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Gaza: i clan, le milizie e le difficolta’ verso la ricostruzione

Le tensioni a Gaza non si sono placate nemmeno dopo la firma del piano di pace. Non si tratta più soltanto di uno scontro tra Hamas e Israele: nella Striscia è in corso un violento regolamento di conti tra fazioni e clan palestinesi, in una lotta per il potere che rischia di far deragliare ogni prospettiva di stabilità. Ne parliamo con Alberto Pagani, professore all’Università di Bologna ed esperto di analisi strategica e di intelligence.

La liberazione degli ultimi ostaggi e il cessate il fuoco possono aprire davvero la strada alla pace?

È un progresso significativo, ma non risolve i problemi strutturali dei palestinesi, né implica l’uscita di scena di Hamas. Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco, la Protezione civile gestita da Hamas riferisce il ritorno di oltre mezzo milione di sfollati nel Nord di Gaza. Parallelamente, le organizzazioni umanitarie chiedono ad Israele di aprire più valichi per far entrare gli aiuti.

Qual è oggi la posizione di Hamas sul disarmo, condizione chiave per la fase postbellica?

All’interno del movimento non c’è disponibilità a deporre le armi prima della creazione di uno Stato palestinese con un esercito nazionale. Eppure, il disarmo sbloccherebbe l’enorme sforzo internazionale necessario alla ricostruzione umanitaria ed economica della Striscia.

Stati Uniti e Unione Europea come si immaginano la governance di Gaza?

L’idea prevalente è riunificare Gaza e Cisgiordania sotto un’Autorità Palestinese “rinnovata”. L’Anp — incluso il premier Muhammad Mustafa — chiede che Hamas ceda il controllo di Gaza e consegni le armi. Ma l’Anp ha oggi scarsa legittimità presso i palestinesi e la sua capacità di governare senza un via libera israeliano e senza un piano di sicurezza credibile è incerta.

Esiste un modello di transizione praticabile?

Uno scenario è un’Autorità provvisoria su Gaza, sostenuta a livello internazionale, per la gestione di sicurezza e ricostruzione. Gli Stati Uniti hanno prospettato un Centro di coordinamento civile-militare, senza truppe USA sul terreno, eventualmente con contributi regionali o internazionali. Nel frattempo, circa 200 militari statunitensi sono in Israele per impostare un centro di coordinamento delle operazioni relative a Gaza in attesa di un’amministrazione stabile.

Se il potere centrale è debole, chi lo riempie?

Il rischio un vuoto colmato da clan e milizie locali, spesso guidati da interessi economici e criminali più che politici, con una governance frammentata.

Entriamo nel dettaglio: che cosa sono le hamula e perché contano tanto a Gaza?

Le hamula sono grandi famiglie allargate — l’unità sociale di base tra i palestinesi hadari — guidate da un Muktar. Offrono sostegno economico-sociale e, in assenza di Stato, anche una “giustizia domestica”. L’indebolimento di Hamas ha ampliato il loro spazio: alcuni clan si sono trasformati in milizie, sequestrando convogli o magazzini di aiuti per arricchimento o distribuzione clientelare.

Ci sono precedenti storici utili per leggere questo intreccio tra guerra e potere dei clan?

Uno parallelo citato dagli storici è l’Operazione Husky (1943): contatti tattici degli Alleati con clan mafiosi siciliani per facilitare l’invasione, con l’effetto collaterale di rafforzare la mafia. Allo stesso modo, a Gaza i clan possono diventare contropoteri rispetto a Hamas, con ricadute nel medio periodo.

Quali clan o famiglie risultano oggi più influenti a Gaza City e nel Sud della Striscia?

A Gaza City, nei quartieri di Tel al-Hawa e al-Sabra, il clan Dughmush è storicamente armato e protagonista di scontri con Hamas; in passato è stato coinvolto anche in casi eclatanti come il sequestro di Gilad Shalit. Nel Sud, nel governatorato di Khan Yunis, il clan Abu Tir ha radici nel contrabbando e influenza politico-sociale. In operazioni recenti a Khan Yunis è stato menzionato anche il clan al-Mujaida tra i gruppi locali anti-Hamas. Famiglie notabili come al-Husseini e Khalidi conservano peso sociale più che militare.

