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Gli errori di un trentennio nel pensiero di Salvatore Biasco

È opinione ampiamente condivisa che negli ultimi decenni il mondo occidentale sia stato guidato da un modello neoliberista, elaborato prima in alcune università americane e poi tradotto in specifici suggerimenti di politica economica.

A partire dagli anni ’70 a livello accademico è emersa infatti una modellistica in cui i sistemi economici sono naturalmente orientati ad esiti ottimali nel senso walrasiano. Se i sistemi non sono vicini alla piena occupazione, ciò è dovuto a rigidità che impediscono la piena flessibilità dei salari e dei prezzi o a comportamenti dissennati delle autorità pubbliche. Non esistendo di fatto problemi di carenza di domanda aggregata, gli interventi di politica fiscale devono essere marginalizzati; lo strumento d’intervento deve essere ricondotto alla politica monetaria, stante che l’inflazione è ritenuta un fatto puramente monetario.

Il nuovo modello di politica economica doveva sostituirsi a quello precedente che, sulla base di una lettura molto parziale, non sarebbe stato in grado di garantire un adeguato funzionamento del sistema economico, essenzialmente per la pervasività dell’intervento pubblico.

Dall’elaborazione teorica sono nate le proposte di politica economica: meccanismi contrattuali compatibili con la flessibilità dei rapporti di lavoro; sistemi di produzione e scambio tendenti alla concorrenza da perseguire con la legislazione antimonopolistica. Doveva in particolare essere superata la presenza pubblica nella sfera produttiva attraverso un esteso processo di privatizzazioni. La liberalizzazione degli scambi e la deregolamentazione finanziaria dovevano essere poi il canone cui conformarsi negli scambi internazionali.

Nello stesso senso il ridimensionamento degli interventi pubblici, soprattutto nella sfera fiscale, era finalizzato a un aumento dell’offerta di lavoro e di risparmio, presupposto per tassi di crescita sostenuti.

Si prometteva, in altri termini, un mondo efficiente e ad alta crescita, con assetti distributivi appropriati all’interno di ogni paese e con benefici distribuiti fra tutti i paesi.

Per ricordare Salvatore Biasco è stata pubblicata una raccolta di saggi (Ripensare la cultura politica della sinistra – Castelvecchi editore). Non solo gli autori del libro ritengono che l’applicazione delle politiche neo liberiste non abbia prodotto i risultati attesi.

Riprendendo quanto scrive Massimo Florio, si è manifestata in tutti i paesi dell’area occidentale una tendenza alla concentrazione dei redditi e della ricchezza, con effetti nocivi sulla coesione sociale; lungi dall’affermazione di regimi tendenzialmente concorrenziali, dominano su scala mondiale nei settori rilevanti strutture oligopolistiche fortemente concentrate; infine si è manifestata una tendenza alla finanziarizzazione che ha prodotto rilevati fenomeni d’instabilità.

Se il quadro generale è quello appena descritto, le modalità di applicazione del modello e gli effetti sono stati diversi in USA, Europa e Italia. Riprendo molti spunti del libro.

Gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti hanno registrato un tasso di crescita elevato, rispondendo sotto questo aspetto alle promesse del modello neoliberale: il pil pro capite, pari a prezzi 2012 a 24400 $ nel 1964, è salito a 58100 nel 2019.

L’economia USA ha poi registrato recessioni di breve durata, sempre compensate da manovre di politica fiscale espansive, in ciò ignorando uno dei punti fondamentali della teoria dominante. Il ruolo della politica monetaria è stato più sfumato e indirizzato sul fronte interno alla stabilizzazione dei mercati finanziari ed eventualmente al controllo dell’inflazione e sul fronte esterno alla regolazione dei movimenti di capitale.

In questo arco di tempo la composizione del pil è cambiata: è infatti cresciuto sensibilmente il peso del consumo (dal 59% nel 1973 al 68% negli ultimi anni). In termini di contributi alla crescita, il consumo personale ha inciso in media per il 70% del totale.  Nel 2022, secondo l’ultimo Report del Council of Economic Advisers, l’aumento dei consumi personali ha determinato una crescita del pil di 1.7 punti su una crescita complessiva del 1,9%.

Sul piano distributivo, la distribuzione del reddito e della ricchezza si è concentrata, privilegiando a partire dal 1970 i redditi medio alti. La distribuzione primaria, in particolare, è stata determinata da un’evoluzione salariale sistematicamente inferiore alla crescita della produttività marginale del lavoro in un contesto di indebolimento del ruolo dei sindacati.

