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Gli stregoni digitali e la carica di Hollywood

Da una parte vediamo guru e proprietari alternare ottimismo e pessimismo nelle previsioni sull’uso dell’intelligenza artificiale. Paradossalmente in questi giorni il ring su cui si confrontano le scuole di pensiero diventa proprio l’Italia, dove arrivano il capo di OpenAI, la società proprietaria di Chat GPT, Sam Altman, a Torino, dove spero che qualcuno gli chiederà perché continua a promuovere il suo prodotto se poi annuncia lutti e rovine per l’umanità. Mentre a Bologna, ingaggiato dalla Business School, Reid Hofman, un altro dei protagonisti della Silicon Valley, dove ha promosso grandi progetti, come facebook e la stessa ChatGPT, che invece ci spiega che tutto è sotto controllo e che ognuno di noi fra due anni avrà una propria intelligenza aumentata.

Mentre gli stregoni ballano, gli stati cercano di difendere la propria autonomia, chiaramente assediata dalla pressione esercitata dai gruppi che profilano gli elettori, sull’esempio di Cambridge Analytica. L’ultimo caso è quello canadese, dove il governo di Justin Trudeau muove guerra a Facebook e Google imponendogli di pagare le citazioni dei quotidiani. Subito Zuckemberg ha deciso di sospendere ogni richiamo ai contenuti delle testate canadesi dalle sue bacheche, memore della prova di forza di due anni fa in Australia, dove una simile ritorsione di facebook causò una caduta del 30% del traffico digitale dei quotidiani locali.

La contrapposizione fra stati e piattaforme non coglie realmente il punto che oggi abbiamo dinanzi: non si tratta di un aggiramento del copyright da parte dei service provider, ma di una trasformazione radicale del modo di produrre e diffondere informazione.

La guerra in Ucraina tragicamente ci ha mostrato come ormai l’origine di una notizia, la fonte che la legittima nella stragrande maggioranza dei casi, è sempre più un cittadino che da testimone si trasforma immediatamente in cronista, perché ne ha gli strumenti, il telefonino connesso, e ne ha assunto la cultura. Ogni evento, dal più frivolo al più drammatico, come la morte dei cinque operai sui binari a Brandizzo, è spietatamente ripreso e diffuso da un obbiettivo.

L’accesso all’intelligenza artificiale, come sostiene proprio Hofman, doterà ogni individuo di capacità di elaborazione di contesti e sintesi di documenti che alzerà ulteriormente la soglia professionale dei dilettanti, rispetto ai professionisti.

La chiave che sembra più adeguata per limitare il potere debordante delle piattaforme sembra quella adottata nella vertenza a Hollywood, dove sceneggiatori e attori rivendicano più che la difesa dalle intrusioni dell’intelligenza artificiale nel ciclo cinematografico, la condivisione dei dati per permettere a ogni professionista di competere nel nuovo mercato on demand.

Come ci ha ammonito Jensen Huang, il ceo di Nvidia, l’impresa che produce i microchip per i sistemi intelligenti, “non sarà l’intelligenza artificiale a portarci via il lavoro, ma chi usa l’intelligenza artificiale meglio di noi“. Una visione che aiuta ad analizzare meglio i dati del recente studio della Confartigianato sulle insidie che i sistemi tecnologici comportano per le attività professionali.

Quasi 9 milioni i posti di lavoro a rischio per l’incalzare dell’intelligenza artificiale, documenta lo studio, in particolare sotto tiro proprio le attività di più alto profilo, dove la relazione fra dati ed elaborazione è più spinta e veloce. Il circuito giornalistico, per esempio, insieme alla sanità e al mondo della giustizia, sarà colpito frontalmente, mediante l’adozione da parte degli editori di modelli di sussidiarietà digitale, che si baseranno sulla ricerca e selezione automatica delle notizie che i cittadini mettono in rete. Il centro dello scontro dunque si sposta dal copy right alla raccolta dei dati e soprattutto alla loro combinazione.

La richiesta di Hollywood di condividere questa risorsa per poter competere ad armi pari con le piattaforme dovrebbe essere condivisa dalle istituzioni che, approfondendo l’indirizzo che già è contenuto nel recente Digital Market Act, approvato dall’UE, permette a soggeti collettivi, come città o categorie professioni, oppure a singoli individui, di contestare l’uso dei dati negoziandone la condivisione con i centri tecnologici.

Un obiettivo che renderebbe lo spazio pubblico protagonista ridando forza e valore alla dialettica politica e alle pubbliche amministrazioni rispetto alla speculazione monopolistica dei centri digitali.

*da Ansa, 08/09/2023

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