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I lavoratori prendano in mano il futuro dello sviluppo

L’ Unione Europea resta a metà del guado. Sulla base delle decisioni assunte finora, non è più quell’istituzione che di fronte alle difficoltà di questo o quel Paese fa il ragioniere burbero e punitivo, ma non è neanche quel medico pietoso che molti in Italia pretenderebbero che fosse. E’ un bicchiere mezzo pieno. La logica sovranista non ha fatto breccia nelle riunioni delle scorse settimane. Quella solidaristica non si è dispiegata come la gravità della situazione pandemica richiedeva. Ma il pendolo si è spostato e questo è un risultato di non poco conto. 

Inutile, però, farci illusioni. Soldi a fondo perduto se ci saranno, saranno limitati all’European Recovery Found, di cui non si conosce ancora né l’entità, né le modalità di utilizzazione. Il grosso del contributo europeo, com’è noto, verrà attraverso vari canali ma nella sostanza sarà un insieme di prestiti, e quindi un debito, a condizioni di favore e quindi non rifiutabili, ma sempre un debito che si aggiungerà a quello che abbiamo accumulato.

Di conseguenza, mentre si sta discutendo a livello europeo come si completa la strumentazione a sostegno delle economie dei singoli Paesi per non farle precipitare nella recessione più nera e a livello nazionale per creare la rete di protezione più efficace per non ritrovarci a settembre con una valanga di licenziamenti in tutti i settori produttivi e dei servizi, si sta facendo strada la consapevolezza che dobbiamo procurarci consistenti risorse interne per far fronte al riavvio dello sviluppo.

Incominciano a circolare proposte interessanti, altre problematiche, altre ancora troppo semplicistiche. Cerchiamo di darne conto in questo numero della newsletter, sapendo che non si tratta di mettere assieme soluzioni tecnicistiche ma proposte che combinino un’idea di sviluppo, di riduzioni delle disuguaglianze, di capacità di agire con efficacia e tempestività, di consenso ampio e durevole.

Questo ambizioso progetto del prossimo futuro non ha nulla a che fare con la precedente crisi del 2008. Quella fu e rimase fondamentalmente una crisi finanziaria ed infatti se ne occuparono fondamentalmente i Governi di tuto il mondo e i finanzieri piccoli e grandi. Non furono coinvolti a fondo assetti produttivi, dislocazioni delle popolazioni, equilibri ecologici. Ovviamente, l’economia digitale e della sostenibilità insidiava già quella industriale e consumistica, redistribuendo opportunità e problemi attraverso la globalizzazione.

Quella attuale, è più complessa. E’ una crisi che obbliga a ridefinire il rapporto tra natura e umanità, a non deglobalizzare nazionalisticamente gli scambi ma a regolarli, a ristabilire la priorità della persona rispetto alla ricchezza, a valorizzare la competenza piuttosto che l’apparenza o l’appartenenza. E’ la tomba del PIL rispetto al BES (benessere equo sostenibile), come indice per definire la classifica vera della condizione di vita dei cittadini di questo pianeta.

Il campo di gioco è ampio e complesso. Chi deve giocare questa partita? Tanti, ma mentre nell’altra crisi fu sufficiente stare sulla difensiva, in questa un ruolo di punta lo devrebbe assolvere il mondo del lavoro. Tanto il singolo lavoratore, quanto le organizzazioni che lo rappresentano rischiano una violenta destabilizzazione. Specie se ripiega la propria azione, il suo protagonismo nella micro dimensione, solo quella aziendale, categoriale. Questa non va abbandonata, anzi potenziata e collegata a obiettivi più ampi. Come la formazione, organizzata in sistema privato/pubblico di welfare maturo che lo accompagni per tutta la vita. Come la qualità del proprio produrre per collaborare alla lotta all’inquinamento. Come la ricomposizione della rappresentanza del lavoro, per dare a tutti pari dignità nei luoghi di lavoro.

Ma il mondo del lavoro deve contare anche nelle scelte strategiche del nuovo sviluppo, per accrescere le potenzialità di un lavoro decente. Si conta solo se si può condizionare. Non basta suggerire di investire qua o là. Deve poter orientare, con risorse controllate dalle parti sociali, gli investimenti pazienti e non speculativi che qualificano il nuovo sviluppo. Concretamente, può partecipare ad un’accumulazione, da non delegare soltanto al mercato, utilizzando i fondi pensione integrativi che attualmente stanno diventando un bacino significativo di capitali investibili. Senza alcuna avventura finanziaria, perché di mezzo ci sono le future pensioni dei contribuenti, con una quota modesta di quanto hanno in cassa, i fondi possono intervenire nella scelta delle attività che meglio assicurino il benessere equo e sostenibile.

Venuta all’improvviso e accelerando tutti i tempi, la pandemia sollecita opzioni coraggiose e inedite a tutti coloro che vogliono essere protagonisti di un cambiamento che è già in atto, che ha bisogno di essere guidato e non subito, che ricongiunga le generazioni e non le allontani. 

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