1. Premessa
Sollecitato dalla direzione della rivista, riprendo qui alcune considerazioni che di solito evito di proporre se non in ristretti e selezionati tavoli di discussione. Si tratta di argomenti che girano ampiamente nella discussione specialistica angloamericana[1], che fanno da contraltare alla retorica dei buoni sentimenti tipica del nostro paese. Alla quale, ben volentieri, si accoda l’intera comunità degli esperti del settore, come del resto è stato per i virologi affamati di pubblicità durante il Covid.
La domanda da cui partire è perché, in materia di natalità, i comportamenti effettivi delle classi dirigenti occidentali e i comportamenti delle donne, ovvero delle dirette interessate, contraddicano in modo così clamoroso i buoni principi sbandierati a destra e a manca. Pensare che sia solo colpa della distrazione dei politici, oppure dei mancati sostegni alla maternità, è quantomeno ingenuo. Fino a poco tempo fa pensavo non ci fossero le condizioni per avviare pubblicamente questo tipo di discussione, ma in questi ultimi mesi diversi interventi[2] sembrano indicare un clima diverso, nel quale, forse, si può cominciare a discutere della questione demografica mettendo sul piatto della bilancia altri argomenti, dove la retorica viene messa da parte E sostituita con un po’ di realismo.
Un primo inciampo da sgomberare discende dal fatto che, quando si parla della messa al mondo dei figli, l’ideologia degli accademici benpensanti va a braccetto con il senso comune. Peccato che tanto l’ideologia quanto il senso comune facciano a pugni con il buon senso, l’unico metro di misura che abbiamo a disposizione per valutare le affermazioni del ‘colto e dell’inclita’. Ad esempio, sulla base delle risposte alle domande delle indagini demoscopiche, molti ricercatori sostengono che le giovani donne contemporanee vorrebbero davvero fare due o più figli, ma non se lo possono permettere. Pensando che sia davvero così non si rischia di cadere in un sociologismo ingenuo? Una semplice avvertenza metodologica cercherebbe di accertare se siamo di fronte ad un social desirability bias, per cui a domande troppo impegnative sul piano personale si risponde adeguandosi alla morale corrente: certo che si pagano le tasse; nessuno tradisce il/la partner; mancherebbe anche altro di non andare a votare; …e, ça va sans dire, si vorrebbero fare due, tre, o più figli.
Mai che venga il sospetto che le donne in età procreativa, una volta raggiunta l’autonomia personale – la quale viene garantita dall’istruzione, dal reddito, dalla (tendenziale) parità di genere e dalla conseguente libertà di scelta- possano avere altre priorità rispetto a quella di fare figli. In secondo luogo, mai che si avanzi l’ipotesi che non tutto il male venga per nuocere, e che, forse, il declino demografico sia meno dannoso di quanto sostengano ‘da mane a sera’ i demografi e il senso comune. Da ultimo, seguendo il buon senso, non converrebbe cominciare a immaginare come si debbano riorganizzare quelle che potremmo chiamare le “società in declino demografico strutturale”, invece di illudersi su di impossibili riprese prossime venture della natalità? Ma andiamo con ordine.
2. I fatti.
Ogni due anni, le Nazioni Unite pubblicano la stima aggiornata delle tendenze della popolazione futura. I tassi di fertilità complessivi del mondo sono da decenni in rapido calo: nel mondo le donne hanno in media un figlio in meno rispetto al 1990. In un numero ormai nettamente maggioritario di nazioni, il numero medio di nati vivi per donna è inferiore a 2,1 -il livello minimo necessario affinché una popolazione mantenga una dimensione costante. Quest’anno, l’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva (UNFPA), in coincidenza con la pubblicazione del suo World Population Prospects 2024, ha evidenziato come quasi un quinto della popolazione mondiale, tra cui chi abita in Cina, Italia, Repubblica di Corea e Spagna, hanno oggi una “fertilità ultra-bassa”, con meno di 1,4 nascite per donna. A questo gruppo di paesi, da ultimo, proprio quest’anno, si è aggiunto anche il Canada. Nel 2024, in 6 nazioni, tra cui la Cina, la Germania, il Giappone e la Federazione Russa, la popolazione hanno raggiunto il suo picco massimo e si prevede che la popolazione totale di questo gruppo diminuirà del 14% nei prossimi trent’anni[3].
