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I dottorati di Comunità

L’ abbandono delle aree interne e delle zone “non produttive” in Italia, come in Europa, è un annoso tema che spesso è stato ed è motivo di conflitto ideologico tra i romantici dello sviluppo locale e i moderni sostenitori della società capitalistica globale.

Sotto la pressante spinta di quest’ultimi, il modello neocapitalistico di sviluppo si è velocemente propagato in tutto il Paese, concentrando ricchezze nelle mani di pochi e lasciando ai più macerie territoriali, ambientali  e umane. Per le aree deboli (di montagna, rurali diffuse, piccoli borghi storici, soprattutto del mezzogiorno d’Italia, isole minori, ecc.) non c’è stato scampo: negli ultimi 20 anni si è così completata l’emorragica sparizione fisica e sociale di intere comunità. È inutile dire che sono stati complici attivi i molti terremoti e fenomeni di dissesto (idrogeologico ecc.), causati spesso dalla neo-fragilità dei territori svuotati dalle cure che li avevano plasmati e oggi destinati, per povertà incipiente,  all’incuria e all’abbandono.

Nonostante ciò e la colpevole incapacità di affrontare questa questione, i territori esistono e, con caparbietà contadina e montanara, resistono, mostrando tutto il loro potenziale valore; spesso (forse sempre) hanno la forza per reclamare un‘inversione di tendenza e partecipare a timide fasi di sviluppo (attuati con progetti di economie dipendenti). 

Per altre vie, nel periodo della crisi pandemica, l’abbondanza di dati e statistiche elargitici ci hanno dimostrato che la persistenza e prevalenza di processi e integrità naturali hanno permesso, a una società con tassi inferiori d’inquinamento, di avere maggiori resistenze proprie. Questo fa sì che, anche se dolorosa, la situazione attuale li metta al centro di possibili piani di sviluppo come luoghi fondamentali da cui partire per costruire un paese migliore, più solidale e con un’impronta ecologica davvero ridotta al minimo. 

Diventa legittima una domanda: perché non provare a ripartire dalle aree neglette per costruire un Paese moderno ed ecologicamente sano, capace di utilizzare i migliori saperi e le più affidabili tecnologie? Concertando e promuovendo un grande piano d’intervento in questa direzione non solo ridiamo senso ai luoghi, ma contribuiamo a ricostruire e rinnovare relazioni di comunità tra le persone, costruendo reti  tra comunità differenti. 

Le politiche europee e nazionali che via via sono state assunte per contrastare la tendenza distruttiva della nostra base sociale e produttiva e ricostruire le condizioni per la sopravvivenza anche degli ultimi, penultimi e terzultimi, hanno evidenziato e mostrano un’indubbia nuova consapevolezza culturale. Basta pensare alla programmazione dei Fondi strutturali Europei 2014-2020 o al più recente Green New Deal della Commissione Europea. I flussi dell’economia reale e le conseguenti scelte di politica nazionale e internazionale vorrebbero e vogliono marciare in altre direzioni.

È per questo che le politiche di riequilibrio rischiano di restare ancora una volta mere dichiarazioni di principio se non si modificano mentalità, modalità e procedure, contribuendo a cambiare lo status quo a tutti i livelli istituzionali e operativi. 

Un esempio fra tutti: la spesa effettiva negli ultimi 5 anni dei Fondi Strutturali  2014-2020 (fondi FESR e  FSE), comprese le risorse a titolarità nazionale (PON), delle  5 regioni meridionali si attesta oggi alla fine del periodo intorno  ai 7 miliardi di € a fronte di una dotazione complessiva pari a 27 miliardi di €, che si traduce  in circa il 25% del totale disponibile e che, senza misure correttive e agli stessi ritmi anche di poco superiori, significa   che solo fra 15 anni  la spesa sarà completata!  

All’interno di questo quadro desolante, appare del tutto chiaro che le risorse destinate (e spese) ai temi della tutela dei territori, della riconversione ecologica e del riequilibrio tra aree urbane e rurali, sono davvero esigue e che, nonostante le pie intenzioni e gli  enfatici momenti di disegno di “Strategie Pilota”, le aree interne e marginali del nostro Paese rischiano di rimanere  vuote e abbandonate.

