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Governo politico o tecnico, un’ antica diatriba

Un recente sondaggio ha svelato che quasi il 65 % dei cittadini italiani si sente più rassicurato dal governo dei tecnici rispetto al governo dei politici. Il sondaggio è stato effettuato poco prima che il governo allora in carica cessasse le sue funzioni, e trattavasi di un governo di tecnici che, per unanime consenso, aveva ben gestito la cosa pubblica. Il sondaggio quindi ha risentito positivamente di un effetto trascinamento dell’azione governativa. 

Un altro fattore che ha indirizzato le risposte degli italiani è la ben consolidata sfiducia verso la classe politica. L’insieme dei due fattori mostra che i cittadini sono convinti che i tecnici conoscano meglio i problemi e quali sono le soluzioni da adottare e, soprattutto, sono convinti che, quando sono al governo, i tecnici applichino ai problemi le soluzioni necessarie, perché non hanno interessi personali da tutelare. 

Pensano – i cittadini – che il politico non solo non conosca bene il problema che si trova ad affrontare, ma che adotti non la soluzione migliore per tutta la comunità, ma quella che meglio risponde alle necessità di parte, o meglio della sua parte politica o di lui stesso; i cittadini pensano cioè che i politici adottino quella soluzione che non faccia perdere consensi al suo partito ovvero che favorisca la sua carriera politica.

I politici a queste osservazioni rispondono che mentre il tecnico conosce il solo problema che rientra nella sua competenza e adotta le soluzioni che valgono a risolvere quel problema; loro, i politici, hanno una visione complessiva della società e sanno adottare la soluzione migliore possibile, che tenga conto non solo dello specifico problema, ma della complessità della società e delle connessioni e degli intrecci fra i tanti problemi che affliggono la società.

Il conflitto, che non è solo culturale, ma genuinamente politico, sembra nuovo a noi, ma così non è. Il dibattito, che oggi interessa milioni di persone, è vecchio di 25 secoli, è stato vivace e condotto con durezza già nella Grecia del V e IV secolo a. C., naturalmente in una ristretta cerchia di uomini politici ed intellettuali.

Il dibattito vedeva schierati i difensori del démos contro gli aristocratici. I sostenitori del governo del démos affermavano che per la pace sociale era preferibile il governo che chiamava tutto il popolo (naturalmente con l’eccezione delle donne e degli schiavi) a discutere e a deliberare. I cittadini che partecipavano alle assemblee, e che parlavano anche a nome di quelli assenti, erano considerati avere, in un ambiente di sostanziale isonomia, pari dignità di esprimersi sui problemi della pòlis e sulle soluzioni da adottare. Ognuno di essi apportava alla discussione le proprie conoscenze, le proprie esperienze e dal confronto di conoscenze ed esperienze diverse si giungeva alla soluzione che soddisfaceva le necessità di tutti.

Inoltre, aggiungevano i sostenitori del demos, la deliberazione assembleare del popolo aveva maggiore possibilità di conservare la pace in città, perché i cittadini che costituivano il popolo non avevano bisogni smodati, non erano interessati ad accumulare ricchezze, non intendevano primeggiare su altri cittadini, non andavano alla ricerca della gloria personale. Ed infine era vero che i partecipanti alle assemblee, consapevoli della loro limitata competenza, ascoltavano con interesse le argomentazioni e le proposte di “coloro che sapevano”, cioè gli oratori, i tecnici, le discutevano, a volte le mescolavano e legiferavano quella che sembrava loro essere la normativa migliore. Ma l’impressione era che avesse legiferato l’organo politico per eccellenza, l’assemblea del popolo.

Gli aristocratici di contro partivano dall’idea che avevano di sé stessi: essi avevano studiato nelle migliori scuole che il mondo greco offriva e sapevano di filosofia, matematica, architettura, sapevano di miniere, metallurgia e sistemi monetari, sapevano di commercio e problemi geostrategici e militari etc.; avevano visitato Paesi e città nel mondo intero; avevano conosciuto legislatori, re e tiranni; avevano compiuto ambascerie e stipulato trattati internazionali; insomma: avevano accumulato quelle conoscenze ed esperienze che occorrevano per gestire bene la cosa pubblica in tempi ovviamente difficili, quali erano quelli del V e IV secolo. 