Si può citare al riguardo un articolo di Summers del 2017 sul Financial Times dal titolo “America needs its unions more than ever”: ciò al fine di equilibrare i rapporti di forza fra imprese e lavoratori contrastando la lenta crescita dei salari.  Ma Summers fa anche un’affermazione che rientra nei temi trattati in questa sede: il declino del potere sindacale ha contribuito anche alla diffusa sensazione che troppo spesso il potere politico è in vendita per chi offre il prezzo più alto. 

Dato l’andamento dei salari, la crescita dei consumi personali è stata essenzialmente sostenuta dall’indebitamento delle famiglie che ha raggiunto il livello più alto in termini di reddito disponibile nel 2007 (115%), immediatamente prima della crisi finanziaria. Negli anni successivi il rapporto è diminuito di pochi punti per poi riprendere a crescere con la presidenza Trump; anche l’incremento dei consumi degli ultimi anni è associato alla crescita dell’indebitamento.

La concentrazione dei redditi e della ricchezza è stata quindi associata a rilevanti componenti d’instabilità. Nel primo Report della Presidenza Obama è sottolineato che l’aumento delle spese di consumo, quindi dell’economia nel suo complesso, era stato sostenuto dall’esplosione dei corsi azionari e dal prezzo delle case, oltre che dal facile accesso al credito. Uno sviluppo equilibrato avrebbe richiesto politiche economiche diverse, scarsamente riconoscibili anche negli anni successivi.

Il ripetuto ricorso a manovre fiscali di sostegno dell’attività produttiva o di riduzione delle imposte personali ha poi portato, con l’eccezione della presidenza Clinton, a una rilevante accumulazione di debito pubblico.

Non occorre spendere molte parole per confermare l’argomentazione di Florio sulla diffusione di assetti oligopolistici, dove i meccanismi concorrenziali operano certamente in misura limitata. In un quadro di formazione di strutture oligopolistiche o monopolistiche, come descritto da Pagano, l’introduzione e l’applicazione del sistema di proprietà intellettuale è stato un ulteriore strumento di rafforzamento del paese egemone.

Nel perseguimento del regime di libero scambio è stata adottata sempre a partire degli anni ’90 una politica di delocalizzazione produttiva, in particolare nei paesi asiatici, contribuendo alla diminuzione del tasso di povertà in quei paesi, ma nello stesso tempo ponendo le basi per l’affermazione di una capacità industriale autonoma. Non a caso all’affermazione dell’economia cinese ha corrisposto negli Stati Uniti la rivalutazione di politiche protezionistiche.

Rimane il fatto che il saldo commerciale Usa è fortemente passivo, solo parzialmente compensato dal reddito netto dei servizi. Il quadro complessivo dei rapporti con l’estero è comunque determinato dai movimenti di capitale.

In aderenza al canone neoliberale, è stata adottata, a partire da Clinton, una politica di deregolamentazione finanziaria che ha certamente contribuito ad alimentare la crisi del 2008. Nello stesso tempo, a seguito dei generosi interventi di salvataggio delle istituzioni finanziare Usa, è stata ulteriormente rafforzata l’egemonia delle banche americane: come si legge in Tooze, Lo schianto, la Federal Reserve è intervenuta a salvare anche le banche europee che erano incautamente entrate nel mercato dei capitali a livello mondiale. Il prezzo è stato l’allontanamento delle principali banche europee e il loro depotenziamento.

Comunque lo si legga, al di là di considerazioni di carattere geopolitico oggi particolarmente rilevanti, il sistema appare profondamente instabile in tutte le sue componenti, distributive, finanziarie e produttive.

L’Europa

Il modello neoliberale ha trovato applicazione anche in Europa, con effetti negativi più accentuati sulla base di un’impostazione molto più dogmatica di quella che ha caratterizzato l’esperienza degli USA.

Possiamo partire da un dato sintetico, anche se rozzo. Nel periodo 2005-14 il tasso medio di crescita dell’economia americana è stato pari all’1,6% contro lo 0,8 dell’Euro area.  Nel quinquennio successivo, fino allo scoppio della pandemia, il tasso di crescita Usa è stato pari al 2,4, contro un tasso di poco inferiore al 2 in Europa. In entrambe le aree i livelli salariali sono cresciuti a tassi mediocri, ma negli Stati Uniti, come già osservato, la dinamica salariale inadeguata ha trovato, salvo il biennio successivo alla crisi finanziaria, compensazione nell‘indebitamento delle famiglie.