Per invertire la tendenza bisogna innanzi tutto produrre scienza e conoscenza in un approccio culturale innovativo che trovi le proprie basi nella possibilità di dare nuovo senso ai luoghi. Bisogna costruire una nuova politica inter-istituzionale che metta al centro il tema del ritorno e della permanenza, che faccia leva sul bisogno sociale diffuso, soprattutto nelle nuove generazioni, di modelli di vita alternativi. È proprio la ricerca di questi modelli che sta portando nelle campagne e nei piccoli centri, giovani, intellettuali, scrittori e artisti. 

Ma questa reazione sociale non è, né può essere, sufficiente. Attorno è necessario produrre progettualità, disegnare interventi e proporre una nuova modalità di sostegno e incentivazione economico-finanziaria, mettendo a sistema le numerose  azioni-testimonianza presenti  nel nostro Paese. Spesso queste azioni-testimonianza si realizzano, nonostante tutto, grazie al fermento di soggetti formali e informali che esistono e da anni si occupano della questione. Purtroppo e spesso, sono troppo soli e isolati  per produrre  effetti di politica economica rilevante e duratura nel tempo.

I piccoli centri delle aree interne si dovrebbero trasformare sempre di più in luoghi capaci di presentarsi come spazi sociali aperti, dinamici e, soprattutto, capaci di accogliere coloro che vogliono ritornare ma anche nuovi abitanti culturali temporanei, giovani creativi, immigrati. In altri termini occorre immaginare e costruire nuove e inedite forme di cittadinanza che oggi sono possibili e auspicabili.

Per creare e ricreare questo senso di comunità è fondamentale creare e ricreare cultura e formazione.

Cultura, perché un luogo non può vivere senza; formazione, perché il valore e le produzioni che permetteranno di ricreare una comunità autonoma e autosufficiente socialmente ed economicamente, non si realizzano con i lavori del bel tempo antico ma con l’ausilio di quanto ci offrono oggi saperi, tecniche e tecnologie.

Come mettere in relazione i saperi con l’uso dei saperi, e i luoghi del sapere con i luoghi di attuazione del sapere? Come costruire un piano di sviluppo locale in cui la formazione di progetti e professionalità dia linfa culturale e attuativa ai luoghi del fare? Come far ritornare al centro, con il valore della verifica delle buone pratiche, ciò che si è sperimentato sui territori per continuare a costruire ricerca e produrre formazione?

Sappiamo che oggi questo patrimonio di conoscenze è presente nelle aree urbane (e non in tutte) del Paese, nelle università, nei centri di ricerca e negli uffici studi; dobbiamo creare un corto circuito tra i luoghi del sapere e quelli del fare per fornire scienza e conoscenza.

Chi meglio della rete può attuare questo processo? Chi meglio della formazione a distanza può garantirne l’attuabilità? Certo serve un gande sforzo organizzativo che superi la separazione del sapere con quella del fare.

Dobbiamo studiare una nuova pedagogia? Per prudenza dovremmo dire forse sì, per convinzione accentuiamo i valori affermativi e cancelliamo forse. 

Senza cultura non si fa sviluppo. Quando nel Meridione tornavano gli emigrati con la poca ricchezza che avevano accumulato con decenni di sacrifici, tornavano con la loro cultura di partenza: la casa casosa, enorme, sovrabbondante, grande occupatrice e consumatrice di suolo … MA simbolo del riscatto sociale. L’apparato istituzionale, culturalmente coincidente e quindi consenziente, era in tutti i casi troppo debole e certo non idoneo a contrastare la cultura che produceva questi interventi e quindi … avanti tutta.

Non stiamo accennando a nessuna critica, stiamo solo dicendo che i processi di ritorno e di neo-ingresso devono avere un alveo culturale in cui muoversi e nel quale trovare tutti gli elementi conoscitivi che possano permettere lo svolgimento di un’economia sana e soddisfacente in armonia con gli ecosistemi naturali.

Serve un cambio culturale che ha bisogno di strumenti specifici.

