Per punti sommari: l’economia urbana (soprattutto) e agricola (in parte) registrano crisi profonde come comparti e nelle singole aziende; il sistema industriale registra difficoltà legate alla diminuzione dei consumi (generali e individuali), alla mobilità e alle difficoltà dell’organizzazione (quantitativa e qualitativa) del lavoro; il settore dei servizi (pubblici e privati) ha risentito nei modi che tutti abbiamo visto; il settore della cultura, dalla scuola ai musei e ancora di più alla ricerca (fatta salvo quella legata al coronavirus), ha avuto un crollo verticale sorretto solo dal mantenimento delle attività minime capaci di giustificare il “necessario e sufficiente”. Il confinamento di gran parte dell’organizzazione del lavoro nel sistema residenziale (smart working) è stato, nella maggior parte dei casi, devastante; non solo le abitazioni, quasi sempre dimensionalmente contenute, si sono “riempite” di utilizzatori inamovibili, ma hanno sommato attività (dal lavoro alla scuola, al tempo libero, alle palestre, ai giochi) che normalmente si svolgono in altre sedi. Se in casa non è stata organizzata una buona ripartizione del lavoro domestico e aggiuntivo, il piacere della vicinanza ha dovuto fare i conti con l’accettazione della (pressoché totale) scomparsa della privacy. Senza la concomitanza positiva di questi tre fattori, per chi storicamente è addetto alla gestione della casa e delle faccende domestiche (le donne) il calvario è stato assicurato.
Rispetto agli individui, il dato eclatante è il forte ampliamento della popolazione indigente e povera a cui si è aggiunta una diminuzione del reddito e della capacità di spesa per un’altra grande parte della popolazione che in genere appartiene ai settori sociali agiati. Tra gli individui, gli unici che economicamente hanno risentito poco o nulla della crisi sono quelli a reddito fisso; per loro, a prescindere dalle difficoltà specifiche e proprie del “confinamento” (dalla mobilità, al lavoro domestico e allo smart working), si è rasentato il valore positivo della vacanza.
Inoltre, per le conseguenze della crisi che ha interessato l’economia diffusa sul territorio e le “arti liberali”, il ceto medio (dagli studi professionali ai commercianti) ha visto cadere le proprie condizioni di vita in conseguenza al calo delle attività, dei consumi e degli usi sociali ed economici degli esercizi privati a servizio del lavoro e delle persone.
Il blocco delle attività, il confinamento forzoso delle persone e di molti lavori/attività all’interno delle abitazioni, l’annullamento della mobilità, hanno contribuito a produrre conseguenze dirette e negative, ma siamo sicuri che siano state le uniche cause? Siamo sicuri che non sia stata solo la ripercussione eclatante e dirompente (tre mesi in tutto) su un mercato del lavoro debole, precario, pagato stagionalmente, settimanalmente, se non a giornata e spesso al nero?
La resistenza di una catena si misura sull’anello debole, e certamente la precarietà endemica del mercato del lavoro in molti settori ha contribuito alla formazione (ma anche all’accelerazione) di molte indigenze e povertà, con la relativa e conse guente decurtazione di precedenti agiatezze.
Gli ultimi anni, per l’andamento espansivo del mercato, hanno visto un proliferare di attività legate alla ristorazione, al commercio, ai consumi, alle persone (ristoranti, bar, bed and breakfast, negozi di tutti i tipi e per tutte le tasche); il loro sviluppo è stato figlio di un mercato troppo permittivo che in cambio della diminuzione della qualità (del servizio e dei prodotti) ne ha consentito l’espansione quantitativa.
Non serviva il coronavirus per conoscere e far emergere quanto fosse presente il lavoro nero, precario e sottopagato. In più, l’arresto delle attività ha diminuito la solvibilità e il potere di acquisto dei proprietari (che hanno visto decurtate le loro precedenti agiatezze). E’ questa diminuzione generale che ha gettato molti dipendenti (soprattutto precari, stagionali e part time) nella disoccupazione e nell’indigenza.
Non serviva il coronavirus per sapere quanto la precarietà e la marginalità del lavoro, usate in questi settori pompati dal “mercato”, abbiano contribuito alla formazione del PIL, alla formazione dell’economia sommersa, all’evasione fiscale.
Se poi aggiungiamo l’edilizia e l’agricoltura, il quadro si completa e diventa facile capire da dove nascano le nuove indigenze e povertà, ma anche l’ineguale distribuzione della ricchezza.
È proprio la disparità sociale e l’ineguale accesso alla ricchezza e ai redditi stabili e contrattuali, che in Italia hanno contribuito alla formazione dei risparmi. Non solo, ma neanche sotto tortura, questi risparmi tornano a essere capitale per essere reimmessi nelle attività o nelle proprie aziende. Per i nostri bottegai i profitti sono profitti, e fanno parte delle persone e non del ciclo aziendale.
