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Il rompicapo dei salari poveri*

Quando si discute di salari poveri non si può prescindere, come si è detto, dalla crisi strutturale della relazione salariale, vale a dire della sua sostanziale rarefazione come elemento centrale della sussunzione del lavoro nel processo di valorizzazione. Non dimentichiamo che fino alla seconda metà degli anni Ottanta la relazione salariale era garantita come vera e propria istituzione del mercato del lavoro, caratterizzandosi per alcune specifiche proprietà: il collegamento all’anzianità, alla qualificazione professionale, al tempo di lavoro, alla produttività aziendale. Inoltre, la relazione salariale identificava (senza residui, si può dire) il reddito derivante dalla prestazione di lavoro della classe subordinata, non essendo concepito nessun modulo negoziale alternativo fino all’apparizione delle nuove forme di lavoro autonomo di “seconda generazione”. Reddito uguale salario: l’equazione tipica del processo di estrazione di valore nella società fordista. Queste caratteristiche basiche sono cambiate radicalmente, venendo meno la stessa funzione del salario (e quindi anche il suo correlato principio costituzionale di proporzionalità e sufficienza) come garanzia assicurativo-reddituale della classe subordinata.

Che questo cambiamento di fondo possa dirsi una delle cause della povertà “nonostante il lavoro” mi sembra una delle poche certezze in un’epoca di incertezze. Del resto, la ricerca dimostra che proprio il lavoro atipico e precario è un incubatore del lavoro povero non solo in Italia ma anche a livello europeo (Ratti e altri 2024), dove si stima che una percentuale pari all’8,5% della popolazione in età di lavoro è a rischio povertà (dati EU-SILC).

Disvelando il rapporto fra precarietà e salari insufficienti viene alla luce in modo chiaro il contributo del diritto del lavoro alla produzione di condizioni di povertà lavorativa. I salari poveri non sono soltanto l’altra faccia della congiuntura economica, della globalizzazione dei mercati e della nuova forma del lavoro, ma anche l’esito della scelta politica e giuridica delle classi di governo europee ed italiane.

In linea di sintesi possono individuarsi almeno quattro diversi piani o settori in cui la precarizzazione dei rapporti di lavoro ha creato altrettante condizioni da cui nascono “salari poveri”.

Il primo terreno elettivo è sicuramente la temporaneità e la discontinuità dell’impiego, che ha spezzato il collegamento del salario con l’anzianità e con la carriera, insieme alla riduzione del tempo di lavoro, di cui si dirà. Come ha osservato Carlo Zoli, “una sempre più elevata quota di lavoratori, da un lato, svolge mansioni semplici e ripetitive; dall’altro, è impiegata, specie nel terziario, in attività più discontinue, maggiormente spezzettate in fasce orarie ridotte, con aumento del part-time involontario e dei contratti a termine, quindi con una maggiore precarietà ed una complessiva riduzione delle ore lavorate” (Zoli, 2022). Del resto anche i dati raccolti dai sociologi registrano un costante decremento delle ore lavorate e si calcola una diminuzione del 7,9%, secondo l’Istat, delle ore di lavoro per dipendente negli ultimi venti anni, il che vuol dire 133 ore in meno all’anno per dipendente (Staglianò, 2024). Secondo Leonello Tronti, la povertà lavorativa dipende in modo rilevante da tale diminuzione, poiché, visto il rifiuto ad un drastico taglio dell’orario di lavoro a parità di salario, alla riduzione del monte orario corrisponde una quota retributiva complessiva più bassa e quindi un diminuito potere d’acquisto dei lavoratori salariati (Tronti, 2019). Questo fenomeno, dovuto all’aumento di produttività, non ha incontrato finora risposte appropriate e si riverbera direttamente sul rapporto di lavoro, con una riduzione notevole del lavoro a tempo indeterminato e full-time, a fronte dell’aumento esponenziale dei contratti a termine e part-time (spesso incrociati) anche quando essi sono “genuini” e non nascondono intenti elusivi.

