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Governare i mercati, un problema di democrazia

I problemi tra Stati nazionali e mercati hanno incominciato ad emergere nel momento in cui la dimensione degli Stati nazionali e quella dei mercati hanno incominciato a divergere. Tre fattori si possono considerare all’origine della configurazione globale dei mercati: lo sviluppo della tecnologia dell’informazione, lo sviluppo delle reti di comunicazione e la riduzione dei tempi e dei costi di trasporto. Ma va precisato che queste sono soltanto condizioni che hanno reso “possibile” la realizzazione di mercati globali; si tratta quindi di condizioni necessarie ma non sufficienti. Come ebbero a sottolineare Smith e Naim “la globalizzazione non opera primariamente come inevitabile, quasi per natura o per evoluzione storica. Molte dinamiche della globalizzazione sono guidate da interessi potentemente motivati, di natura sia pubblica che privata”. In realtà il fattore determinante è stata la decisione dei governi nazionali di abolire totalmente confini, regole e restrizioni ai movimenti di merci e capitali. I governi eventualmente esitanti in proposito sono stati incoraggiati con argomenti molto persuasivi ad opera del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e di altri organismi più o meno formali di livello internazionale. Anche le grandi “corporations” hanno utilizzato argomenti altrettanto e spesso molto più persuasivi, come ci racconta J. Perkins nelle sue “Confessioni di un sicario dell’economia”.
L’irruzione dei paesi new comers nel commercio internazionale e in particolare il dilagare delle esportazioni cinesi hanno profondamente alterato la distribuzione internazionale del lavoro e le specializzazioni produttive fin’allora vigenti. L’abbondante afflusso nei paesi occidentali di “merci a buon mercato” e la disponibilità di “lavoro a buon mercato” in molti paesi “in via di sviluppo” hanno consentito possibilità di “sopravvivenza” ai consumatori dei paesi occidentali i quali nello stesso tempo subivano l’impoverimento generato dalla contrazione o delocalizzazione delle strutture produttive nazionali e dalla pressione verso il basso esercitata sui salari. I diffusi fenomeni di “social dumping”, accompagnati da scellerate politiche nazionali, hanno aperto la strada all’abbassamento dei labour standards e del welfare state nei paesi sviluppati, nell’insensato tentativo di rispondere in questo modo alla “concorrenza sleale”.
Sul piano dei movimenti di capitale, la rete globale di relazioni tra gli agenti economici operanti su scala globale ha assunto due caratteristiche peculiari: da un lato il volume delle transazioni finanziarie ha assunto dimensioni esorbitanti anche rispetto alle dimensioni dei bilanci dei singoli Stati nazionali; dall’altro, mutati rapporti di forza tra gli operatori globali e asimmetrie informative (molti movimenti rimangono addirittura sconosciuti ai singoli Stati) hanno reso estremamente difficile e relativamente impotente una qualsiasi attività regolatoria da parte degli Stati nazionali. E’ chiaro che in queste condizioni tutta l’attività regolatoria, per essere efficace, dovrebbe spostarsi a livello internazionale, o globale.
Ma a questo proposito emergono due problemi di estrema rilevanza: il primo è dato dalla stessa inefficienza e inefficacia degli organismi regolatori internazionali; il secondo è dato dalla loro compatibilità con la sovranità dei singoli Stati nazionali. In realtà si configura una sorta di dilemma, che appare con molta evidenza anche nel caso dell’Unione Europea: se si mantiene la sovranità nazionale relativamente alla regolazione dei mercati finanziari, come pure in altri campi, l’attività regolatoria sarà necessariamente poco efficace; se al contrario tutto il potere viene attribuito agli organi sovrastatali si pone un serio problema di democrazia, vista la natura e la composizione di tali organismi.
Eppure i mercati finanziari vanno regolamentati. Come è ben noto, la moltiplicazione sregolata dei prodotti finanziari, la commistione tra attività bancaria, assicurativa e d’investimento mobiliare, l’ambiguità relativa alle agenzie di rating, l’enorme volume di transazioni OTC (in mercati non regolamentati) e la possibilità di vendite allo scoperto, l’assenza di reali poteri di intervento della BCE sul mercato primario dei titoli del debito pubblico hanno formato un mix determinante per l’instabilità sistemica, sia con riguardo alla prima che alla seconda delle ultime crisi. Ma, quand’anche regolata, la crescente finanziarizzazione dell’economia, (misurata dalla crescente quota del settore finanziario nel Pil, e accompagnata da una crescita della profittabilità del settore come pure da una crescente superiorità rispetto alle retribuzioni degli altri settori (pur tenendo conto della variabile istruzione), non rappresenta necessariamente un fattore positivo per la crescita del livello di attività economica. Anzi, costituisce un elemento di freno anche a prescindere dal suo possibile ruolo di detonatore di crisi.
Infatti, le prospettive di rendimento degli investimenti speculativi in attività finanziarie sono assai superiori a quelle attese dagli investimenti reali; pertanto le stesse imprese sono indotte a destinare quote crescenti dei profitti ai primi, sottraendole alla crescita della capacità produttiva e della domanda aggregata, e quindi alla crescita del livello di attività economica senza rischio di inflazione. La concentrazione di ricchezza in questo settore contribuisce alla crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, da cui discendono effetti sfavorevoli sulla domanda aggregata e contemporaneamente possibilità di ulteriore espansione del settore finanziario. Questo assorbe crescenti risorse e genera rendimenti che restano in un circuito in larga misura separato dal settore reale.