Noi ne proponiamo (ri-proponiamo) uno: i dottorati di comunità che, anche attraverso la formazione a distanza, mettano in relazione i luoghi del fare con quelli del sapere per formare progetti e operatori.

È necessario un cambio culturale che, dovendo essere deciso, richiede un progetto concreto d’impegno civile, istituzionale e politico; che sia capace di costruire le proprie fondamenta sui valori di comunità, sulla partecipazione, sulla conoscenza, sulla cultura; che sia capace di riconoscere bellezza, identità e valori; che promuova e sorregga l’innovazione sociale e la capacità della comunità di apprendere e utilizzare con continuità le innovazioni tecnologiche e organizzative più appropriate ai propri bisogni.

Dobbiamo costruire cultura e progetti che abbiano le caratteristiche del processo; che siano in grado di innescare dinamiche e impatti sempre più vasti e di coinvolgere fasce sempre più ampie di vecchi e nuovi abitanti. Dobbiamo costruire un percorso che necessariamente deve partire, ma solo partire, dalle voci, dalle memorie, dai racconti, dalle pratiche degli abitanti per restituire ai luoghi la loro storia; il passato non deve diventare un vessillo per contrastare la nuova multiculturalità, le nuove dinamiche sociali, l’ingresso di nuova conoscenza, la formazione.

Occorre predisporsi a nuovi modi di ascoltare, osservare, guardare, dialogare con gli altri per trovare e dare nuovo senso ai luoghi e alle attività.

Se la politica e le forze di governo vorranno assumersi la responsabilità e accettare la sfida di promuovere i dottorati di comunità, un ruolo importante  di affiancamento alle comunità lo devono e lo possono dare le Università, i centri di ricerca scientifica e il mondo dell’innovazione.

E’ qui che risiede la possibilità di trovare nuove energie e nuovi saperi che incontrando quelli esistenti nelle comunità locali e la multiculturalità derivante dalle immigrazioni presenti, possano contribuire e creare e ristabilire nuove condizioni di equilibrio sociale, ambientale ed economico.

In altre parole dobbiamo contribuire a creare le condizioni strutturali per uno sviluppo locale ecologicamente sostenibile e duraturo. E questo non può che essere figlio d’innovazione nelle forme produttive, nei servizi collettivi e nella cooperazione tra persone e territori. Dobbiamo essere consapevoli che le sole risorse identitarie e i saperi locali non sono sufficienti per innescare nuovi e sostenibili processi di sviluppo nelle aree interne.

Occorre dotare questi territori di quei beni pubblici che costituiscono i fattori immateriali e non economici dello sviluppo.

Si rafforza la strada di avviare, potenziare e sviluppare  i “dottorati di comunità”. Li riproponiamo per utilizzare un concetto che riprende esperienze (purtroppo esigue) positive come buone pratiche da approfondire e diffondere.

Si tratta di un grande piano di opportunità e di lavoro qualificato per i giovani ricercatori da incentivare per farli rientrare in Italia con contratti stabili, per realizzare la grande conversione ecologica e territoriale dell’economia, a partire dalle aree abbandonate e marginali del Paese. Riguarda giovani laureati che dopo essersi formati con una visione comune di cambiamento e di futuro, si curano del proprio territorio e degli ecosistemi di provenienza.

Le università e i centri di ricerca, ai vari livelli, superando le gelosie e la voglia di protagonismo, si dovranno coordinare con le organizzazioni della società civile e le amministrazioni locali per definire un piano d’inserimento dei giovani dottori di ricerca e dei ricercatori che oggi rimangono spesso precari e sottoutilizzati anche all’interno degli organismi di ricerca.

In una prima fase l’organizzazione dovrebbe essere demandata a soggetti attivi del territorio, come ad esempio i Gruppi di Azione Locale, che potrebbero essere gli organismi intermedi da cui partire per l’avvio di tale processo, la semplificazione delle procedure e la gestione snella delle attività.

La responsabilità dell’avvio del Piano deve scaturire dal processo partecipativo avviato, coinvolgere la maggior parte degli attori territoriali presenti e dovrà prevedere forme contrattuali convenienti anche per facilitare il rientro di ricercatori che oggi si trovano lontani dall’Italia ma che possono decidere di rientrare se adeguatamente incentivati e motivati.