La tutela salariale del lavoratore temporaneo, grazie alla direttiva 1999/70, ruota essenzialmente attorno al principio di non discriminazione, che non è in grado, tuttavia, di ricostituire il rapporto salariale in termini adeguati. Implica la parificazione retributiva al lavoratore comparabile, offrendo una tutela certamente importante ma in modo per così dire sincronico e contestuale, nel momento in cui le due posizioni sono, appunto, comparabili. Resta tuttavia la differenza di trattamento in prospettiva diacronica, non potendosi recuperare il bagaglio di esperienze lavorative del lavoratore temporaneo, i periodi di sotto-occupazione e dequalificazione professionale che fanno parte spesso del suo vissuto, oltre, naturalmente, ai vuoti fra un’assunzione e l’altra, che rendono discontinua anche la carriera professionale, impedendo il suo normale sviluppo salariale. Del resto è risaputo (ancorché spesso trascurato) che una retribuzione “parificata” al lavoratore comparabile non assicura uno stesso reddito, se proiettata su base annuale o pluriannuale, stante il ripetersi di periodi di assunzione per brevi periodi, che sono sempre più numerosi statisticamente. Il lavoratore precario resterà sempre avvinto in una relazione salariale più povera e ci sarà sempre qualcosa che non gli verrà riconosciuto, che lo discrimina rispetto all’altro lavoratore, trasformandosi in un profitto aggiuntivo ed immeritato del datore di lavoro, semplicemente come effetto della pluralità di rapporti intrattenuti con distinte persone giuridiche, nonostante l’identica condizione di salariato e l’identica disponibilità al lavoro. Il differenziale salariale che deriva dalla frammentazione giuridica di un’esperienza lavorativa unica cresce col tempo e dimostra, se pensiamo al lavoratore come “collettivo”, cioè all’intera classe dei rapporti di lavoro nell’impresa, qual è l’interesse concreto, il plus-valore deducibile dal regime giuridico che consente una sequenza di rapporti di lavoro a tempo determinato (seppure con soggetti diversi). L’uguaglianza del trattamento economico fra lavoratore a termine e lavoratore comparabile nasconde quindi la disuguaglianza reale e, di fatto, un salario non pagato, nonostante il lodevole intento dell’accordo quadro CES, UNICE E CEEP del 18 marzo 1998, che istituì con la clausola 4 il principio antidiscriminatorio.

Anche il part-time può essere visto in un’ottica diversa. Nel mondo post-salariale la riduzione dell’orario di lavoro va considerata come uno dei fenomeni più importanti, intimamente collegato all’innovazione tecnologica del platform capitalism, che attraverso automazione, dispositivi elettronici, sistemi di intelligenza artificiale e processi basati su algoritmi assicura vertiginosi aumenti di produttività, riducendo il lavoro necessario (Grossi, 2023).

In questi casi, il salario è povero perché si spezza l’equilibrio sinallagmatico ed il rapporto di corrispettività: il valore del lavoro, ossia il salario, non è rapportato proporzionalmente all’aumentata capacità produttiva che il lavoratore assicura al capitale privato, anche con l’utilizzo di questi nuovi strumenti tecnologicamente avanzati: disarticolazione che assume caratteri parossistici in un paese come l’Italia, che registra addirittura un decremento percentuale progressivo delle retribuzioni, secondo i dati OCSE. Non a caso, il part-time aumenta in modo poderoso nelle aree territoriali più sviluppate, fino a superare il 50% dei rapporti di lavoro in paesi come la Danimarca o i Paesi Bassi. L’incidenza dell’orario ridotto nasconde lavoro svolto in contesti di “produttività aumentata”, tanto da rendere attuale e legittima la domanda di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, per riallineare il salario al valore del lavoro.

Secondo i dati Istat 2022, in Italia ci sono oltre quattro milioni di lavoratori part-timer, di cui, pare, almeno la metà è da considerarsi involontario (fonte Il Sole 24 ore), percentuale che raggiunge l’80% nei lavori più dequalificati (dati Eurostat), ponendo problemi in parte uguali ed in parte diversi, per l’utilizzo frequente del lavoro a tempo parziale per finalità elusive. Va anche detto, a tal proposito, che la Relazione del gruppo di esperti sulla povertà del novembre 2021 ha evidenziato come il salario minimo legale, calcolato come retribuzione adeguata oraria, non sarebbe in grado di risolvere né il problema dei lavoratori discontinui né quello dei lavoratori part-timer. Anche da questo punto di vista si imporrebbero quindi riforme radicali in direzione di un ristabilito equilibrio nella distribuzione dei guadagni di produttività, assorbendo il plusvalore prodotto ed impedendo che esso finisca nella rendita e nella sfera non produttiva, contribuendo alla finanziarizzazione dell’economia.

Per proseguire questa illustrazione, si potrebbe discutere della problematica degli appalti e degli altri fenomeni (leciti) di intermediazione. Per chi lavora nei settori sottoposti a continui cambi di appalto, a prescindere dalle condizioni di sfruttamento in violazione degli obblighi legali e contrattuali, il salario diventa di fatto una variabile dipendente delle condizioni economiche imposte all’appaltatore, che tendono a scalare progressivamente nelle lunghe filiere di appalti e subappalti. La mancanza di drastici interventi legislativi di tutela, così come l’assenza di dispositivi legali che sanciscano la parità di trattamento lungo tutta la filiera, implica logicamente una precisa scelta di fondo, che vede la povertà lavorativa come problema secondario rispetto alla tutela delle imprese in questi settori. Solo recentemente, in verità, il legislatore è intervenuto con il d.l. n. 19 del 2 marzo 2024 stabilendo l’obbligo, per i dipendenti impiegati in appalti e subappalti, di un trattamento economico conforme a quello stabilito dai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale “applicati nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”. Come si è acutamente notato, “vi è però una significativa differenza sul piano delle tutele rispetto alla parità di trattamento prevista nella catena degli appalti pubblici” (D’Oriano, 2024). Altrettanto può dirsi del problema determinato dai contratti di somministrazione, in cui il salario è dipendente dalle occasioni di lavoro, con contenuti contrattuali incerti, destinati a concretizzarsi in base alle caratteristiche dell’azienda utilizzatrice ed alle sue richieste all’agenzia delle specifiche professionalità occorrenti.