In breve: i competenti della gestione della cosa pubblica, gli odierni tecnici, erano loro. Del governo delle assemblee pensavano che il popolo fosse ignorante, ed era vero che pochi sapevano leggere e scrivere; temevano che la povertà in cui viveva il popolo spingeva le assemblee a legiferare nel loro solo interesse, ad emettere provvedimenti di contenuto turpe, per uscire in fretta dall’arché, cioè dalle condizioni povere di partenza. 

I competenti erano poi convinti che la gente comune,oltre che ignorante della gestione della cosa pubblica, di economia, di gestione della politica internazionale, fosse anche arrogante e prevaricatrice, approfittava oltre ogni giusto limite del voto capitario, ed essendo in maggioranza, vinceva sempre, a discapito della qualità della legislazione e dell’azione politica.

Così illustrato lo schieramento del dibattito, diamo la parola ad alcuni dei protagonisti, premettendo che la parola e gli scritti dei sostenitori dei “governi tecnici”, erano, all’epoca, più diffusi e ovviamente meglio argomentati: questi sostenitori si chiamavano Socrate, Platone, Crizia, Senofonte, Aristotele, Isocrate, e tanti altri.

Fra questi c’era il “Vecchio Oligarca”, che parla in un trattatello politico attribuito a Senofonte (Pseudo-Senofonte Athenaion Politeia I, 9), sostenendo che “Se cerchi il buon governo, allora ti rivolgerai prima di tutto alle persone capaci perché facciano le leggi; le persone di qualità puniranno quelle prive di competenze e assumeranno decisioni sulla città, e non consentiranno a dei folli né di decidere, né di parlare, né di partecipare alle assemblee […] A mio parere il popolo di Atene sa distinguere fra cittadini di qualità e cittadini senza qualità, ma predilige quelli che sono accondiscendenti e utili verso di loro, e detesta le persone di qualità perché ritengono che le loro qualità non vadano a suo vantaggio…”. Al popolo, secondo il Vecchio Oligarca, non piaceva il governo tecnico perché tendeva a risolvere i problemi adottando le misure necessarie, non quelle compiacenti.

Il Vecchio Oligarca esprimeva posizioni estremamente radicali; non sopportava che le persone prive di cultura, di paidéia cioè, potessero esprimersi sul governo della città, ed era naturalmente contro la pleonexìa, la forza dei numeri, il potere della maggioranza. 

Anche Socrate, benemerito per altre considerazioni, era scandalizzato che in politica fosse concessa la parola alla gente comune: la moltitudine, diceva, è solo forza, non ha per natura alcuna fùsis come hanno, invece, i colti, coloro che sanno, i competenti. E il suo allievo Platone ritenne che gli unici meritevoli del governo fossero i filosofi, i saggi fra i saggi, e scrisse il trattato sulla Repubblica per reclamare che il potere fosse tolto al popolo e dato ai filosofi.

Di rimando, sull’altro versante, Cleone (Thuc. III, 37, 3-4) rispondeva che “l’uomo del popolo è considerato di cultura inferiore anche dagli stessi democratici; però l’insieme di tutte le persone è da considerarsi migliore nella capacità di giudizio; il sistema assembleare alla fine consente una migliore conoscenza dei problemi della polis.

E’ vero – spiegava Cleone – che la gente comune non è preparata come lo é l’élite, e non ha fiducia nella comprensione degli eventi basata sulla loro cultura ed esperienza; è vero che la gente comune sa di essere incompetente, di non saper parlare bene e di non saper controbattere le parole dei competenti. Però la gente comune – diceva Cleone  – trae la propria forza dalla conoscenza dei propri limiti, essa è sufficientemente umile da ascoltare le proposte delle persone competenti, anzi ascolta più d’una proposta; quindi, quale giudice imparziale perché le persone non sono coinvolte nella formulazione delle proposte, giudica qual’ è la migliore soluzione per la città e la sceglie.