È questo patrimonio umano, che noi abbiamo formato, che deve essere risorsa preziosa in questo disegno complesso di rinnovamento. 

In ogni Regione, alla scala di territori circoscritti (ad esempio quelli dei GAL), le università presenti dovranno aprirsi al territorio, accettare di costituire nei settori sociali ed economici d’interesse i “Dottorati di comunità”, vere scuole e officine di ricerca, progettazione e attuazione di iniziative e servizi. Pensiamo a un laboratorio di buone pratiche diffuse, costruite sull’interazione tra competenze e saperi differenti e complementari, gestito da esperti giovani e pronti a mettersi in gioco. Con questi, va strutturato un percorso per superare gli ostacoli che necessariamente si frapporranno a questo disegno innovativo.

I dottorati di comunità evolvono e si sviluppano tra la formazione continua delle persone che vi partecipano e il servizio di rigenerazione dei luoghi in cui vivono. Ciò avviene grazie all’impegno diretto, concreto, continuo e costante di nuovi e vecchi abitanti, che si prendono cura dei luoghi di vita, sperimentano nuove forme dell’abitare fondate sui valori dell’inclusione sociale, della sostenibilità ambientale, della qualità della vita, della bellezza del paesaggio. I formati in queste scuole lavoreranno in sinergia, attraverso le reti formali e informali, con i cittadini presenti nella comunità e sul territorio alimentando una visione della comunità intesa come smart land. Dobbiamo corredare e strutturare il territorio per garantire che si appropri delle soluzioni tecnologiche adeguate ai propri bisogni. È la comunità che propone e realizza una sorta di auto-diagnosi delle proprie necessità; è sulla base di questa analisi che la comunità decide, e può decidere, quali innovazioni siano più funzionali al soddisfacimento dei bisogni emersi.

Così i Dottori di ricerca nella comunità, dovranno operare per costruire nuove forme di cittadinanza, a partire da coloro che hanno deciso di rimanere o di ritornare,  per promuovere e sostenere  nei centri e nei Borghi delle aree interne nuove forme di cittadinanza culturale, per andare oltre l’accoglienza e sperimentare nuove e innovative forme di cittadinanza multietnica. 

I dottorati di comunità saranno utili a chi ha deciso di restare o di ritornare attraverso attività e iniziative volte a :

  • fare emergere e mettere in rete il capitale sociale e identitario;
  • attivare la partecipazione consapevole dei cittadini, in applicazione del principio istituzionale della sussidiarietà tra Istituzioni e Cittadini;
  • aprire il territorio alla presenza e alla contaminazione di nuovi cittadini temporanei (es. cittadini culturali, nomadi digitali, creativi/artisti, etc.) 
  • aprire e rendere permeabile il territorio ai processi di innovazione sociale e tecnologica che si sono sviluppati e stanno crescendo a livello regionale, nazionale e internazionale e che vedono un forte protagonismo delle nuove generazioni, di creativi, artisti, innovatori, maker, nomadi digitali;
  • sostenere la promozione e l’avvio di nuovi modelli di imprese della w-economy, come le cooperative di comunità, per l’erogazione di servizi alle comunità e per la gestione dei beni pubblici utilizzati e non;
  • individuare, attivare e mettere in relazione i soggetti disponibili a “prendersi cura” del loro territorio in tutte le sue dimensioni. 
  • valorizzare e potenziare le Reti formali e informali che operano nel territorio, ovvero sostenerne la creazione di nuove negli ambiti sprovvisti. 

Promuovere e sostenere nelle aree interne nuove forme di cittadinanza culturale significa sperimentare nuove forme di partecipazione e di cittadinanza basate sull’assunto che la cultura è un processo che si costruisce nelle comunità, sperimentando nuovi modelli di ascolto, condivisione e produzione, attraverso la partecipazione attiva dei cittadini, residenti e non, che assumono il ruolo di abitanti culturali.