In entrambi i casi resta, come unico dispositivo di tutela sul piano salariale, l’applicazione dell’art. 36 della Costituzione, di cui, come si è notato, la giurisprudenza fa largo utilizzo “disapplicando minimi tariffari applicati a soggetti dequalificati e sindacalmente deboli, tipicamente rinvenibili nell’ambito delle lavorazioni in appalto o subappalto” (Ricci, 2024). Fatto salvo il regime legale dei contratti pubblici (in cui il d. lgs. n. 50/2016 prevede l’applicazione del contratto leader, sia pure flessibilmente secondo la giurisprudenza amministrativa: v. ancora Ricci 2024), tornano qui i problemi già esaminati con riguardo all’individuazione del CCNL da applicare per allineare la retribuzione ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, previa disapplicazione della disciplina stabilita dalle parti (sul problema delle clausole sociali negli appalti pubblici v. E. Caruso, 2020).

Ma quando si discute di salari poveri non si dovrebbero mai dimenticare il lavoro irregolare e le relazioni salariali addirittura invisibili e inconoscibili, in cui si avverte la tendenza a diminuire il tasso di controllo sull’applicazione delle disposizioni di legge e contrattuali nell’economia reale, la debolezza degli apparati pubblici a ciò dedicati, mentre d’altro canto si registra la diffusione dell’economia illegale: altrettanti fattori di destabilizzazione delle condizioni salariali della classe subalterna e di produzione di salari al di sotto, spesso, anche della soglia di povertà. Ma questo problema richiederebbe una riflessione specifica, che ovviamente qui non può essere neppure avviata.

Resta da capire, a questo punto, come ricostruire la condizione di corrispettività, senza tornare anacronisticamente al rapporto salariale “fordista” in una società oramai “post-salariale”. Il capitalismo post-fordista ha minato il rapporto salariale e la platform economy ne ha decretato la fine, per ragioni collegate alla natura stessa della prestazione richiesta al lavoratore digitale. La frammentazione tipologica, la temporaneità dell’impiego e le altre forme di lavoro precario contribuiscono anch’esse all’istituzione della società post-salariale. Il salario è sempre meno collegabile alla carriera, all’anzianità di servizio e alla acquisizione di professionalità ed è sovradeterminato da limitazioni temporali, che non consentono lo sviluppo professionale del prestatore, oppure svincolato completamente da fonti eteronome e liberamente pattuito nella fase genetica del contratto di lavoro. Si potrebbe dire, senza nessuna esagerazione, che in queste condizioni, se il lavoratore offre tutto se stesso alla produzione di valore, l’obbligazione retributiva, che si concretizza alla vecchia maniera con il pagamento di un salario in ragione del tempo-orario di lavoro visibile, riesce oramai a mala pena ad assicurare la sopravvivenza per fasce sempre più ampie della classe lavoratrice, rimanendo non corrisposta quella quota di salario (quel “qualcosa in più” a cui allude la stessa Cassazione, dovuto in ragione del valore reale del lavoro) in grado di assicurare la sufficienza stabilita dall’art. 36 della Costituzione.

A ben pensare, nello sviluppo del capitalismo avanzato la prima lesione è proprio la proporzionalità del salario del lavoratore, il cui contributo alla produzione di valore non è ripagato, stante la forbice sempre più ampia fra lavoro riconosciuto e valorizzato ai fini del trattamento economico e lavoro invisibile, nascosto, precario, apporto sommerso ma reale alla produzione di valore. Solo una visione non “individualistica”, che tuttavia difficilmente ci si può attendere dalla giurisprudenza italiana, da sempre incardinata sul binomio individuo-diritto soggettivo, potrebbe portare ad una consapevolezza del nuovo quadro di riferimento e ad un’applicazione dell’art. 36 della Costituzione non in modo atomistico, assicurando un livello salariale minimo per tutti i lavoratori, subordinati e non, in funzione del loro uguale contributo al poderoso sviluppo della produttività del sistema economico. Naturalmente, come si è già sottolineato, questo sarebbe il compito del legislatore statale, perché in grado di operare una sintesi degli interessi particolari, ma purtroppo disatteso per una renitenza che ha un significato politico molto chiaro.

*Stralcio da La questione sociale e i salari poveri, 20/11/2024 in Lavoro Diritti Europa

**Professore di diritto del lavoro,  Università di Reggio Calabria

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