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I sindacati confederali devono rafforzarsi nel terziario

Fino a poco tempo fa succedeva che gli studenti, durante gli esami, invece di argomentare dicessero cose tipo “in quanto la pubblica amministrazione non funziona”. Senza nessuna spiegazione, con una generalizzazione forse vera ma certamente troppo vaga. Ora invece capita che dicano allo stesso modo che “i sindacati sono indeboliti e contano di meno”. Anche in questo caso senza analisi e senza che i libri di testo supportino questa tesi. Ho sempre avversato questa semplificazione e ho pensato a lungo che i sindacati mantengano una forza importante nel nostro paese, almeno in alcuni ambiti. Ma mi viene il dubbio di sbagliare, in quanto se si afferma con evidenza un senso comune di questo tipo deve pure esistere qualche fondamento.

Ma se le cose stanno così, come affrontare una stagione che si annuncia promettente per le relazioni industriali?  La ripresa di incontri tra le due parti sociali e quella del negoziato dei metalmeccanici sembrano aprire buone prospettive, insieme agli spazi molto ampi di regolazione degli orari e dell’organizzazione del lavoro, che attendono uno scatto di innovazione delle due parti sociali e una stagione più fruttuosa di relazioni industriali. Quindi la domanda da porsi è nel caso in cui i sindacati – e per converso le associazioni datoriali – siano davvero deboli allora queste potenzialità potrebbero essere vanificate.

Le cose in realtà appaiono un tantino più complicate. Le nostre organizzazioni (per ora tralasciamo le loro differenze plurali) mantengono un insediamento forte e nei momenti difficili – come accaduto durante la Pandemia – costituiscono un importante fattore di collante sociale. Ma l’assetto delle relazioni industriali opera ormai a due velocità e questo erode la loro capacità d’azione. Esiste un vasto territorio di buone prassi e di risultati contrattuali e salariali di buon livello, che riguarda fondamentalmente i settori nei quali si mantiene per tradizione una loro presenza organizzata: manifatturiero, pubbliche amministrazioni (ma con esiti decrescenti dopo il 2009) e bancari insieme a poche isole di terziario avanzato, come le telecomunicazioni. E poi invece crescono, come peso ed occupati, i settori del terziario a bassa produttività, con tutele e salari incerti e una competizione che avviene attraverso il contenimento dei costi. In questi ambiti i sindacati sono deboli, Confindustria in sostanza non c’è, e spesso non ci sono del tutto le organizzazioni datoriali, di qui i contratti di comodo e una complessiva debolezza del tessuto di rappresentanza.

Questo quadro così differenziato ci consente di mettere a fuoco il punto debole delle nostre organizzazioni. Questa varietà di situazioni consente ai governi di sottrarsi all’influenza delle parti sociali e di privilegiare relazioni spezzettate, in luogo di meccanismi forti come è stata in passato la concertazione triangolare tra governi e parti sociali. Insomma: in questa fase sono gli attori sociali che hanno bisogno dei governi più che non sia vero l’opposto. Dunque, essi sono forti sul piano organizzativo, relativamente forti sul piano sociale, ma deboli sul versante delle relazioni con il sistema politico.

Se le cose stanno così possiamo delimitare meglio gli spazi potenzialmente a disposizione degli attori sociali. In questo momento non è immaginabile una riedizione di patti sociali equivalenti a quelli che sono stati realizzati con successo negli anni novanta del secolo scorso. Non solo per la freddezza degli interlocutori politici, ma anche per la evidente difficoltà a produrre esiti di portata generale in grado di impattare sull’insieme del sistema produttivo e del mercato del lavoro.

Se però la nostra analisi ha un fondamento, possiamo ritenere che questi soggetti abbiano accumulato risorse (finanziarie e umane) che possono ora investire per rendere il contesto ambientale più favorevole.  In altri termini accordi e patti sono necessari, anche semplicemente al livello interconfederale. Ma debbono servire a consolidare i punti di forza esistenti (la fascia alta delle nostre relazioni industriali) e a ridurre progressivamente le distanze tra la fascia forte e quella debole. L’investimento, di risorse di varia natura, si dovrebbe tradurre in strumenti condivisi tra le parti per ampliare i loro spazi – la presenza organizzata e la capacità regolativa – nel terziario povero, come condizione di sopravvivenza dell’intero sistema. Quindi misure per rendere l’occupazione più stabile meglio remunerata, agire sulla leva salariale come stimolo alla produttività e come scossa per favorire l’innovazione e il cambiamento tecnico e organizzativo su una scala più larga dell’attuale nelle nostre imprese. In questi settori le posizioni dei sindacati e di Confindustria sono più vicine rispetto agli interessi, più o meno organizzati e protetti, che spingono verso il basso la qualità delle imprese e del lavoro. Esistono molte ragioni di interesse comune per un patto riformatore che si dilati oltre i confini tradizionali. Insomma, se vogliamo usare una formula: non è più tempo di ‘patti per la fabbrica’, bensì di patti capaci di intervenire sulla ‘fabbrica diffusa”, sul proliferare delle tante micro-attività che aspettano di fare un salto verso un assetto maturo.

Ma se questo è il tragitto, non semplice, allora si capisce perché è anche importante ridurre il pluralismo frammentato del nostro sistema. Proprio per questo è necessaria con ogni evidenza una maggiore unità inter-organizzativa e intra-organizzativa.

In altri termini, da un lato il buon vicinato tra Confindustria e confederazioni deve prevalere rispetto alle differenze pure presenti. L’interesse comune spinge in questa direzione, inclusa la decisiva attuazione delle regole in materia di rappresentatività tanto dei sindacati che dei datori. Questa è la chiave, tra le altre, se si vuole spostare in alto il terziario a bassa produttività, anche coinvolgendo le associazioni migliori e virtuose che operano in questo ambito. E per altro verso, su questa strada si capisce come una maggiore unità tra i sindacati sia diventata di nuovo una variabile importante. Non solo per aumentare un qualche potere di influenza verso i governi. Ma se si vuole reinventare la presenza sindacale attraverso investimenti mirati sul campo, se i sindacati non vogliono rassegnarsi a essere un ente amministrativo, ma intendono svolgere un ruolo di estensione della cittadinanza del lavoro, questa è la cruna dell’ago da cui necessariamente passare. 

*Docente di scienze sociali applicate, università Sapienza Roma

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