È proseguito anche in Europa il processo di finanziarizzazione, ma, come si sottolinea ripetutamente anche in questi mesi, senza che si procedesse alla creazione di un mercato unico dei capitali. È poi proseguita la penetrazione degli operatori finanziari degli Stati Uniti nelle più varie forme, come sottolineato da Visco.

Sul piano produttivo, al di là di fenomeni di decentramento nell’Est europeo, la specializzazione europea sembra essersi orientata in larga misura sui prodotti di consumo durevoli qualificati in una logica neo mercantilista che ha privilegiato in particolare la Germania.

L’impostazione generale della politica economica europea non è stata caratterizzata dalla flessibilità riconoscibile negli USA. Sono state sollecitate e in parte attuate le cosiddette riforme strutturali, tutte incentrate sul lato dell’offerta e costituite da flessibilizzazione del mercato del lavoro, ricomposizione della pressione fiscale sul lato dei consumi, deregolamentazione dei settori produttivi in un’ottica sovranazionale e generale riduzione della presenza pubblica nei comparti produttivi.

Si è sviluppata poi una grande attenzione ai problemi dell’indebitamento pubblico e del debito pubblico, riassumibile nelle ben note regole quantitative, anche se le crisi finanziarie europee sono state innescate da squilibri nel comparto finanziario privato di Regno Unito, Spagna e Irlanda (l’unica eccezione è forse costituita dalla Grecia).  

In sintesi, appare ragionevole affermare che il modello neoliberale ha trovato sponda in Europa, anche sulla base di un’assunzione acritica del modello neokeynesiano nelle formulazioni delle scelte di politica economica.

Non è possibile approfondire il punto, ma il Mef adotta per le elaborazioni di politica economica un modello elaborato in sede europea che riflette pienamente la modellistica d’oltre oceano. L’ottimalità in senso walrasiano è impedita da rigidità in particolare dei salari e la crescita è frenata da eccesso di pressione fiscale. Manovre espansive di politica fiscale, di utilità comunque limitata, sono poi depotenziate da una rilevante quota di consumatori ricardiani che scontano in caso di politiche espansive le maggiori imposte future.

L’Italia

Il modello neo liberale si è ovviamente riversato in Italia, accentuandone gli elementi negativi. Possiamo fare riferimento all’indicatore più rozzo, il tasso di crescita del Pil: se l’economica europea è cresciuta a un tasso pari a 1/2 di quello americano, l’Italia nel decennio 2005-2014 ha registrato un tasso di crescita negativo (-0,5 contro lo 0,8 dell’area euro). Nel quinquennio successivo il tasso di crescita è stato in media pari all’1% in Italia contro il 2% in Europa.

Si possono addurre molti motivi per spiegare questo andamento, mediocre in termini assoluti e relativi. La spiegazione più convincente sottolinea che la dinamica salariale è stata del tutto inadeguata a sostenere la domanda interna. La Banca d’Italia ha fornito dati al riguardo. “Fra il 1992 e il 2007 le retribuzioni reali di fatto per unità di lavoro sono cresciute del 7,75%, meno di mezzo punto percentuale all’anno. Se si tiene conto dell’invecchiamento della forza lavoro, la crescita sarebbe ancora più modesta per le basse retribuzioni all’ingresso”. Nel quadriennio 2013-2017 ”i salari sono cresciuti di appena l’1,0 per cento l’anno, control’1,7 degli altri paesi dell’area euro”. Si può aggiungere che le elaborazioni del FMI dimostrano che l’evoluzione di consumi privati e pubblici è stata insufficiente a garantire tassi di crescita paragonabili a quelli europei.

Negli ultimi anni i vincoli alla crescita non sono derivati, come è accaduto in altri momenti della nostra storia, da squilibri dei conti con l’estero. Dopo la crisi del debito sovrano il saldo commerciale, soprattutto, e anche quello di parte corrente, sono stati positivi.

Gli altri fattori

Nell’interpretazione della storia recente del nostro paese, e quindi anche nella definizione delle prospettive, altre vicende devono essere richiamate.

Il primo riguarda le privatizzazioni. De Cecco ha scritto che in Italia l’industrializzazione è stata guidata dall’alto.

