Calma e gesso.
Stiamo subendo il secondo assalto e abbiamo rafforzato in modo troppo leggero le nostre trincee (già debolissime in partenza) … ”e pur bisogna andar!”.
Fuori dalla metafora della guerra sappiamo che il ragionamento sulle misure da prendere in tempi di pandemia riguarda elementi semplici negli enunciati ma che si articolano su situazioni sociali e individuali molto complesse che implicano abitudini, morale, organizzazione sociale ed economica nella formazione della ricchezza, nonché i rapporti funzionali e strutturali tra individui nella famiglia, nel lavoro, nelle relazioni generali.
È chiaro come si possano scrivere fiumi di parole, ma si può anche abbozzare una sintesi per cui l’ingresso improvviso del virus obbliga la società e gli individui a misurarsi con due contraddizioni definite sia dal conflitto tra organizzazione sociale consolidata e nuove restrizioni, sia dalle necessità collettive in contrasto con i valori e i diritti individuali.
In presenza di una pandemia e fino a quando non c’è un vaccino, le strade che si possono intraprendere sono solo due: o aspettare “l’immunità di gregge”, o praticare i distanziamenti individuali e sociali.
Fino a ieri le pandemie sono state contenute con “l’immunità di gregge”, causando moltissimi morti, prima di raggiungere la diminuzione di virulenza del virus.
Oggi le condizioni sono diverse. In primis abbiamo creduto nella scienza e abbiamo avuto la certezza che il vaccino sarebbe stato scoperto in tempi brevi; in secundis abbiamo verificato negli ultimi anni l’efficacia del contenimento sociale (riduzione verticale dei contatti umani) volto a interrompere la trasmissione del virus. Forti di questi due elementi è stato organizzato un periodo transitorio capace di contenere morti e malattia aspettando il vaccino che sarebbe arrivato nei tempi stessi (se non inferiori) dell’immunità di gregge.
Immunità di gregge o lockdown? Ci siamo preparati così al contenimento della diffusione del virus nell’unico modo possibile: il controllo (limitazione e tracciamento) dei contatti.
I lai stanno a zero.
È una scelta che giustamente tutti abbiamo considerato obbligata, anche se sappiamo che l’uso di questa prudenza comporta difficoltà e rinunce non solo individuali ma anche economiche e sociali; come sempre c’è un prezzo da pagare e non riesco a capire perché non si paghi volentieri sapendo che questo comporta meno morti e meno pericoli anche individuali.
Ricordiamo tutti il detto “Chi va al mulino si infarina” ? Eppure, anche in tempo di contagio Covid c’è qualcuno che perde il faro della prudenza sociale e individuale e si perde nella speranza autogiustificativa del “Perché a me e nel luogo dove sto?”. Del resto, e una vasta letteratura l’ha trattato, noi umani pur avendo come unica certezza del futuro quella di essere mortali, ci siamo abituati a non pensarci; riguadagniamo allegria e felicità anche se sappiamo che siamo a tempo. È forse per questo che, anche in presenza di pandemie, quando partecipiamo o vediamo assembramenti, ci scattano i meccanismi mentali e morali per i quali riusciamo a vivere tranquilli pur nella conoscenza della nostra caducità.
I mugugni sociali e i pianti imprenditoriali. I motivi ricorrenti di mugugni e pianti sono legati ai danni obiettivi che l’isolamento produce quando, ad esempio nella scuola, si perde il valore generale dell’istituto che, per essere tale, ha bisogno di un ambiente corale; e ancora sono legati ai danni che l’isolamento produce sui processi economici e sulla vita sociale.
Sono due casi differenti.
Il primo va analizzato in modo specifico e va ricercata, in quanto caso, una soluzione che non infici il principio generale, quindi una soluzione compatibile che in una sana valutazione tra minus e plus, privilegi i plus imponendo la decuplicazione delle prudenze individuali e collettive.
Per il secondo dobbiamo porci una domanda: dove stanno i minus e dove i plus? Infatti, tranne i pochi che ne godono (lobby o individui che siano), tutti riconoscono (in tutto o in parte) l’insostenibilità sociale ed ecologica di questo sviluppo con il suo corredo di danni ecosistemici, aumento della povertà, impoverimento dei ceti medi, iniqua distribuzione della ricchezza, inquinamento, deserti verdi, immense realtà urbane dequalificate, ecc.
