Non esiste un modo semplice di rappresentare con un unico numero ogni aspetto del benessere, così come il Pil descrive la produzione economica di un mercato. Ciò ha fatto sì che il Pil venisse impiegato come indicatore sostitutivo sia del benessere economico (il controllo delle persone sui beni) sia del benessere in generale (che dipende anche dalle prerogative delle persone e da attività esterne al mercato). Ma il Pil non è stato pensato per questo. Dobbiamo guardare al di là del Pil se vogliamo valutare lo stato di salute di un Paese e affiancargli un pannello di indicatori più ampio che rispecchi la distribuzione del benessere nella società e la sostenibilità di quest’ultimo nelle sue dimensioni sociali, economiche e ambientali. La sfida è rendere questo pannello di controllo sufficientemente ristretto da essere intelligibile con facilità, ma sufficientemente esteso da includere una sintesi di ciò a cui teniamo di più.
La crisi del 2008 e le sue conseguenze mostrano perché è necessario un cambio di prospettiva. La perdita di Pil che è seguita alla crisi non è stata quell’evento unico e temporaneo del genere previsto dai modelli macroeconomici convenzionali. I suoi effetti sono durati nel tempo, suggerendo che la crisi ha provocato la perdita permanente di grandi quantità di capitale; non soltanto di impianti e macchinari, ma anche di «capitale nascosto», equivalente per esempio a una minore formazione sul posto di lavoro, alle indelebili cicatrici riportate dai giovani che entrano nel mercato occupazionale durante una recessione e al calo di fiducia nei confronti di un sistema economico «truccato» a beneficio di pochi.
Metriche diverse, tra cui migliori misure dell’insicurezza economica delle persone, avrebbero potuto mostrare che le conseguenze della recessione erano molto più gravi di quanto le statistiche del Pil indicavano, dopo di che i governi avrebbero potuto agire con maggior decisione per mitigare gli impatti negativi della crisi. Se, in base al Pil, l’economia viene percepita come ben avviata verso la ripresa, come molti governi nel 2010 credevano, non si è disposti a intraprendere le robuste politiche pubbliche necessarie a sostenere le condizioni di vita delle persone suggerite da metriche che ci avvertono se invece la gran parte della popolazione si sente ancora in recessione. Né si è disposti a intervenire per potenziare la rete di protezione e la tutela sociale, se non esistono metriche che rispecchiano l’entità dell’insicurezza economica dei cittadini.
Queste carenze di risposta politica alla crisi sono state aggravate da un’eccessiva focalizzazione sulle conseguenze peggiorative della spesa pubblica sui conti pubblici, quando invece quelle uscite potevano essere considerate investimenti capaci di accrescere le attività dei bilanci dei governi e dei Paesi. Lo stesso accade quando le misure statistiche della disoccupazione non rispecchiano l’intera dimensione delle risorse occupazionali «inutilizzate» di un Paese. Il programma «Oltre il Pil» viene a volte descritto come «contro la crescita», ma non è così: l’uso di un insieme di indicatori in grado di cogliere ciò che consideriamo importante come società avrebbe condotto, molto probabilmente, a una crescita del Pil superiore a quella di fatto raggiunta dalla gran parte dei Paesi dopo il 2008.
Questo libro si occupa anche dei progressi compiuti nell’implementazione delle raccomandazioni della Commissione Stiglitz, Sen e Fitoussi a partire dal 2009, identificando tre ambiti che richiedono una maggiore attenzione da parte degli enti statistici, dei ricercatori e dei decisori politici. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, sui quali la comunità internazionale ha raggiunto un accordo nel 2015, vanno chiaramente molto al di là del Pil, ma i loro 169 traguardi di politica pubblica (o target) e gli oltre 200 indicatori per un «monitoraggio globale» sono troppi per guidare le decisioni. All’interno del più ampio programma delle Nazioni Unite, i Paesi dovranno identificare le proprie priorità e adeguare le rispettive capacità statistiche che, anche nei Paesi sviluppati, sono insufficienti per controllare se gli impegni assunti vengono rispettati. Quanto ai Paesi in via di sviluppo, la comunità internazionale dovrebbe investire nell’adeguamento delle loro capacità statistiche, specialmente nelle aree dove servono dati nazionali per valutare fenomeni globali quali il cambiamento climatico o la distribuzione del reddito nel mondo.
