Il Capo dello Stato nel suo discorso televisivo di fine d’anno ancora una volta ha spronato il Parlamento, come organo centrale del sistema istituzionale della Repubblica, a riappropriarsi delle sue funzioni specialmente in quelle di iniziativa legislativa e di disciplina ordinamentale.
Infatti latitando l’iniziativa parlamentare, diventa inevitabile e spesso doveroso l’affermarsi della funzione sostitutiva di altri Organi costituzionali, in primis della Magistratura in tutte le sue articolazioni nazionali ed europee.
Esempio emblematico è l'”attesa” della pronuncia della Corte costituzionale in materia di principi cui debba ispirarsi il legislatore ordinario in materia di legislazione elettorale.
Una delle conseguenze di tale situazione è l’appropriazione dei principi di interpretazione (vincolante) delle leggi ordinarie – la c.d. nomofilachia – riservata alla Corte Suprema di Cassazione.
Esempio recente è stato il “lancio” della notizia della pubblicazione della sentenza della sezione Lavoro n. 25201 del 7 dicembre 2016 in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della L. 604/1966 che così dispone: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato…………… da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Ebbene si è ritenuto che nel concetto di giustificato motivo oggettivo (che prescinde dal comportamento del lavoratore) vada ricompreso anche la tutela del livello di profitto dell’imprenditore.
Se a questa interpretazione si aggiunge il (pacifico) principio che il Giudice non può sindacare nel merito le scelte organizzative dell’imprenditore, si può arrivare addirittura a legittimare il licenziamento ad nutum.
L’esame della motivazione della sentenza della Cassazione non può essere semplicistico, perché anzi la motivazione stessa è molto articolata e impegnativa.
Sorprende quindi che anche “Il sole24 ore” ne abbia fatta un’analisi per lo meno superficiale.
L’evoluzione interpretativa e normativa pluriennale ha dato vita al cosiddetto diritto vivente che, com’è noto, è equiparato all’interpretazione consolidata contestabile anche dinanzi alla Corte Costituzionale; cosicchè è errato affermare che il citato art. 3 della legge 604 non ha subito modifiche formali, mentre ha dato vita al diritto vivente che lo ritiene applicabile in caso di ristrutturazione aziendale certamente finalizzata alla realizzazione delle finalità e degli interessi dell’impresa datrice di lavoro, ma non al mero incremento del profitto aziendale.
Non solo. Ma come precisa dettagliatamente la motivazione della sentenza 25201, è intervenuta autorevolmente la normativa e la Giurisprudenza UE che ha profondamente innovato i principi fondamentali del diritto del lavoro e delle garanzie dei lavoratori di qualsiasi tipo.
Ed infine un’esposizione sia pure sintetica non può trascurare le regole interpretative della legge e l’onere di trasparenza, correttezza e buona fede che devono assistere ogni atto che incida in modo determinante sulla sfera giuridica degli interessanti, in particolare di quello che si usa definire il “contraente debole”. E’ ben vero che il Giudice non può sindacare i criteri seguiti discrezionalmente dall’imprenditore nella conduzione della sua impresa, ma ciò non lo esime dall’obbligo di motivazione sulla cui congruità può intervenire il Giudice; altrimenti viene violato proprio il sistema introdotto dalla legge 604/1966, autorizzando un tipo di licenziamento del tutto discrezionale alla luce di parametri non sindacabili dal Giudice. Per usare le parole della sentenza che ci interessa, “La combinazione di siffatti controlli e limiti, oltre le comuni tutele del lavoratore dagli atti illeciti o discriminatori del datore, esclude che il potere di questi di risolvere il rapporto per motivazioni economiche possa essere assimilato ad un recesso ad nutum frutto di scelte autosufficienti ed insindacabili dell’imprenditore. “