Nella rilevazione trimestrale dell’Istat sull’occupazione colpisce in particolare la durata dei contratti a tempo determinato: uno su tre non supera i 30 giorni.
Una parte dei dati della rilevazione trimestrale sul mercato del lavoro fatta dall’Istat erano già noti. Il confronto viene effettuato con il I° trimestre di quest’anno e con l’analogo trimestre del 2021. Forse sarebbe però necessario che il confronto si ampliasse anche al 2019 (anno pre-pandemico) per capire meglio l’effettivo recupero, ad esempio, delle Ula (unità di lavoro, ndr). Solo nel trimestre preso in esame tornano a quel livello (+0,6% II° trim. 2019/2022).
Quello che colpisce negativamente in questa nuova rilevazione, sono ancora una volta, i dati sulla precarietà. È noto che i tempi determinati sono al loro massimo numero storico, ma è altrettanto grave e forse di più l’utilizzo delle durate che ne viene fatto. Le brevi durate dei contratti a tempo determinato sono una costante in Italia nell’utilizzo di questa quota di forza lavoro da parte delle imprese, ma il meccanismo “usa e getta” continua ad aumentare costantemente.
Nel II° trimestre del 2022, il 37% delle posizioni lavorative a tempo determinato dura al massimo fino a 30 giorni (di queste il 13,3% un solo giorno); un altro 36% lavora da 2 a 6 mesi e solo l’1% supera un anno di attività. Dati significativi, molto gravi e in costante aumento, soprattutto per quanto riguarda l’incidenza sul totale delle attivazioni dei contratti di brevissima durata (i contratti fino ad una settimana pari al 23,7% sono aumentati di quasi 4 punti rispetto al II° trimestre del 2021).
Nel periodo annuale preso in esame il Pil è costantemente cresciuto, difficile confutare che sia stato anche per l’uso a scopo di esclusiva competizione di costo di questa parte rilevante di lavoratrici e lavoratori. Non era necessario ma è la conferma che sulla diminuzione della precarietà occorre intervenire drasticamente.
*Presidente Fondazione Di Vittorio Cgil