La disuguaglianza di reddito e di ricchezza occupa oggi un posto centrale nelle discussioni di politica pubblica, con modalità che nel 2009 non si presentavano. Ma è tuttora necessario compiere progressi significativi in una serie di ambiti, come la misurazione di che cosa accade a entrambi gli estremi della distribuzione del reddito, l’integrazione di fonti di dati diverse e la misurazione della distribuzione congiunta di reddito, consumi e ricchezza a livello individuale. Quando si guarda alla disuguaglianza, è altrettanto importante considerare le differenze tra i gruppi (le cosiddette disuguaglianze orizzontali), le disuguaglianze interne alle famiglie e la maniera in cui le risorse vengono condivise e gestite, fattore particolarmente importante nel caso della ricchezza. Dovremmo anche spingere lo sguardo oltre le disuguaglianze di risultato fino alla disuguaglianza di opportunità. La disuguaglianza di opportunità e ancora più inaccettabile della disuguaglianza dei risultati raggiunti, ma operativamente la distinzione tra le due è sfocata, perché non vediamo tutte le circostanze, indipendenti dagli sforzi delle persone, che contribuiscono alla riuscita individuale. È ugualmente importante mettere in campo tentativi di integrare le informazioni sulle disuguaglianze economiche nelle contabilità nazionali, per fornire, con modalità altrettanto tempestive delle statistiche sulla produzione, metriche del modo in cui la crescita del Pil viene suddivisa.
Il nostro lavoro mette in luce inoltre le metriche per le quali non disponiamo ancora di fondamenta saldamente agganciate a statistiche ufficiali. Misurare il benessere soggettivo è cruciale per valutare i costi e i benefici non monetari dei programmi e degli interventi pubblici. Se è vero che grandi progressi sono stati compiuti a partire dal 2009 per incorporare queste misure nelle indagini e inchieste ufficiali condotte su campioni ad ampio raggio, tali sforzi dovrebbero essere mantenuti per illuminare i tanti problemi di misurazione e di ricerca rimasti aperti. L’insicurezza economica è un «nuovo» campo nel quale occorre impegnarsi di più per sviluppare metriche degli shock che colpiscono le persone e degli ammortizzatori che hanno a disposizione. La crisi del 2008 ha diminuito non soltanto la sicurezza economica dei cittadini, ma anche la loro fiducia, per via della diffusa percezione delle iniquità con cui la crisi stessa è stata gestita. La perdita di fiducia (negli altri come nelle istituzioni) e un’eredità durevole di questa crisi, i cui effetti stanno concorrendo alle sollevazioni politiche che osserviamo nel mondo. Infine, la misurazione della sostenibilità nelle sue dimensioni ambientali, economiche e sociali, e quella della resilienza dei sistemi agli shock, sono priorità della ricerca e della pratica statistica che richiedono i contributi di varie discipline e approcci.
Questo libro fornisce 12 raccomandazioni per il lavoro che rimane da fare in tutti questi ambiti, a complemento di quelle contenute nel rapporto della Commissione del 2009.
Se infatti è evidente che servono nuove misure statistiche, queste da sole non bastano. È altrettanto importante ancorare i nuovi indicatori al processo decisionale politico in modi che sopravvivano ai capricci dei cicli elettorali. Il nostro lavoro attinge alle esperienze di alcuni Paesi per mostrare come gli indicatori di benessere vengono impiegati nelle diverse fasi del cosiddetto ciclo di policy, dall’identificazione delle priorità di azione alla valutazione dei vantaggi e svantaggi delle diverse strategie ai fini di un dato obiettivo di politica pubblica, dall’allocazione delle risorse necessarie a implementare la strategia selezionata al monitoraggio degli interventi in tempo reale a mano a mano che vengono attuati e al controllo dei risultati raggiunti dalle politiche e dai programmi in modo da decidere come modificarli in futuro. Descriviamo così i passi intrapresi da vari Paesi in questa direzione. Benché siano esperienze recenti, mantengono la promessa di attuare politiche pubbliche che, andando oltre i compartimenti stagni tradizionali, siano più efficaci nel centrare gli obiettivi e possano aiutare a ripristinare la fiducia delle persone nella capacità dei governi di offrire ciò a cui teniamo: una società equa e sostenibile.
*Introduzione al libro Per questa transizione, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2021.