Mentre, faticosamente l’Europa stava perfezionando le procedure di approvazione della nuova legge sull’Intelligenza artificiale, che comunque sarà esecutiva non prima del 2025, i grandi protagonisti del mercato digitale, continuano a ridisegnare lo scenario, rendendo sempre meno gestibile la disciplina elaborata a Bruxelles.
I due giganti della telefonia mobile, come Apple, proprietario dello standard IOS, e Google, titolare di Android, che insieme controllano il 94,5% dei terminali attivi nel pianeta, stanno trattando un accordo strategico sull’Intelligenza artificiale.
Si tratta della possibilità che l’azienda fondata da Steve Jobs possa adottare lo standard Gemini, il format di intelligenza artificiale elaborato dal motore di ricerca più diffuso nel mondo. In caso di intesa, avremmo la quasi totalità di telefonini intelligenti che rispondono ad un unico centro di comando.
Torniamo, paradossalmente, dopo infinite giaculatorie sul capitalismo cognitivo, alle vecchie logiche delle ferrovie americane, o delle sette sorelle del petrolio, in cui il capitalismo, anche nelle forme più innovative, come erano appunto quelle imprese di trasporti o energetiche, alla fine si riduce ad un furbesco cartello commerciale per ridurre le incertezze della mitica e invisibile mano del mercato.
Ma, nella nuova dimensione dell’economia immateriale, e della potenza di calcolo che riprogramma le nostre categorie psicologiche, un possibile trust del telefonino intelligente avrebbe implicazioni che potrebbero andare ben oltre i vantaggi industriali.
Il monopolio dei dati mobili
Un’intesa fra Apple e Google significherebbe anche connettere le due banche dati antropologiche più ricche e complete, dove si raccolgono i dati operativi più sofisticati della nostra esistenza. Avremmo una massa critica di metadati che coprirebbe l’intero pianeta, mettendo in condizione i due global player di decifrare dettagliatamente le nostre variabili neurali, e poter, di conseguenza, influire sulla loro evoluzione.
Come scrive Joseph Stiglitz, già premio Nobel per l’economia e consigliere economico del presidente Clinton, “se un’azienda, o un gruppo di imprese, gode di una posizione forte, se non dominante in un’area dove è possibile raccogliere dati, quest’azienda dispone di informazioni sugli individui superiore a quelle di cui dispongono le altre aziende. E siccome l’intelligenza artificiale, con i metadati, consente alle aziende che la controllano di stabilire qual è il valore che ciascun individuo assegna ai diversi prodotti, e che quindi è disposto a pagare, si crea un potere discriminante senza precedenti“ (J.Stiglitz, Popolo, Potere e Profitti, Einaudi).
Quest’analisi di Stiglitz, limitata alle dinamiche del consumo, viene però oggi stressata da un’ulteriore e decisiva variante, indotta dall’esplosione delle attitudini dei sistemi di intelligenza artificiale ad analizzare e rielaborare, quasi telepaticamente, le nostre decisioni.
Si pone così una vera emergenza democratica globale: i comportamenti digitali, che coinvolgono almeno i due terzi dell’umanità, sarebbero il campo di azione di una nuova forma di persuasione occulta che agirebbe – in maniera riservata e clandestina – su ogni singolo individuo che abita questo mondo.
Diventa così tema fondante la sfera pubblica proprio la forma di civilizzazione di questa potenza che al momento non prevede né tollera forme di attrito sociale. Infatti, per la prima volta nella storia umana le nuove modalità di produzione della ricchezza (tali sono le cosiddette tecnologie che in realtà sono solo modi di riorganizzare le relazioni sociali) non contemplerebbero procedure ed esperienze di negozialità da parte dei proprietari.
Alla ricerca dell’introvabile campione
Con questa logica ci sembra per lo meno naif l’iniziativa del governo sul fronte proprio dell’intelligenza artificiale. Ci riferiamo alla convention organizzata dal sottosegretario Butti che ha visto un intervento impegnato del presidente del consiglio Meloni. Proprio perché riconosciamo l’impegno del capo del governo, non frequente nel dibattito politico, su un tema così complesso ma fondamentale, non possiamo non entrare nel merito. Da quanto abbiamo avuto modo di comprendere dagli interventi e dalle molte interviste dell’onorevole Butti, due sono gli assi che dovrebbero caratterizzare la strategia del governo:
– uno sforzo per mettere in campo campioni nazionali nel settore;
– una politica complessiva che renda queste procedure sempre e comunque controllabili dal fattore umano.