È indubbio che l’interruzione dei cicli temporali su cui fino ad oggi sono stati costruiti i tempi e i modi di svolgimento delle attività sociali ed economiche, produca danni sulle strutture e sulle imprese esistenti, ma quante di queste navigano nell’insostenibilità dello sviluppo?
Il problema è che i mugugni diventano richieste e le richieste diventano il sale del dibattito politico ed economico. Tutti vogliono difendere sé stessi (e questo è legittimo), tutti chiedono risorse compensative, tutti vogliono essere i primi a goderne.
Oggi dobbiamo porci questa domanda: siamo sicuri che tutti i settori che stanno entrando in crisi siano da difendere per qualità di prodotti, per sostenibilità sociale ed ecologica dei processi, per quantità e qualità interne ai singoli settori?
Un’economia affidata per troppo tempo al mercato ha prodotto più storture che lungimiranze. E ora molti sono in crisi, ma sono quelli delle storture o delle lungimiranze?
È chiaro che non possiamo e non dobbiamo creare nuove povertà e che va sostenuto chi è in difficoltà. Ma va sostenuto non sulla ripetizione del passato. Possiamo e dobbiamo sostenere le perdite promuovendo un vasto piano d’investimenti e di formazione per gestire individualmente e socialmente i nuovi investimenti. Non dimentichiamo la formazione perché senza cultura e senza ricerca non si va da nessuna parte.
Se dobbiamo cambiare modello di sviluppo siamo sicuri che crisi e lockdown siano dannosi? Non ripeto che i cambiamenti e le nuove organizzazioni per lo sviluppo sono nati per uscire dalle grandi crisi, ma ricordo che oggi, nel dire comune, molti concordano che la pandemia ha messo a nudo le fragilità evidenziando lo stesso sistema come fragile.
Se in questi giorni camminiamo per le strade ne abbiamo la conferma. È chiaro che le saracinesche abbassate che oggi scorrono davanti ai nostri occhi devono essere rialzate e rientrare nel ciclo economico e imprenditoriale. Ma come? In quale settore? Proponendo quali servizi? Con quale grado di digitalizzazione, innovazione, etc.? Devono rialzare la saracinesca per mostrare un interno stantio in cui è stata passata solo l’aspirapolvere, o devono mostrare un nuovo interno proiettato verso lo sviluppo sostenibile e la sostenibilità dello sviluppo?
Siamo sicuri che anche prima della pandemia non mostrassero la corda? Le fragilità c’erano e ora la pandemia le ha solo evidenziate e rese visibili; ma perché non renderle irreversibili con cambiamenti di paradigma?
Abbiamo presente che, fino a qualche mese fa, nella pausa pranzo ci precipitavamo in locali che ci servivano cibi precotti, congelati, liofilizzati e via dicendo? (e sto parlando solo della parte per il tutto).
Le capacità innovative ci sono e i soldi anche. Vi ricordate nel primissimo momento della pandemia quanti artigiani (anche di settori paralleli) sono stati capaci di produrre mascherine? Quante start up si sono presentate?Quanti respiratori artigianali sono arrivati in soccorso di strutture sanitarie in deficit di macchinari? E il tutto è stato realizzato con più attenzione al prodotto e al servizio che non alla remunerazione.
Nella nostra società e ai nostri giovani la capacità innovativa certamente non manca. Anzi, sono portato a credere che una parte della disoccupazione giovanile derivi da un sistema (produttivo, sociale e di organizzazione dei servizi) ingessato e incapace di dare spazio all’innovazione.
Chiunque abbia insegnato sa di che leggerezza e dinamicità sia la mente dei nostri giovani, compresi quelli che per sbarcare il lunario devono andare a fare i camerieri o i commessi (spesso con contratti capestro) negli attuali luoghi delle saracinesche abbassate.
Se non si possono creare nuove povertà, perché non finanziare l’innovazione per far trovare lì la riqualificazione di sé stessi?
Chi poi vuol rimanere nell’insostenibilità dello sviluppo è giusto che abbia un sostegno ma uguale e non superiore a quello che si dà come preavviso ai dipendenti prima dell’interruzione del contratto di lavoro.
I soldi veri devono servire al finanziamento dell’imprenditoria figlia dei nuovi paradigmi(dando a questi termini tutto il loro significato evolutivo) e quindi vanno dati a chi presenta un progetto d’impresa collocata nelle dinamiche della qualità dello sviluppo.