Probabilmente ciò è vero per molti altri paesi, ma qui vorrei richiamare un momento a mio giudizio centrale nelle vicende del nostro paese. Nei primi anni del secolo scorso Nitti, nel suo Manuale, scriveva che nelle società moderna ai tre principi della responsabilità individuale, della concorrenza sfrenata e della lotta fra individui e classi sociali si dovessero sostituire altri tre principi: responsabilità sociale, giustizia sociale e arbitrato sociale (qualcuno potrebbe sostenere che Nitti anticipava le esperienze socialdemocratiche). Questi principi ispirarono la politica giolittiana (che fra l’altro consentì un’eccezionale diminuzione del debito pubblico, all’inizio del ‘900 sopra il 100% in termini di pil, fino alla conversione della rendita nel 1906 dal 4,5 al 3,5%).

Ma Nitti sosteneva anche che lo Stato dovesse avere un ruolo essenziale nella promozione del paese, derivabile solo da un’espansione della componente manifatturiera del prodotto, oltre che dalla ricerca dell’autonomia nell’approvvigionamento delle fonti energetiche.

L’impostazione di Nitti, nella definizione del ruolo dello Stato, ha avuto grande importanza nella storia del nostro paese anche attraverso l’azione di uomini a lui legati direttamente o indirettamente, Beneduce e Menichella, oltre che della parte migliore della DC nel primo dopoguerra. 

Per una lettura a mio giudizio parziale, il sistema formatosi nel corso dei decenni, caratterizzato dalla coesistenza di imprese private di dimensioni adeguate e di imprese a controllo pubblico (responsabile del rafforzamento del paese nelle strutture di base), è stato giudicato irrimediabilmente in crisi nel corso degli anni ’80.

Nelle relazioni della Banca d’Italia della seconda metà degli anni ’80 si contrapponevano in particolare i grandi successi delle imprese private (che avevano superato le difficoltà del decennio precedente, ottenendo il più alto rapporto profitti e valore aggiunto nel 1988) alle insufficienze delle imprese pubbliche. Si affermava che le aree di crisi del settore pubblico erano circoscritte (in buona misura siderurgia e cantieristica); si riconosceva peraltro che molti sforzi erano stati fatti nel perseguimento di un migliore utilizzo delle risorse.

In questo quadro di luci ed ombre deve essere sottolineato che nel corso degli anni ’80 le imprese pubbliche avevano avviato un imponente programma d’investimenti destinati al potenziamento delle infrastrutture del nostro paese (dalle autostrade alle telecomunicazioni), potendo di fatto ricorrere all’indebitamento per il blocco dei fondi di dotazione. Le imprese private operavano essenzialmente nel comparto dei beni di consumo durevoli in un contesto di relativa protezione.

Rimane il fatto che sulla base di un’ipotizzata rapida sostituzione di imprenditori pubblici incapaci con imprenditori privati capaci e in un contesto valutario di profonda crisi si avviò un processo di privatizzazione con esiti che oggi lasciano perplessi. Per un opportuno inquadramento di queste problematiche si deve rinviare al saggio di Pagano.

I capitali all’estero

Un secondo aspetto deve essere richiamato. Sempre De Cecco ha scritto che le élite italiane sono sempre state restie a detenere le loro ricchezze prima in valuta nazionale o poi entro i confini nazionali.

Un istituto che mi ha sempre incuriosito è l’affidavit. In Italia durante il corso forzoso (1866-1892) e nel periodo di crisi d’inizio secolo (1894-1904) il pagamento degli interessi sulla rendita in lire oro (invece che in lire carta) era subordinata a una dichiarazione del percettore di non essere cittadino italiano.  Già allora, seguendo De Cecco, la tendenza a lucrare sulle vicissitudini della lira era molto diffusa.

Oggi un dato a mio giudizio significativo è quello relativo alla posizione patrimoniale netta sull’estero. Dati riferiti a novembre 2023 indicano che l’Italia ha una posizione patrimoniale netta attiva per un importo pari a circa il 4% del Pil. La posizione attiva deriva da debiti netti verso l’estero delle amministrazioni pubbliche per 655 miliardi (il debito pubblico sottoscritto da investitori stranieri) e, invece, da una posizione creditoria dei cosiddetti “altri settori” per 1089 miliardi. In altri termini, esiste una forte propensione delle élite italiane a detenere attività al di fuori dei confini nazionali.