D’altro canto, continuava Cleone, le persone colte, i famosi competenti, raramente raggiungono un accordo sulla soluzione tecnica; sono presuntuosi, intendono mettersi in mostra, sono rissosi fra di loro e sempre in concorrenza uno con l’altro; si smentiscono l’un l’altro ed ognuno di essi vuole essere il primo, il più ascoltato e vuole far vincere la propria opinione a tutti i costi.

Ed Aristotele, intimamente tecnocrate, contrario al démos ma razionale interprete dei tempi, affermava che quante più persone vengono messe insieme per decidere, più ci si avvicina alla verità, alla soluzione giusta.

Campione del governo aperto a chiunque volesse andare in assemblea a dire la sua, fu naturalmente Pericle, nato da famiglia della più alta aristocrazia ateniese, quella degli Alcmeonidi, il quale riuscì per oltre tre decenni a dominare la politica ateniese facendo credere ai cittadini che fossero loro a prendere le decisioni giuste nelle assemblee. Pericle era circondato, quali consiglieri, dai migliori competenti che il mondo allora aveva; da costoro apprendeva quale fosse la soluzione del problema tecnicamente giusta, ed aveva carisma ed abilità a sufficienza per indirizzare la decisione dell’assemblea dove lui voleva che andasse.

E così arriviamo ad un punto cruciale del tema: quello di Pericle fu il governo della gente comune, dei politicanti che frequentavano l’assemblea o fu il governo di un grande politico che alle spalle aveva grandi tecnici? Esistevano quindi governi politici che si avvalevano di tecnici? E quando Cleone affermava che le assemblee ascoltavano i competenti e poi decidevano, cosa voleva dire?

Era una costante, in quei secoli, che i governi del popolo avessero dei “fiancheggiatori”, che il Vecchio Oligarca chiamava traditori. Erano persone competenti, che davano ai politici i consigli giusti, ma dietro le quinte del potere. E già, perché anche allora i politici non volevano essere oscurati dai tecnici, se ne avvalevano ma li tenevano un po’ dietro le quinte, non lasciavano che si prendessero loro il merito. Del resto era evidente a tutti, anche al popolo minuto, che gli strateghi, i navarchi, i costruttori di città, strade e ponti dovessero essere tecnici. E tecnici erano anche i consiglieri giuridici, quelli diplomatici, gli ambasciatori, gli amministratori delle immense proprietà dei templi, dei tesori delle alleanze politiche, e del tesoro della città. Lo sapevano tutti e i cittadini partecipanti alle assemblee deliberanti erano convinti che così dovesse essere ed eleggevano i competenti per quei posti di potere dove occorreva la competenza (oltre ad una elevata etica pubblica); per le altre cariche pubbliche, quelle minori, si affidavano al sorteggio. Per dirne una: l’Arconte eponimo, quello che guidava il collegio dei nove Arconti, che, sul calendario, dava il suo nome all’anno di governo, non era sorteggiato, ma era eletto dopo un duro contraddittorio sulle sue competenze e sulla sua trascorsa condotta pubblica.

Ed allora, il secolare e duro dibattito sulla supremazia del governo dei politici o di quello dei tecnici, che giustificazione aveva? Era solo propaganda politica dei partiti (allora si definivano ‘fazioni’) che volevano conquistare il potere usando ora l’una o l’altra argomentazione ? Forse. Proprio come oggi.

Il lettore avveduto ha colto, e mi scuserà, che con una certa elasticità semantica ho assimilato l’assemblea degli antichi cittadini greci al governo politico dei nostri giorni; e i colti, gli intellettuali, i possessori del sapere ho assimilato agli odierni tecnici. L’assimilazione mi sembra che regga, e con esso il dibattito che è giunto sino a noi, considerato che tutto si è trasformato e tutto è rimasto come prima.

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