I soldi ci sono, finanziamoci l’innovazione, la formazione e la partecipazione per un grande progetto collettivo e individuale di innovazione.
Un primo assaggio di ciò che si potrebbe fare lo vediamo nella legge sul miglioramento energetico e sismico degli edifici. Ha ancora il limite di rivolgersi esclusivamente alle singole unità con nessun accenno ai valori sistemici e all’economia di scala. Ma la direzione è giusta e se (burocrazia permettendo) sarà applicata, le nostre città godranno di una migliore qualità.
Gli esempi su cui cimentare l’innovazione sono molti, ma a mio avviso hanno tutti come punto culturale di partenza quello del sostegno ai progetti di qualità e di riqualificazione, che usino i paradigmi dell’economia verde, della conversione ecologica, del risparmio energetico, della digitalizzazione, della legalità e dignità del lavoro dipendente, della sostenibilità e circolarità dell’economia, della coralità nell’organizzazione dell’impresa.
Molta letteratura scientifica, etica e morale dibatte contro l’accanimento terapeutico: ma questo non vale anche per l’economia? Siamo sicuri che dobbiamo mantenere in vita un’economia sbagliata, dannosa e che richiede alti costi di protezione?
Scorriamo rapidamente i minus sociali, ambientali ed economici sui quali quasi tutti erano pronti a giurare: quote troppo elevate di evasione fiscale, lavoro nero, precariato; formazione inadeguata per il rinnovamento, sviluppo potenziale legato alle nuove culture progettuali e tecnologiche; iniqua distribuzione della ricchezza; inquinamento; variazioni climatiche; produzione di CO2 .
I fondi che servono ci sono, ma devono essere impiegati per finanziare start up, progetti, innovazione e soprattutto ricostruzione della dignità del lavoro.
La crisi ha evidenziato problemi e fragilità, ma dispone di una quantità enorme di risorse per avviare, con la cultura della qualità, processi e progetti di sviluppo socialmente, economicamente ed ecologicamente equilibrato con cui praticare un’economia diversa.
Per pensare il futuro non è necessario ri-garantire il passato, è più utile avviare processi capaci di durare nel tempo creando nuovi equilibri sociali ed economici.
Se chi è entrato nell’alveo dell’indigenza e della povertà va sorretto, allora dobbiamo discutere sul come. La via non è quella dei sussidi. Pensiamo e organizziamo progetti, formazione e sostegni per creare utilizzatori delle nuove (e possibili) dinamiche economiche, inserendoli in modo diverso nel mondo del lavoro, organizzando e riorganizzando con loro, attraverso la formazione, meccanismi e pratiche virtuose di sviluppo locale, sostenibile e partecipato.
Se non ora quando? Quando mai ci saranno tante risorse disponibili per gli investimenti e quando mai i finanziamenti dipenderanno da scelte istituzionali e quindi collettive, programmate e sorrette (speriamo non solo sorreggibili) dal valore della res publica?
Dalle crisi si è sempre usciti con un’”altra economia” e il new deal di Roosevelt e Keynes insegna. Perché parlare di new deal green, se poi non lo pratichiamo con finanziamenti adeguati? Nessuno vuol allontanare nessuno dal mondo dell’impresa, ma non possiamo finanziare la memoria. Certo i costi aumentano perché l’innovazione è più cara, avendo essa bisogno di formazione e sperimentazione.
In questi giorni è stato previsto di dare finanziamenti raddoppiati rispetto ai precedenti. Bene, anche triplicati, ma per progetti d’innovazione.
Certo va costruito un ampio parco-progetti con proposte capaci di essere socialmente comprese, culturalmente organizzate, istituzionalmente gestite.
In un precedente articolo proponevo un elenco per rilanciare l’innovazione e la partecipazione nell’economia locale:
“E i sindaci, anche aggregati per aree territoriali capaci di rappresentare “distretti” funzionali, tematici ed economici per attività, orografia, storia sociale?
E i sindacati territoriali, con la loro conoscenza diretta degli individui, delle loro capacità e specificità?
E il movimento cooperativo, con la sua storia di costruzione dal basso di un’economia capace di legare i luoghi alle tradizioni sociali e produttive?
E la scuola curriculare, con il contributo alla formazione sociale della conoscenza e professionale degli individui?
E le università, con i loro dipartimenti e la loro capacità progettuale, non fanno parte dell’economia locale? Non sono soggetti che possono garantire ricerca e divulgazione, partecipazione e formazione?”