Tutto ciò ha avuto ed ha certamente effetto sul livello dei tassi d’interesse interni. Dato che la dinamica del debito pubblico in termini di prodotto dipende dal differenziale fra costo medio del debito pubblico e tasso di crescita del prodotto, oltre che dal saldo primario (sempre positivo negli ultimi trent’anni, salvo gli anni di crisi finanziari e quelli della pandemia) si ha ragione del livello del debito pubblico, ma anche delle cause all’origine di questo andamento.

È difficile cambiare comportamenti secolari della borghesia italiana: forse l’unica soluzione risiede un un’evoluzione in senso più solidale dell’Unione europea.

Le prospettive

Se la descrizione è solo vagamente accettabile, ci dobbiamo chiedere quali sono le prospettive per le tre aree economiche cui abbiamo accennato. 

Esiste un problema di equilibrio globale. Kindleberger in La Grande Depressione, volume introdotto da Caffè nell’edizione italiana, sostiene che la gravità della depressione degli anni ’30 fosse da collegare al venir meno della secolare funzione egemone, di leadership, della Gran Bretagna, prima che gli Stati Uniti fossero preparati, o disposti, a farla propria. 

Il concetto di leadership è da intendere ovviamente come esercizio di responsabilità nei confronti della generalità dei paesi, anziché come sfruttamento di fatto.  Certamente nel dopoguerra gli Stati Uniti hanno esercitato in modo appropriato, soprattutto nei confronti dell’Europa, il loro ruolo di cardine del sistema monetario internazionale.

Ci si deve chiedere se gli elementi d’instabilità certamente presenti nel sistema finanziario americano o le tendenze sotto certi aspetti predatorie manifestatesi dopo la crisi finanziaria consentiranno in futuro un esercizio responsabile del governo dell’economia mondiale.

Tutto ciò dipende anche dagli effetti che spostamenti degli equilibri a livello politico su scala mondiale hanno avuto e avranno in futuro sugli assetti economici e finanziari. Qualche inguaribile ottimista potrebbe ritenere possibile una riedizione adattata alle nuove realtà di Bretton Woods, nelle sue originarie aspirazioni a una gestione non su basi nazionali delle relazioni economiche e finanziarie fra paesi.

Su questi temi è comunque utile rileggere il libro di Biasco, L’inflazione nei paesi capitalistici industrializzati, pubblicato nel 1979, ma ancora significativo.

Il contesto europeo

A livello europeo, come Biasco sottolinea nella sezione IV del libro del 2022, è necessaria una nuova visione del ruolo dell’Europa, come non è ipotizzabile per l’Italia una segregazione dal contesto europeo.

Su questo punto l’accordo sembra unanime, a giudicare dai vari progetti che sono stati elaborati negli ultimi mesi. In una logica ad alcuni sembrata ben poco innovativa, è stata sostenuta, o ribadita, la necessità dell’integrazione nel settore delle telecomunicazioni e della difesa, insieme alla riaffermazione della necessità del mercato unico dei capitali. Su quest’ultimo punto, sembra che alla disponibilità di Francia e Germania di procedere sulla via dell’integrazione abbia corrisposto l’opposizione di paesi come Lussemburgo e Irlanda ansiosi di conservare regimi fiscali di favore.

In questa logica di riforma e di potenziamento dell’Unione europea non sembra peraltro che il nuovo patto di Stabilità e Crescita sia espressione di una nuova linea di politica economica capace di stimolare la crescita evitando le inclinazioni deflazionistiche di questi ultimi anni. Non mi sembra in particolare che si prospetti la centralizzazione dei debiti pubblici, anche se dopo molti anni di indicazioni in questo senso sembra emergere la consapevolezza che uno dei passi fondamentali nella costruzione degli Stati Uniti come Stato federale è stata appunto la mutualizzazione dei debiti dei singoli stati.

Cosa fare

Alcuni dei problemi che hanno penalizzato l’Italia negli ultimi decenni potranno essere circoscritti con una politica europea opportunamente rivisitata. Altri sono specifici del nostro paese e richiedono interventi nel nostro ambito.

Penso in primo luogo alla riforma del mercato del lavoro, presupposto per una distribuzione primaria equilibrata non solo in una logica di crescita dell’economia, ma anche in una prospettiva di tutela della coesione sociale, stante che mediocri tassi di crescita di fatto penalizzano le classi più povere. Si deve qui fare riferimento a quanto scrive Biasco riguardo alla seconda alterazione del rapporto fra democrazia e capitalismo nel libro del 2016.