Fino a quando il mercato ha permesso l’espansione quantitativa di molte attività ed esercizi, tutti sono stati pronti a gridare “viva il mercato”; ma quando l’effimera fase espansiva è andata in crisi e non ha garantito più i guadagni, allora è cambiata la canzone e ora tutti gridano “viva lo stato” con i suoi contributi a fondo perduto, a sostegno di proprietari e di aziende in crisi con le loro attività ma spesso non con il loro risparmio.
È chiaro che un’economia sana affronta la crisi con più vitalità, mantiene il fiato ecc.; un’economia malata sempre al limite della legge, piena di lavoro nero, caporalato, risparmi aziendali (ma solo sulla “qualità” dei prodotti e sul lavoro) soffre i tempi avversi.
E allora? Che fare ora che i soldi ci sono? Respirazione bocca a bocca per l’economia malata? Io non ci penserei neanche un po’: il mercato finalmente ha selezionato, e non avrei mai pensato nella mia vita di essere un difensore del mercato. Sono decenni che parliamo di crescita e non di sviluppo, che stigmatizziamo come insostenibili i processi che generano inquinamento, CO2, diseguaglianze sociali ed economiche tra individui e stati, e ora vogliamo resuscitare attività socialmente ed ecologicamente dannose nonché economicamente decotte?
È evidente che non possono mancare i sostegni economici alle persone e alle imprese perché non si possono creare altre nuove povertà.
Gli aiuti però vanno dati su progetti di qualità e di riqualificazione, che usino i paradigmi dell’economia verde, della conversione ecologica, del risparmio energetico, della legalità e dignità del lavoro dipendente, della sostenibilità e circolarità dell’economia.
Dobbiamo superare i valori quantitativi riassumibili nei termini crescita e PIL, per costruire progetti e processi di finanziamento e incentivi per attività basate sui valori della qualità e quindi dello sviluppo.
All’inizio della fase coronavirus io, che sono decisamente nella terza età, ero cosciente che se fossi capitato in una sala di rianimazione, con un solo letto disponibile e con una lunga fila di malati gravi, a me il letto non sarebbe capitato a meno di una fila d’attesa composta da centenari. Molta letteratura scientifica, etica e morale dibatte (per me giustamente) contro l’accanimento terapeutico: ma questo non vale anche per l’economia? Siamo sicuri che dobbiamo mantenere in vita un’economia sbagliata, dannosa e che richiede alti costi di protezione?
Scorriamo rapidamente i minus sociali, ambientali ed economici sui quali quasi tutti erano pronti a giurare: quote troppo elevate di evasione fiscale, lavoro nero, precariato; formazione inadeguata per il rinnovamento, lo sviluppo potenziale legato alle nuove culture progettuali e tecnologiche; iniqua distribuzione della ricchezza; inquinamento; variazioni climatiche; produzione di CO2 …
E allora? Siamo sicuri che vogliamo raccogliere la bandiera di un’economia sbagliata? È come se alla fine della guerra di secessione degli Stati Uniti avessimo raccolto le bandiere degli stati confederati.
Il muro è arrivato. Ci troviamo di fronte alle condizioni poste dalla crisi e stiamo verificando che questa crisi è profonda e soltanto accelerata, accentuata e drammatizzata dal coronavirus. Servono montagne di euro per uscirne ma con progetti, innovazione e ricostruzione della dignità del lavoro.
Tra tutte le negatività del recente vissuto, abbiamo due elementi di futura speranza: la conoscenza degli errori del passato e la disponibilità di un’ingente quantità di risorse messe a disposizione dagli enti nazionali e sovrannazionali.
Ma per fare che cosa?
La risposta è semplice: per avviare, con la cultura della qualità, processi e progetti di sviluppo socialmente, economicamente ed ecologicamente equilibrato dobbiamo praticare un’economia diversa.
Per pensare il futuro non è necessario ri-garantire il passato nelle forme in cui si era espresso; è più utile per la società e gli individui pensare di avviare processi capaci di durare nel tempo creando equilibri sociali ed economici. Chiunque di noi abbia un figlio o un nipote, nel momento della scelta per la sua formazione e il suo lavoro ha scelto, potendo, con il pensiero rivolto al futuro. E allora? Ci sono mille adagi su questo argomento: ”La differenza tra uno statista e un politico è che lo statista pensa allo stato futuro e il politico alle elezioni future”; “Non portare il pesce, insegna a pescare”; “Se vuoi asservire definitivamente un paese povero porta consumi in regalo, in modo da distruggere la piccola economia locale di sussistenza”.