Come ha osservato ancora un anno fa Adair Turner, in tutti i paesi economicamente sviluppati i tassi di fertilità sono caduti una prima volta tra la fine del diciannovesimo secolo e gli anni ’20, quando la contraccezione è divenuta sempre più disponibile, e le donne si sono sempre più liberate dalla sfera domestica a seguito dell’istruzione e della maggiore partecipazione al lavoro. Ma i tassi di fertilità, dopo essere scesi al di sotto del livello di 2 in molti paesi tra le due guerre mondiali, sono cresciuti nuovamente nella immediata epoca postbellica, raggiungendo un livello di circa 2,4 nell’Europa del nord e appena sopra il livello di 3 nel Nord America. Poi, a partire dal 1970, il trend si è di nuovo invertito. Da quando i tassi di fertilità nell’Europa del nord sono scesi al di sotto del livello di 2 nei primi anni ’70, seguiti nel decennio successivo da analoghi cali nell’Europa meridionale, essi non sono mai più risaliti al di sopra del livello di 2, con una media attuale europea dell’1,46 nascite per donna e nessun paese che supera quota 1,80.
Quale conclusione trarne? Che in tutti i paesi dove si è usciti dalla povertà, dove si sono raggiunti buoni tassi di istruzione delle donne e dove vi è libertà riproduttiva, i tassi di fertilità calano ovunque nettamente al di sotto del tasso di sostituzione. Non sappiamo se questa sia davvero una regola universale del comportamento umano, in ogni caso ad oggi non abbiamo alcuna evidenza di segno contrario. Insomma, è un fatto che nelle società ricche e in cui le donne possono decidere cosa fare della propria vita, i bassi tassi di fertilità sono la norma, non l’eccezione. La conseguenza inevitabile è un declino graduale della popolazione.
Vi sarebbe un’eccezione, la quale, secondo alcuni, indicherebbe una possibile strada alternativa. Si tratta della Francia e del suo tasso di fertilità: l’1,79 nel 2023, ma in calo del 7% rispetto all’anno precedente, e comunque inferiore del 15% al tasso di sostituzione, per si più ottenuto al prezzo di un welfare costosissimo e sempre più insostenibile. Secondo alcuni studiosi, il calo delle nascite in Francia negli ultimi anni sembra essere collegato al taglio degli storici e quasi mitici sostegni alla natalità. Durante la presidenza di François Hollande, nel 2014 e nel 2015, per la prima volta gli assegni familiari sono stati collegati al reddito e ridotti di importo, e il quoziente familiare limitato nel suo beneficio massimo. Un’operazione alla quale ha fatto seguito un calo della natalità di circa il 40%, come ha calcolato uno studio recente[4], mentre nel 2021, sotto la presidenza Macron, è stato deciso di limitare ulteriormente la detrazione massima ottenibile per ogni figlio con il quoziente familiare.
Va anche ricordato che sui tassi di fertilità francesi incidono i territori d’oltremare; vi è una popolazione immigrata che è stata naturalizzata nei decenni trascorsi e che viene calcolata a tutti gli effetti come cittadinanza francese autoctona (alzando la natalità); senza dimenticare che la Francia aveva alle spalle un secolo di bassa natalità nonostante l’alta immigrazione. Se si tolgono i territori d’oltremare, la natalità dovuta a immigrazione recente, la natalità dovuta a immigrati di lungo periodo naturalizzati francesi, il miracolo francese assume proporzioni molto più modeste, tanto che è stato stimato che il tasso di fertilità, al netto di questi tre fattori, scenderebbe intorno all’1,50%.