Ma penso anche a necessari interventi nell’ambito del welfare o delle politiche pubbliche in generale, come sintetizzato nella prima parte del libro. Elena Granaglia compie un’accurata analisi di alcune evidenti carenze del sistema sanitario nazionale.

Fra l’altro emerge che è in corso una non strisciante privatizzazione. Questa privatizzazione, e qui è il problema, è alimentata da potenti interessi, che vanno dalle grandi compagnie di assicurazione comprese quelle di origine cooperativa, a importanti gruppi industriali e all’atteggiamento fondamentalmente complice dei sindacati nella promozione del cosiddetto welfare aziendale.

Il processo può essere accuratamente descritto sulla base di un libro molto caro a Caffè: Lealtà, Defezione e Protesta di Hirschman. Quando le classi medie ritengono di poter ottenere vantaggi in termini di accesso a servizi fondamentali, abbandonano il riferimento universalistico per cercare soluzioni a loro riservate.

I vantaggi a giudicare dalle esperienze di altri paesi sono conseguibili nel breve periodo, mentre nel lungo, anche a livello individuale, le conseguenze sono negative.

Capitalismo e democrazia

Le ultime considerazioni mi portano ad accennare a due temi che sono affrontati in numerosi saggi.

Il primo riguarda la dimensione culturale all’origine di alcuni dei problemi economici e sociali del nostro paese.

Biasco sottolinea che il modello neoliberale si è affermato in primo luogo in ambito accademico, spostandosi successivamente a livello di cultura politica e di scelte concrete. Personalmente, ho assistito all’introduzione del divieto di fatto della lettura degli articoli accademici: la valutazione era vincolata al luogo di pubblicazione, a prescindere dall’effettiva validità o, soprattutto, dalla rilevanza per la nostra economia e società.  Il risultato è stato l’impoverimento di una cultura attenta alle specificità del nostro paese.

La vicenda delle privatizzazioni e la lettura molto spesso distorta del quinquennio 1985-1989, quando si conseguì la stabilizzazione nella crescita, dopo il velleitarismo del decennio precedente, sono a mio giudizio esempi significativi della necessità di un radicamento anche nazionale dell’analisi accademica. 

Il secondo tema riguarda il rapporto fra democrazia e capitalismo. Trovo difficoltà ad affrontare questo tema, essenzialmente perché ci sono diverse forme di capitalismo e diverse forme di democrazia; è quindi difficile stabilire un nesso di ampia valenza interpretativa.

Certamente, l’esperienza socialdemocratica dei dopoguerra è significativa nella sua attenzione alle esigenze di coesione sociale. Altri esempi non socialdemocratici di sviluppo economico associato al rafforzamento della coesione sociale sono importanti, come l’Italia giolittiana o il new deal.

Come dimostrano numerosi passi dei contributi nel volume, sono comunque importanti le analisi che individuano i fattori di deterioramento, più o meno controllabili, di modelli dominanti in uno specifico arco temporale.

La socialdemocrazia sembra essere stata una stagione relativamente circoscritta nel tempo e nello spazio: non a caso Biasco intitola il suo libro le ragioni di un ritorno a quel modello o a quella visione. Le cause dell’abbandono della visione socialdemocratica non sono solo economiche, ma anche attinenti alla ineliminabile in larga misura stratificazione sociale, quali quelle evidenziate da Hirsch nei Limiti sociali dello sviluppo.  

Nello stesso tempo, anticipando la ricorrente alternanza di modelli interpretativi, anche il sistema neoliberale deve essere letto nella sua complessità, non limitando l’analisi alla sfera strettamente economica, ma evidenziandone i limiti di carattere generale. Un sociologo francese ritiene che gli Stati Uniti siano un’oligarchia liberale intrinsecamente fragile, lontana da un autentico regime democratico e contrapposta alle democrazie autoritarie dominanti in molte parte del mondo.

Personalmente, a dimostrazione della mia datazione culturale, sono rimasto affezionato all’esito del dibattito fra Croce e Einaudi. È certamente giusto essere liberali, nel senso che si devono perseguire politiche, quali la legislazione operaia e altrettali provvedimenti, attente all’elevazione dell’uomo; il grado di liberismo, o l’assetto del capitalismo, dipende dalle circostanze specifiche, non essendo in buona misura definibili regole a priori.

*Da Riformismo e uguaglianza 14. Giugno 2024

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