Cultura, conoscenza, innovazione e creatività rappresentano le possibili opzioni per costruire un futuro aperto nei Centri e nei Borghi in cui sia possibile:

  • coltivare e accrescere, soprattutto per i giovani, le proprie aspirazioni;
  • sperimentare e realizzare nuovi prodotti e servizi, attraverso l’integrazione tra competenze scientifiche e tecnologiche, creatività e abilità manuali;
  • attrarre artisti, creativi, ricercatori, investitori per la costruzione di comunità innovative;
  • trasformare i Borghi e i Centri storici, con le loro straordinarie tradizioni e l’immenso patrimonio culturale, in laboratori culturali e creativi aperti.

Andare oltre l’accoglienza; tramontata (speriamo per sempre) l’epoca della paura dello straniero, significa essere consapevoli di essere in presenza di un nuovo ciclo della storia delle migrazioni.

Occorre avviare subito percorsi di confronto e di condivisione, anche istituzionali, con i Paesi di origine degli immigrati, per definire le modalità attraverso le quali questi nuovi cittadini possono contribuire, al pari degli altri cittadini, a migliorare la qualità della vita e lo sviluppo delle attività economiche nelle aree dove essi vivono. I vantaggi e le opportunità derivanti da un‘integrazione completa sarebbero molteplici.

Di seguito se ne riportano sinteticamente alcuni per gli ambiti più importanti:

  • Nelle aree interne, soprattutto al Sud, sono presenti abitazioni non occupate, spesso abbandonate. La gran parte di queste abitazioni sono localizzate nei Centri più interni e sono la conseguenza dei processi di spopolamento avvenuti nel tempo. Avviare una strategia di recupero di questi immobili per destinarli, con modalità innovative, ad abitazioni per le famiglie di immigrati, porterebbe a un immediato ripopolamento dei Borghi interni con tutto quello che ne consegue in materia di rigenerazione sociale ed economica, di mantenimento dei servizi essenziali e di tutela del patrimonio ambientale e culturale.
  • Le aree interne presentano notevoli potenzialità e opportunità di crescita nel settore agricolo e zootecnico che non sono utilizzate per molteplici motivi, primo fra tutti il costante invecchiamento della popolazione e la fuga delle nuove generazioni dalle attività agricole. Le produzioni orticole, vitivinicole e olivicole, insieme ai prodotti della zootecnia, possono, se opportunamente innovate nei modelli organizzativi e nei processi produttivi, creare nuova ricchezza e lavoro qualificato. Il sempre maggiore e qualificato coinvolgimento dei lavoratori immigrati in queste attività è ormai indispensabile, anche attraverso forme innovative di autoimprenditorialità e di lavoro cooperativo.
  • La sperimentazione di un nuovo modello di cittadinanza multietnica permetterebbe di arricchire il patrimonio culturale delle zone attraverso il confronto e l’integrazione di patrimoni identitari spesso millenari. Questo renderebbe ancora più interessante e attrattivo il territorio per i nuovi Cittadini Culturali.
  • Le aree interne, attraverso la sperimentazione del modello di cittadinanza multietnica, potrebbero diventare un Laboratorio di interesse nazionale e internazionale per policy maker, agenzie di sviluppo internazionali, università e centri di ricerca, organizzazioni dell’economia sociale e per gli stessi Paesi di origine degli immigrati. Sperimentazioni importanti potrebbero riguardare i percorsi di accoglienza e istruzione, l’integrazione sociale, culturale e lavorativa, la cooperazione per lo sviluppo con i Paesi di origine.

Su quest’ultimo punto, si vuole ricordare l’esperienza del Master in Cooperazione Internazionale e Sviluppo locale realizzato nel corso di 7 anni nel piccolo comune di Bova nell’area Grecanica in provincia di Reggio Calabria e quella del dottorato internazionale  promosso negli ultimi anni dall’Università di Milano Bicocca che, oltre al territorio lombardo, ha coinvolto 4 paesi dell’America latina, tutti accomunati dagli stessi bisogni di formazione per lo sviluppo locale e di  strutturare percorsi virtuosi di cooperazione internazionale.

 

*  Pietro A. Polimeni Responsabile delle Infrastrutture di Ricerca sede di  Reggio Calabria) del Polo d’Innovazione Ambiente e Rischi Naturali; professore a contratto di pianificazione e cooperazione Università Bicocca Milano.

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