E lungo il confine egiziano, qual è la dinamica tribale?

A Rafah domina la tribù beduina dei Tarabin, attiva da decenni nel contrabbando. Al suo interno si è imposta la fazione del clan Abu Shabab, guidata da Yasser Abu Shabab (classe circa 1993), figura emersa dopo l’indebolimento del controllo di Hamas: dal traffico di droga e sigarette alla guida di “Forze Popolari” che si presentano come opposizione armata ad Hamas.

Il gruppo di Abu Shabab è accusato di saccheggi, ma si propone come garante della sicurezza dei convogli. Come si tiene insieme questo paradosso?

Il gruppo rivendica di poter proteggere i convogli in transito (ad esempio da Kerem Shalom) in cambio di denaro o merce; lo stesso Abu Shabab ha ammesso di aver prelevato beni “per sfamare la famiglia”. In parallelo, sono circolate accuse di collaborazione con forze esterne; in alcuni casi è stata perfino annunciata la sua espulsione da parte di segmenti della famiglia allargata o di altri clan.

Israele avrebbe sostenuto questa milizia? Con quale obiettivo?

Secondo fonti israeliane e resoconti mediatici, il governo avrebbe fornito armi e supporto logistico al gruppo di Abu Shabab per costruire una milizia palestinese anti-Hamas. L’obiettivo dichiarato sarebbe affidare a attori locali, non legati ad Hamas, la sicurezza e la distribuzione degli aiuti, puntando su interessi di potere e ricchezza più che su ideologia.

Che controllo territoriale esercita oggi questo fronte?

Dalla metà del 2025 il clan ha esteso la propria influenza su parti di Rafah, agendo di fatto come autorità locale in assenza di un governo forte.

Nelle ultime settimane si è fatto il nome di Hossam al-Astal. Chi è e che ruolo rivendica?

Ex ufficiale dell’apparato di sicurezza preventiva palestinese, in passato accusato di collaborazionismo con Israele, oggi guida una “forza d’assalto contro il terrore” nell’area di Rafah. In interviste al blog di Yedioth Ahronoth ha dichiarato che i suoi uomini resteranno sul territorio a difesa della popolazione, senza intenzione di lasciare la Striscia, e ha presentato un’agenda: disarmo di Hamas, fine della paura, ripristino di “una vita tranquilla e ordinaria”, apertura alla cooperazione medica ed economica con Israele.

Che immagine di Hamas emerge dagli scontri con queste milizie?

Gli scontri avrebbero messo in luce carenze di uniformi, risorse e addestramento. Ma, avverte al-Astal, la battaglia è tutt’altro che conclusa: la fase più dura sarebbe quella per “liberarsi degli agenti terroristici”.

In assenza di un accordo politico, cosa determina oggi il potere a Gaza?

La leva principale è la capacità di controllare beni e aiuti umanitari. In un contesto di crisi estrema, chi gestisce i flussi ottiene legittimità, ricchezza e consenso, spesso attraverso i mukhtar e le reti claniche.

Qual è la “vera guerra” per Hamas in questo momento?

Lo scontro con i principali clan: una miscela di crisi di comando, minacce interne e conflitti armati che potrebbe alimentare nuova violenza nelle prossime settimane e mesi.

Guardando avanti: quale passaggio è davvero dirimente per la stabilizzazione di Gaza?

Un “pacchetto integrato”: cessate il fuoco stabile, apertura dei valichi per gli aiuti, definizione di una governance transitoria credibile e, soprattutto, un percorso realistico sul disarmo e sulla ricostruzione. Senza questi elementi, il potere resterà nelle mani di chi controlla armi e approvvigionamenti — cioè clan e milizie.

E il dossier politico finale?

Resta, ripetiamo, la soluzione “due Stati” come orizzonte condiviso da Stati Uniti e Unione Europea. Ma senza una legittimazione rinnovata dell’Anp e senza un quadro di sicurezza accettato dagli attori sul terreno, è difficile che Gaza trovi un equilibrio duraturo.

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