Il 14 gennaio CGIL, CISL e UIL formalizzeranno, con una riunione congiunta degli Esecutivi Nazionali, la loro proposta sul futuro della contrattazione collettiva. Il documento che è stato approntato titola: “Un moderno sistema di relazioni industriali”. E’ un testo molto articolato, pieno di contenuti tecnici, aperto a tematiche nuove come la partecipazione alla gestione delle aziende e soprattutto attento ad evitare che la legge condizioni la contrattazione. Semmai si punta, ambiziosamente ma non imprevedibilmente, a far pesare più la seconda che la prima.
Non mi sembra un’infiocchettatura di cose trite e ritrite. Non ci sono, ovviamente, abiure del passato e sconvolgimenti comportamentali. Ma nella sostanza, nelle intenzioni dei sindacati confederali è palese la volontà di sterzare decisamente verso la contrattazione decentrata. Il contratto nazionale viene valorizzato soltanto per la sua funzione di indicatore erga omnes ai fini dei minimi contrattuali, anche per rintuzzare la spinta del Governo ad introdurre il salario minimo legale. Infatti, si auspica una legge di sostegno, in attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che però dovrà anche chiarire qual è quel contratto a valore erga omnes che va assunto come riferimento, visto il vizietto in voga in questi anni della proliferazione dei contratti collettivi.
La parte del leone spetterà, d’ora in poi, alla contrattazione decentrata, dicono con significative aperture, sostanzialmente derogatorie anche se guidate, le tre centrali confederali. Un vecchio cislino potrebbe evocare un famoso Consiglio Generale svoltosi a Ladispoli nel 1952 e che lanciò l’idea della contrattazione aziendale. Un attento cigiellino andrebbe a rileggere gli scritti del giovane Trentin dopo la sconfitta della CGIL alle elezioni delle Commissioni interne alla Fiat in quegli anni e che diedero il via all’abbandono della visione centralista della contrattazione tanto cara alla sua confederazione.
Ritorno al passato? La scommessa attuale del rilancio dell’impegno nella contrattazione decentrata deve fare i conti con una globalizzazione che tutto condiziona, con una qualità del lavoro che ha ormai alle spalle il fordismo ma che è parte integrante della società liquida baumaniana, con un’esigenza pressante di misurazione della rappresentanza – di ambo le parti sociali – per contare effettivamente. Quindi, il futuro pesa molto di più che il passato. Ma la memoria di quel passaggio epocale può aiutare molto a innovare strutture organizzative e comportamenti negoziali che possano effettivamente ampliare i confini della partecipazione, consapevole e remunerata adeguatamente dei lavoratori ai cambiamenti costanti dell’organizzazione del lavoro.
Le tre confederazioni hanno voluto aggiungere al titolo del documento sindacale una frase: “per uno sviluppo economico”. Quasi ad anticipare quanti volessero vedere, in questa impostazione delle relazioni industriali, una deriva neocorporativa. Una sorte di ripiegamento nel contrattualismo produttivistico, a fronte di una palese difficoltà a svolgere efficacemente una funzione ridistributrice della ricchezza. Se, infatti, tutta la descrizione del nuovo sistema appare largamente incentrato sulla visione personalistica del lavoratore, fino a considerarlo ben oltre un puro e semplice salariato (con i molti riferimenti alla condizione di lavoro, ma anche di benessere e di partecipazione) e quindi immunizzato dal rischio della chiusura utilitaristica, non tutto è chiarito e né poteva essere chiarito in quella sede.
Resta aperta la questione che la crisi e il pur fragile dopo crisi stanno mettendo all’ordine del giorno del dibattito sul futuro dello sviluppo della nostra società. C’è bisogno di ridurre le disuguaglianze reddituali e sociali non ampliarle e finora le ricette proposte e qualche volta sperimentate non sono state soddisfacenti. La contrattazione, anche la più ardita, non ce la può fare, da sola, ad addrizzare una tendenza pericolosamente in atto in questo inizio di millennio. Quella per cui i ricchi non solo aumentano ma stanno sempre meglio e il campo da gioco che residua riguarda i rapporti tra ceto medio e poveri. Per il sindacato confederale è un perimetro angusto e drammatico.
Ma per non rimanere vittima dell’ angosciante alternativa di scegliere tra l’uno e gli altri non solo deve realizzare con le controparti un accordo sulla sua proposta contrattuale (e sarebbe un errore se il padronato lo rifiutasse, perché aprirebbe un varco pieno di incognite all’iniziativa legislativa del Governo), ma anche ridisegnare il proprio ruolo di soggetto di politica economica, sia in riferimento delle modalità di intervento, sia delle sedi in cui intervenire. In altri termini, deve necessariamente ridefinire i rapporti tra sociale e politica, sindacato e sistema politico. E così riaprire anche il capitolo dell’unità sindacale.