I laboratori territoriali, Creiamo laboratori territoriali capaci di interpretare i paradigmi della qualità e sostenibilità dello sviluppo, mettiamoli in rete con il mondo della ricerca, dell’innovazione, delle nuove tecnologie; produciamo cooperazione e integrazione; formiamo; creiamo laboratori e strutture capaci di pensare e progettare il futuro e nel futuro.
E poi creiamo cultura sociale, cultura economica e cultura ecologica con le quali saranno gli stessi singoli che oggi hanno le saracinesche abbassate a non chiedere sussidi ma fondi per nuove imprese, sistemi aziendali, servizi.
I laboratori dovranno sorreggere ricerca e conoscenza, innovazione e complessità, cultura e formazione, ma nei nuovi paradigmi dello sviluppo.
È chiaro che l’economia di un Paese non può essere tutta di frontiera, serve anche la tradizione, il tranquillo, il déjà vu. Nessuno lo nega. Ma c’è modo e modo per farlo e soprattutto per finanziarlo.
Qui vorrei essere chiaro. Tutto quello che ho detto non vale per chi vuol chiedere o mantenere una licenza di esercizio. Ognuno con il suo capitale può mantenere o costruire l’impresa che vuole. Io mi riferisco ai finanziamenti che saranno possibili con i nuovi fondi. È su questi che la collettività non deve transigere.
La collettività ha il dovere di finanziare l’innovazione verso un’economia che abbia la qualità e l’equilibrio ecosistemico come faro.
E se ponessimo la biodiversità come bene comune?
Ci sono alcuni studi, che a mio avviso valgono la pena di essere seguiti, che vedono la biodiversità (e quindi ne suggeriscono la ricostruzione) come baluardo alla nascita delle nuove pandemie. È indubbio che gli squilibri ecosistemici hanno permesso la fuoriuscita di alcune specie dai loro habitat e l’alterazione dell’equilibrio che per migliaia d’anni le avevano tenute lontane dalla contaminazione umana.
Partiamo da qui e da questa speranza culturale.
Il valore del riequilibrio ecosistemico è fuori discussione come dovrebbe essere fuori discussione come invariante progettuale il rispetto di questo equilibrio.
Continuo a pensare che il territorio nella sua dizione di ecosistema territoriale e quindi di equilibrio sistemico, dovrebbe essere l’ispiratore di tutti gli indici, regolamenti, disciplinari, che regolano le espansioni urbane, il settore produttivo industriale, l’organizzazione e l’erogazione dei servizi, i programmi agricoli e zootecnici, la pesca.
Nella fase progettuale ed esecutiva è fondamentale misurare e valutare Il rapporto tra ciò che l’ecosistema territoriale è, e ciò che sarà dopo le azioni di trasformazione; la variazione deve deve essere misurata su indicatori di qualità valutando l’equilibrio ecosistemico da cui parte e a cui arriva. Ed ecco allora che le politiche, come quelle sulla carbon free, trovano sostanza non giustificativa ma propositiva.
Le nostre agricolture, le nostre zootecnie, la nostra pesca, la nostra allegra spensieratezza sull’estensione dell’impermeabilizzazione dei suoli, hanno portato le fragilità ecosistemiche che la pandemia ci ha mostrato su un piatto d’argento.
Allora perché non prendere la biodiversità come espressione della salubrità ecosistemica sussumendola a valore comune? Facciamola diventare l’elemento di verifica progettuale. Pensiamo alla rivoluzione che comporterebbe nei finanziamenti agricoli. Fino ad oggi abbiamo sorretto culturalmente, socialmente ed economicamente la formazione di imprese agricole e zootecniche idonee per prodotti di scarsa qualità capaci di produrre i deserti verdi. Questa agricoltura, questa zootecnia, questa pesca hanno creato la filiera dei “precotti”, dei liofilizzati, del cibo spazzatura e, in qualche modo, anche dello spreco alimentare nelle aree ricche del mondo. Molti cibi sono di qualità talmente scadente che non reggono il tempo avviando subito processi degenerativi nella qualità e nel gusto.
Ma perché allora i luoghi della pausa pranzo non si collegano a Km 0 con l’agricoltura e la zootecnia periurbana creando filiere di qualità e quindi economia locale e salute?
Ma questo è solo un esempio dei moltissimi che un laboratorio territoriale e una politica lungimirante potrebbero i primi proporre e la seconda sostenere.