3. Le lacrime di coccodrillo del senso comune e l’arte del buon senso
Un primo wishful thinking è quello di chi immagina di aumentare la natalità in occidente e di obbligare a ridurla nel terzo mondo, obiettivo non solo irraggiungibile, ma francamente schizzato dal fango di un involontario razzismo, implicito. Di qui l’impressione di predica retorica che si avverte nelle grida d’allarme dei demografi, i quali sembrano imitare i preti di una volta a proposito degli anticoncezionali: neppure loro ci credevano, ma era buona educazione ripetere di continuo che era peccato la sessualità senza procreazione. Di qui il rifiuto a riflettere su come accettare il mondo così come esso è, provando a immaginare come riconfigurare le nostre società alla nuova condizione, quella di un mondo strutturalmente composto da vecchi. Ad esempio, è certo che gli equilibri previdenziali entreranno in crisi, ma chi l’ha detto che il metodo contributivo, a ripartizione, sia il solo modo di alimentare il sistema pensionistico? Non costituisce un paradosso che un mondo sempre più ricco, nel quale ci sono quantità crescenti di grandi ricchi, non possa trovare nella tassazione le risorse per alimentare una terza gamba della previdenza?
Un secondo commento compassionevole lamenta l’inevitabile calo della popolazione in età lavorativa, con conseguenze drammatiche sulla tenuta delle casse previdenziali e l’assenza di ricambio nello stock di occupati. L’immigrazione viene vista come unica risposta di fronte al calo delle forze di lavoro, con i demografi che si dilettano con stime catastrofiche sui milioni di immigrati necessari per sostituire la manodopera mancante. Siamo sicuri che queste stime abbiano davvero una qualche validità? In un mondo dove l’automazione e l’Ict sono in rapidissima espansione, il calo demografico può essere visto come una benedizione, non come un disastro annunciato. Le economie avanzate fanno le stesse cose con molti meno occupati in tutti i settori – nell’ agricoltura, nell’industria, nei servizi – rendendo la forza lavoro potenziale sempre meno rilevante per la crescita del prodotto interno lordo[5], e non pare un caso che molti paesi con popolazione in declino registrino tassi di crescita comparativamente più elevati. Per capire il valore de bicchiere mezzo pieno, basta provare a immaginare i milioni di disoccupati ai quali trovare qualcosa da fare se fossimo in presenza degli stessi tassi di natalità di quarant’anni fa. Semmai, a voler essere pessimisti, il problema sarà che il progresso tecnico rischia di impedire la piena occupazione in paesi che ancora si misurano con la povertà e una rapida crescita della popolazione.
In terzo luogo, la questione demografica davvero drammatica continua ad essere quella dei troppi, non dei troppo pochi, abitanti del pianeta. Insomma, le “società a declino demografico strutturale” costituiscono una sorta di hegeliana “astuzia della ragione” attraverso la quale miliardi di persone nel mondo affrontano (senza averne consapevolezza) la crisi ambientale. A meno rifiutarsi di ammettere che il primo fattore da cui dipende la crisi ecologica e climatica del pianeta non sia proprio il numero troppo elevato dei suoi abitanti. Nei millenni passati, a garantire una sorta di equilibrio omeostatico ci pensavano le epidemie, le carestie e le guerre, a volte intrecciate tra loro. Oggi abbiamo a disposizione solo la demografia. Senza pensarci su più di tanto tutti lo avvertono, per lo più in modo implicito. Siccome questo nesso causale è evidente -consciamente o inconsciamente, non importa- a nulla servono le prediche inutili, incapaci di comprendere le ragioni, per l’appunto ‘ragionevoli’, che spingono miliardi di persone a non fare figli nel mondo contemporaneo. Più in generale, la ‘cura del corpo’, con conseguente bassa natalità, costituisce uno stratagemma universale che spinge a comportamenti collettivi che hanno come conseguenza inintenzionale la riduzione del sovrappopolamento mondiale. Perchè menare scandalo? Perchè mettere sul banco degli imputati chi -il più delle volte senza saperlo- sta salvando il pianeta?