Si può dire che oggi le rendite finanziarie svolgono un ruolo paragonabile a quello svolto dalle rendite agrarie nel modello ricardiano. Di conseguenza, temi come la riduzione delle rendite finanziarie, la regolazione dei mercati finanziari, la separazione tra banche commerciali e banche d’affari, come pure l’adozione di misure di riduzione della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e di conversione dell’enorme massa di risparmi in investimenti reali e non di portafoglio (questo è in effetti il principale problema strutturale che blocca oggi il sistema economico) dovrebbero essere all’ordine del giorno delle autorità di politica economica.
Ma chi e dove sono queste autorità di politica economica? A livello nazionale esse hanno rinunciato alla loro autonomia e alla loro responsabilità mostrando di essere incapaci di controllare questo settore e rivelando anzi di subirne più o meno consapevolmente l’influenza, omettendo di svolgere il loro ruolo politico di guida e regolazione. Esse sono di fatto impigliate in una rete globalizzata che, in parte per le ragioni obiettive cui si è accennato e in parte per ragioni di conformismo ideologico, le pone in condizioni di non poter esercitare quel ruolo di controllo e di guida che la loro stessa legittimazione democratica imporrebbe loro di svolgere.
 A livello sovrastatale, a condizione di avocare poteri precedentemente intitolati agli stati nazionali sarebbe tecnicamente possibile realizzare una governance capace di regolare appropriatamente il settore finanziario e in genere il mercato globalizzato e di attivare o favorire meccanismi di crescita; ma ciò non succede. Non succede perché gli organismi internazionali o sono viziati dalle difficoltà di trovare soluzione agli interessi conflittuali degli Stati nazionali, oppure, come nel caso del Fondo Monetario Internazionale, grazie al principio del voto pesato in base alle quote di partecipazione e alla composizione limitata ai ministri delle finanze e ai governatori delle banche centrali sono pesantemente condizionati proprio dall’establishment finanziario.         
Il ruolo preponderante degli interessi degli Stati Uniti e delle “big corporations” sta anche guidando le trattative semisegrete per il Ttip. Se si scende a livello dell’Unione Europea si trovano più o meno gli stessi difetti di governance economica, con in più l’aggravante di uno strano ibrido: quello di non essere un vero Stato Federale né una semplice organizzazione di collaborazione intergovernativa. Essa incorpora degli aspetti (forse i peggiori) dell’uno e dell’altra. Le decisioni sono affidate a trattative tra i Capi di Stato e di Governo e molto spesso sono prese in incontri informali dove pesano maggiormente gli interessi degli Stati più potenti, mentre l’implementazione e le disposizioni applicative sono poi affidati all’arbitrio di organismi tecnici dell’Unione. E’ chiaro nella definizione dei processi decisionali l’obiettivo di ridurre il peso degli organi democratici dell’Unione Europea. E così ci si trova davanti a parziali cessioni di sovranità nazionale effettuate a favore di organi comunitari che difettano di legittimazione democratica. Cessioni da considerarsi troppo estese se volte a favore di organismi privi di legittimazione democratica, ma che sarebbero troppo esigue se volte a favore di istituzioni europee dotate di rappresentanza democratica. Così le autorità nazionali hanno le mani legate circa le misure da adottare per fronteggiare le crisi.
Si potrebbe superare l’impasse se l’Unione si dotasse di organismi rappresentativi democratici provvisti di pieno potere decisionale come in uno stato federale. Ma questo è un problema apertissimo: se la questione democratica fosse solo questione di tecniche elettorali sarebbe più semplice; ma dare espressione sostanziale a una forma di governo democratico dell’Unione è problema molto più complesso ed è dubbio se esistano oggi le condizioni per risolverlo. Quindi restiamo nell’ibrido, galleggiamo nella palude. Se non cambiano i governi nazionali che “contano” non cambieranno né le politiche europee né gli assetti istituzionali.
Nelle decisioni di politica economica dell’Unione entrano però altri due soggetti particolari: il Fondo Monetario Internazionale (di cui si è detto) e il Governatore della Banca Centrale Europea. Questo ultimo, dentro i limiti definiti dallo Statuto, fa quel che può per sopperire agli errori della gestione della politica economica dell’Unione; ma non essendo dotato dei poteri di una vera Banca Centrale cerca con lo strumento del quantitative easing di raggiungere simultaneamente una pluralità di obiettivi: contenere gli spreads, favorire la crescita, alimentare un po’ di inflazione, aiutare il consolidamento delle banche.
Se il meccanismo di trasmissione monetaria funzionasse perfettamente, forse qualcosa di tutto ciò succederebbe, ma in presenza di trappola della liquidità e di aspettative negative degli imprenditori il meccanismo si inceppa. Più moneta non crea prezzi più alti, ma tassi di interesse minori, e pur tuttavia l’economia ristagna. Draghi ha ragione nel dire che il “quantitative easing” non basta, come non basterebbe neanche la distribuzione di moneta dall’elicottero, e che occorrono politiche per la crescita. Ma alle autorità nazionali di politica economica non sono lasciati adeguati margini per adottarle, mentre i “custodi” dell’Euro non le vogliono. E allora?

 

 (*) Professore di Economia politica e di Economia del lavoro presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tre.

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