la superficie indicata dalla normativa non sarà sufficiente a garantire il distanziamento minimo (almeno un metro lineare in ogni situazione, ma molti scienziati ne ritengono necessari due negli ambienti chiusi ove più persone soggiornano per un tempo significativo). Per ottenerlo a numerosità delle classi invariata, tenendo conto che in aula i ragazzi devono muoversi e ci vuole anche spazio per il docente, servirebbero aule di dimensioni di non inferiori a 60mq, probabilmente di più. Ma non è questa – temiamo – la situazione delle scuole italiane. Ad esempio, la lettura di una ricerca dell’Università La Sapienza e del Comune di Roma sulle scuole capitoline suggerisce che le dimensioni delle aule di rado superano i 50mq. Inoltre bisognerà considerare l’affollamento nei corridoi e negli spazi comuni. Di conseguenza, il numero degli studenti per ogni classe e presente contemporaneamente in ogni scuola dovrà essere in moltissimi casi ridotto.
Come affrontare il problema? In primo luogo, bisognerà decidere chi rientrerà per primo a scuola: in molti paesi, come la Danimarca, si è cominciato dagli allievi più piccoli, per cui la didattica a distanza è molto meno efficace (aiutando, in questo modo, a far ritornare entrambi i genitori al lavoro); in Germania si privilegiano gli studenti che devono sostenere gli esami di fine ciclo; in Francia, infine, avranno la priorità i figli dei lavoratori considerati essenziali, sia nelle zone verdi (dove tutti possono ritornare a scuola) sia in quelle rosse (dove i rischio è ancora elevato). In Italia, l’orientamento ministeriale sembra essere di riaprire tutte le scuole, di qualsiasi ordine, nello stesso momento, anche se le condizioni di età e regione rimangono diverse. Ma il tema di a chi dare nel caso la preferenza (fra questi, gli allievi con disabilità e in generale i più fragili) comincia a essere discusso. In secondo luogo, occorrerà cercare di individuare nuovi spazi utilizzabili per l’insegnamento, in modo da accomodare le classi dimezzate: ad esempio, cortili, giardini, aule magne, palestre.
Infine, si dovrà organizzare in modo diverso la giornata scolastica, adottando turnazioni degli studenti. Due sono le ipotesi principali a questo riguardo. La prima è di alternare una parte della classe fra le diverse materie: ad esempio, alla prima ora, una metà degli studenti segue italiano, l’altra matematica, salvo poi invertirsi l’ora dopo: chiaramente, questo comporta un considerevole allungamento dell’orario scolastico al pomeriggio – per fare lezione in presenza a tutti – e un aumento delle ore di insegnamento in aula e degli organici dei docenti. Maggiori costi e impegno orario che rendono questa soluzione difficilmente perseguibile. L’altra ipotesi è di alternare fra scuola in presenza e didattica a distanza, per quel che riguarda tutta la classe (ad esempio tre giorni in aula, tre a casa) o parte di essa (metà degli studenti rimane a casa ogni giorno): qui la difficoltà è soprattutto di natura didattica, nel senso che è molto complesso organizzare un insegnamento che sia efficace sia per chi sta in aula sia per chi è online. In generale, sarebbe ragionevole adottare soluzioni “a misura” di ogni istituto, anzi di ogni plesso, a partire dalle caratteristiche dell’edificio e di tutte le variabili organizzative, in conformità a linee guida articolate e chiare definite dal governo. Sarà allora fondamentale definire bene il processo di governance e a chi tocca prendere le decisioni per ciascuna scuola: i DS dovranno assumersi responsabilità importanti, con la fiducia di non essere abbandonati e venire tutelati per quanto non sarà in loro potere.
Qualunque sia la soluzione adottata, vi è un’altra ragione per cui la ripresa a settembre non sarà normale. L’ammontare ridotto di scuola che gli studenti hanno sperimentato da marzo in poi imporrebbe di dedicare le prime settimane a un recupero a tappe forzate di quanto non è stato possibile fare quest’anno, con particolare attenzione a chi è rimasto indietro. Per farlo, servirebbe però avere tutti i docenti in aula dal primo giorno. Ma da anni ciò non avviene e nel prossimo andrà ancora peggio: il termine per le nomine in ruolo è stato infatti posticipato al 15 settembre e si prevede un numero record di supplenti, anche più di 200mila. Perché non congelare la mobilità, facendo in modo che gli attuali insegnanti completino e consolidino nella stessa scuola il percorso avviato, anche attraverso la didattica a distanza, in quest’anno tormentato ed eccezionale? Si garantirebbe così agli studenti la continuità didattica, e si ridurrebbe il rischio di avere lacune gravi negli apprendimenti e – per quelli più fragili – di rimanere irrimediabilmente indietro.
*Presidente della Fondazione Agnelli