4. Che fare?
Se si accetta il fatto che il declino demografico strutturale è un bene e non un male, il passo successivo riguarda i modi attraverso i quali si riorganizzano le società e le organizzazioni produttive nel nuovo mondo che avanza, un mondo con molti più anziani e molti meno giovani. Certo, serviranno molti immigrati, specie nei lavori poveri (produzione a basso valore aggiunto, basse qualifiche, attività di cura e di assistenza), ma molti meno di quanti si paventano. Che l’immigrazione costituisca una parte della soluzione al problema è certo, ma farla diventare l’unica policy è insensato e costituisce un sintomo di qualcosa che non va (e andrebbe spiegato), specie in tanta parte del mondo cattolico. Un modo alternativo per porre la questione è il seguente: in che modo l’automazione e le tecnologie digitali potranno ridurre il numero di lavoratori necessari alle produzioni future? Quante produzioni tradizionali vogliamo ancora in Europa, in Italia, nelle aree più densamente popolate e sviluppate del nostro paese? Il che è lo stesso: quanti lavoratori/abitanti in più (o in meno) si vogliono nei prossimi dieci/venti anni anni in Lombardia, in Veneto, in Emilia, e così via? Sapendo che ci sono tre soluzioni che si possono combinare tra loro nei modi e nei tempi che politiche adeguate dovrebbero prevedere: a) importare lavoratori (specie nei lavori non automatizzabili e non delocalizzabili); b) esportare imprese (specie quelle ad alta intensità di lavoro); c) accelerare l’automazione (maggiore intensità di capitale rispetto al lavoro).
A volte viene da pensare che quando le forze politiche anti-immigrati in modo ipocrita chiedono lo sviluppo del terzo mondo per non averli in casa, sotto sotto, siano manovrati anche loro dalla mano nascosta dell’‘astuzia della ragione’ che li spinge a migliorare il mondo senza saperlo. Di certo, invocare con sottile piacere (un po’ masochista) quote di immigrazione sempre più elevate significa perorare implicitamente la causa di società divise in caste sempre più impermeabili, con al fondo una classe neo-servile sulla quale ci si rifiuta di gettare lo sguardo e tantomeno di immaginare i modi per ridurla allo stretto necessario. Nel frattempo, in silenzio, senza proclami, un numero via via maggiore di im prese spostano le loro produzioni a basso valore aggiunto nei paesi in via di sviluppo. Nei decenni trascorsi è capitato al tessile e al calzaturiero. Oggi accade per il settore del legno e per alcuni comparti della meccanica[6].
Che fare dunque? Per prima cosa attrezzarsi a guardare il mondo così com’è e non come lo si vorrebbe, per poi immaginare quali politiche siano le più utili per migliorarlo davvero[7].
[1] Vedi, ad esempio D Bricker e J. Ibbitson, Empty Planet. The shock of global population decline, New York, Broadway Books, 2020.
[2] Cfr., ad esempio, gli articoli di I. Cippolletta, L’“inverno demografico” non è necessariamente un problema, in “Il Domani”, 29.03.2024 e di M. Livi Bacci, Lo spauracchio demografico cambia verso?, in “Una Città”, n. 302, 2024.
[3] Vedi https://unric.org/it/crescita-o-contrazione-le-ultime-tendenze-sulla-popolazione-globale/.
[4] Cfr. N. Elmallakh, Fertility and Labor Supply Responses to Child Allowances: The Introduction of Means-Tested Benefits in France, in “Demography”, 60(5), 2023, pp. 1493-1522.
[5] Nelle economie del XIX e del XX secolo la crescita del Pil era strettamente correlata alla crescita delle forze di lavoro.
[6] Nei giorni scorsi, ad esempio, Zoppas Industries, leader mondiale nella produzione di resistenze elettriche e sistemi riscaldanti, ha annunciato l’avvio della produzione di un nuovo stabilimento in Tunisia con più di 1000 lavoratori. Secondo il comunicato aziendale, La scelta di Zoppas Industries di investire in Tunisiasi inserisce in un contesto più ampio di crescente interesse delle aziende italiane verso il paese nordafricano. La vicinanza geografica, i costi competitivi della manodopera e gli incentivi offerti dal governo tunisino sono fattori che rendono il paese attraente per le imprese che cercano di ottimizzare la propria catena produttiva.
[7] Un altro capitolo spinoso -ma ancora più ostico- dovrebbe riguardare il futuro dei sistemi sanitari pubblici, in relazione con l’invecchiamento della popolazione. Ma il parlarne rischia di ingenerare un numero ancora maggiore di equivoci.