E’ troppo presto per dare una valutazione del Governo Renzi, tuttavia alcuni segnali indicano che potremmo avere imboccato una buona strada in cui si abbandonano finalmente le “mezze misure”.
Il primo segnale è che dopo 20 anni si profila concretamente l’ipotesi di giungere ad una vera riforma elettorale che consentirà governi stabili di legislatura (e l’abolizione del senato con un risparmio di almeno un miliardo all’anno). Il secondo segnale è che potrebbero essere sbloccati nei prossimi giorni gli oltre 60 miliardi di crediti che vantano le imprese. Si tenga presente che questa vicenda svela un aspetto ben più ampio della pur rilevante questione dei crediti alle imprese: essa riguarda infatti il possibile avvio di una stagione in cui la pubblica amministrazione passa dal “fare bene cose inutili” a “fare in fretta cose utili” per i cittadini e le imprese (cioè una svolta epocale).
Alcuni anni fa l’allora presidente della Confindustria Marcegaglia fece a Berlusconi, in un famoso convegno, una richiesta che non fu mai onorata: “caro presidente con l’ampia maggioranza che ha ottenuto le chiediamo una sola cosa: far avere alle nostre imprese i crediti che vantiamo verso la PA”. Richiesta, peraltro, mai esaudita. Il governo Letta ci è riuscito in parte sotto la minaccia di una multa UE (ma solo per 22 miliardi e solo in parte arrivati). Se davvero Renzi riuscisse a farlo vuol dire che le cose possono procedere e accadere se qualcuno “ci mette la faccia”, se in sostanza i politici si rendono nei fatti (e non solo nelle dichiarazioni) responsabili di far si che certi processi vadano avanti dando una copertura ai numerosi dirigenti e funzionari della Pubblica Amministrazione, che altrimenti si trasformano, come li ha chiamati Servergnini, in veri e propri “ostacolisti”: c’è sempre infatti un cavillo burocratico che impedisce (lungo la catena di comando) di far procedere anche le migliori buone pratiche in quanto si fa carriera in certi ambienti pubblici non perché si è solleciti ma in quanto non si fanno errori e il modo migliore di non sbagliare è “non fare”. Non dobbiamo infatti trascurare che uno dei principali ostacoli sulla via dello sviluppo del paese è il ruolo “ostacolista” troppo spesso assunto dalla PA (o da alcuni nella PA).
L’atteggiamento di Renzi (se si tradurrà in fatti) indica anche che il limite del personale politico di oggi non sta tanto nelle ruberie dei rimborsi spese (su cui è fin troppo facile sparare) ma nel fatto che è venuto meno in quasi tutto l’attuale ceto politico la responsabilità nel far si che le cose procedano, cioè il “metterci la faccia” affinché i processi e le procedure dentro le pubbliche amministrazioni procedano e celermente nell’interesse dei cittadini e delle imprese. Il politico tradizionale (anche locale) ogni qual volta qualcosa non funziona dà la responsabilità ai propri collaboratori o ai dirigenti pubblici. Si è così creato un “muro di gomma” insuperabile per cittadini e imprese e di fatto, un’abdicazione dei politici al governo che non era così alcuni decenni fa. Non dimentichiamo che gli studi sullo sviluppo dei paesi dicono che il primo fattore che rende ricco un paese non è l’istruzione o il disporre di materie prime o l’innovazione, ma avere buone istituzioni, istituzioni che fanno gli interessi dei loro cittadini e delle imprese e che non rubano.
Un terzo fattore che fa ben sperare è la discesa dello spread ma soprattutto dei tassi con cui viene pagato il nostro debito pubblico (circa 400 miliardi da rinnovare nei prossimi 12 mesi); se i tassi rimanessero così bassi, porterebbero ad un risparmio annuo di circa 15 miliardi (da 84 miliardi su base annua a circa 69).
Un ultimo fattore che fa ben sperare sono alcune dichiarazioni sulla scuola che mai si erano sentite prima. La prima riguarda la dichiarazione di Renzi di essere favorevole all’alternanza scuola-lavoro almeno negli Istituti Professionali. Si tenga presente che l’indagine eurobarometro rileva che tra i sedicenni olandesi il 42% dichiara di essere favorevole/interessato a svolgere un lavoro manuale (e sono poi il 42% i giovani olandesi che svolgono lavori manuali); tra i sedicenni italiani quelli che dichiarano di essere interessati al lavoro manuale sono solo il 5% (anche se sono poi sono il 48% a svolgere lavori manuali, appannaggio sempre più di immigrati). Questa discrasia non è solo dovuta all’assenza di un sistema di orientamento (in Italia il tentativo di creare una authority di valutazione delle scuole risale al ministro Berlinguer impallinato prima di tutto dal centro-sinistra e dai sindacati scuola), ma al fatto che mentre all’estero gli “Istituti Professionali” con l’alternanza scuola-lavoro sono scuole molto qualificate che danno risposte allo sviluppo delle intelligenze “altre” (non quelle tipiche dei liceali) favorendo così un’ampia fascia sociale di giovani, da noi questi percorsi in alternanza scuola-lavoro non esistono.
Gli studi sull’apprendimento mostrano che oggi occorre garantire percorsi radicalmente diversi ai giovani, solo in questo modo si riesce a recuperare una fascia sociale di giovani che non sono interessati alla via tradizionale dell’istruzione teorica. Ci sono nel mondo ottime scuole che garantiscono, peraltro, ottime prospettive di lavoro manuale e artigiano basate su un metodo di apprendimento radicalmente diverso dalla sola istruzione teorica ed attraente per chi mostra altri tipi di intelligenze e che non sopporta di stare “tutta la settimana seduto su un banco ad ascoltare un insegnante”. I nostri Istituti Professionali si sono invece progressivamente licealizzati, hanno gradualmente ridotto le ore di laboratorio, non è mai decollata l’alternanza scuola-lavoro (se non qualche stage nell’estate del 4° anno) e dunque si presentano oggi come “para-licei” spesso “zavorrati”. Inutile dire che se solo imparassimo a prendere spunto dalle ottime esperienze della Germania e dei paesi del Nord Europa dove il 30% degli studenti frequenta le scuole in alternanza daremmo un impulso non indifferente ad una buona scolarizzazione di molti giovani di fasce “deboli” e anche ottime opportunità di occupazione in quel nostro made in Italy (artigiano e non) che altro non aspetta che di essere rilanciato, risparmiando, peraltro, nella spesa pubblica ed occupando molti più giovani là dove vanno sempre più immigrati.
Un’ultima questione che è stata indicata dal Ministro Giannini è portare a 12 anni anziché a 13 il ciclo di studi che precede l’università come avviene in quasi tutti i paesi nord europei, in Uk e Usa. Ridurre di un anno gli studi pre-universitari non significa affatto apprendere di meno, significa risparmiare importanti risorse che potrebbero essere meglio spese nella transizione al lavoro e in una didattica più efficace com’è nei paesi leader del mondo sul piano dell’apprendimento. Come ha detto a suo tempo Carniti il paese è stanco di “mezze misure”, sarebbe ora che si facessero scelte radicali e innovative superando i veti delle lobbies che bloccano il paese da decenni. I prossimi mesi ci diranno se questa via virtuosa è stata imboccata.