Certo, chi è entrato nell’alveo dell’indigenza e della povertà va sorretto. Non è il se che è in discussione ma il come. Quindi non pensiamo ai sussidi, ma pensiamo e organizziamo progetti, formazione e sostegni per creare utilizzatori delle nuove (e possibili) dinamiche economiche, inserendoli in modo diverso nel mondo del lavoro, organizzando e riorganizzando con loro, attraverso la formazione, meccanismi e pratiche virtuose di sviluppo locale, sostenibile e partecipato.
È chiaro che invertire la rotta non è facile per mentalità, cultura e per le pressioni che i blocchi sociali esercitano nella formazione delle decisioni e della distribuzione dei finanziamenti.
Ma, se non ora quando? Quando mai ci saranno tante risorse disponibili per gli investimenti e quando mai i finanziamenti dipenderanno da scelte istituzionali e quindi collettive, programmate e sorrette (speriamo non solo sorreggibili) dal valore della res publica?
Dalle crisi si è sempre usciti con un’”altra economia” (il new deal di Roosevelt e Keynes docet) che ha modificato profondamente gli schemi e gli andamenti conosciuti per proporre strade nuove.
E allora? Proviamo ad andare per gradi ripartendo dai territori, dall’economia locale, dall’organizzazione della partecipazione sociale alle decisioni. Certo va costruito un ampio parco-progetti, che siano capaci di essere socialmente compresi, culturalmente organizzati ed economicamente e istituzionalmente gestiti.
E i sindaci, anche aggregati per aree territoriali capaci di rappresentare “distretti” funzionali, tematici ed economici per attività, orografia, storia sociale?
E i sindacati territoriali, con la loro conoscenza diretta degli individui, delle loro capacità e specificità?
E il movimento cooperativo, con la sua storia di costruzione dal basso di un’economia capace di legare i luoghi alle tradizioni sociali e produttive?
E la scuola curriculare, con il contributo alla formazione sociale della conoscenza e professionale degli individui?
E le università, con i loro dipartimenti e la loro capacità progettuale, non fanno parte dell’economia locale? Non sono soggetti che possono garantire ricerca e divulgazione, partecipazione e formazione?
È ora di andare oltre gli esperti e la ricerca spasmodica di legittimare le scelte di potere con il consenso scientifico dei singoli che, se pur autorevoli, sempre singoli sono. Dobbiamo stabilire rapporti istituzionali corretti tra soggetti istituzionali ed economici, operanti sui territori, anche con la creazione di laboratori di ricerca-azione capaci di progettare e formare, di indirizzare le azioni imprenditoriali verso produzioni e manufatti di qualità.
In Piemonte e in Lombardia lo scambio virtuoso tra politecnici e industria ha portato l’Italia tra i grandi Paesi industriali.
E allora?
Creiamo i nuovi politecnici, leghiamoli alle nuove tecnologie e allo sviluppo generale, mettiamoli in rete con il mondo della ricerca, dell’innovazione, dello sviluppo; produciamo cooperazione e integrazione; formiamo; creiamo laboratori e strutture capaci di pensare e progettare il futuro e nel futuro.
E poi creiamo cultura sociale.
Non dobbiamo solo riscoprire l’esistente e i luoghi con la loro complessità sistemica ed ecosistemica, dobbiamo produrre ricerca e conoscenza, innovazione e complessità, cultura e formazione, ma nei paradigmi delle nuove capacità di valorizzazione delle risorse sociali e locali.
Non c’è sviluppo senza sviluppo locale e partecipazione, ma non c’è sviluppo locale senza pensare globale. Il mondo e il luogo sono sistemi ed ecosistemi, e come tali vanno trattati e interconnessi. È ora di rifare nostro il ”pensare globale- agire locale”
È chiaro che l’economia di un Paese non può essere tutta di frontiera culturale, serve anche la tradizione, il tranquillo, il déjà vu. Nessuno lo nega. Ma c’è modo e modo per farlo. Ne dico una sola semplicissima. Se i 4 bar di una qualsivoglia via di un comparto urbano con forte presenza di terziario, invece di offrire a mezzogiorno cibi per una spesa massima di 10€ e quasi esclusivamente a base di precotti e congelati stabiliscono un “gemellaggio” con un qualsiasi distretto agricolo delle vicinanze e per la pausa pranzo offrono prodotti a Km 0, sicuramente spendiamo la stessa cifra, mangiamo meglio e contribuiamo a creare un’economia territoriale di qualità e virtuosa.
Chi meglio di un sindaco (purché non pensi alla politica come vantaggio personale), di un sindacalista, di un operatore di un’associazione che opera sul territorio, sa come circostanziare il “gemellaggio”?
Gli esempi non fanno parte di questo lavoro. Nella mia vita di progettista e di operatore della cooperazione, in cui ho visto come 200 dollari possono avviare in alcune regioni del mondo una vita di benessere produttivo e finanziario, posso assicurare che non è difficile. Parafrasando in positivo Bertolt Brecht, l’uomo può pensare; quindi basta pensare.