Sulla seconda opzione, che ci pare faccia ormai parte di quel mantra scaramantico che precede ogni intervento sull’argomento, non possiamo che ribadire una certa diffidenza. Affermare che l’uomo debba essere al centro di un processo tecnologico che si identifica in pochi capitani di impresa che addirittura danno il proprio nome ai singoli progetti, come Elon Musk, oppure il capo di Amazon, Jeff Bezos, o ancora il patron di OpenAi (proprietaria di Chat GPT), Sam Altman, ci appare un’inutile tautologia. L’intelligenza artificiale è un fenomeno umanissimo, incardinato e guidato da proprietari fatti di carne ed ossa che controllano rigidamente questo mercato, estraendone valore.
Dunque il problema non è temere un’eventuale rivolta delle macchine, quanto invece organizzare forme di efficacie controllo pubblico che orientino e certifichino la finalità di queste procedure, la loro trasparenza e riprogrammabilità.
Quanto sta accadendo in queste ore sul versante dei telefonini intelligenti, come abbiamo visto, ci porta davvero lontano e richiede una moderna e competitiva presenza pubblica.
A tal fine arriviamo all’altro punto del progetto governativo, i cosiddetti campioni nazionali.
L’idea che viene esposta è quella di favorire imprese italiane che possano adattare queste tecnologie al nostro contesto. E’ una evidente declinazione di quanto inizialmente avviato da Francia e Germania con due società di intelligenza artificiale nazionali, la francese Mistral e la tedesca Aleph. Pur di garantire un decollo agevole a queste imprese sia Parigi che Berlino avevano addirittura frenato la normativa europea, temendo che un sistema troppo rigido di regole potesse limitare lo sviluppo delle start up.
In realtà, ci pare di capire che siamo dinanzi ad un repentino fallimento di questa linea. Proprio i francesi, diciamo una delle più caratteristiche visioni nazionalistiche delle strategie economiche, hanno alzato bandiera bianca e in pochi mesi Mistral è diventata una controllata di Microsoft. Ora, al netto di polemiche e contrapposizioni politiche, magari esasperate da ragioni elettorali, ci sembra necessario un ragionamento concreto.
Il nostro Paese, e con esso l’intera Europa, hanno bisogno di una bussola che ci permetta di rientrare da protagonisti in questo campo da cui ci troviamo emarginati. Per questo sarebbe il caso che il governo promuovesse sia in Europa, magari usando positivamente il turno di presidenza italiana del G7 che invece viene esibito solo a fini puramente propagandistici, per impostare una riflessione di sistema, che impegni le migliori risorse che sono sulla scena. Il nodo che ci sembra fondamentale da sciogliere riguarda appunto l’approccio metodologico.
L’Open source come strategia e non come sentimento
Dobbiamo come Italia e ancora di più come Europa, competere sullo stesso terreno affermatosi negli Usa, caratterizzato da logiche proprietarie e da investimenti intensivi per controllare l’intera filiera del sistema di intelligenza artificiale, oppure dovremmo ragionare sulle reali tendenze che il mercato sta facendo affiorare, cogliendo nelle opportunità che propone il modello Open Source per rendere sostenibili i costi proibitivi delle fasi di addestramento dei dispositivi generativi e seguendo una via alternativa e più coerente con la cultura sociale e partecipativa europea?
E’ un dilemma – quello fra competizione intensiva e logica partecipativa – che richiama per certi versi quanto accadde alla metà degli anni ‘60 del secolo scorso proprio in Italia, dove il miracolo dell’Olivetti fu sacrificato da vincoli geopolitici e insostenibili condizioni di mercato che ci portarono a ritirarci completamente dall’informatica.
Oggi quel tram sta passando una seconda volta. La realtà dell’intelligenza artificiale ci mostra come, dopo una prima fase di addestramento di base, estremamente complesso e costoso, si ponga una seconda fase, quella che si definisce fine-tuning, in cui il sistema viene specializzato. Ed in cui contano le capacità relazionali e narrative con cui si combinano archivi e dimestichezza con i contenuti specialistici. Questa è la fase in cui possiamo giocare un ruolo significativo.
Tanto più che le roboanti ambizioni che il governo ha agitato poi dovrebbero essere sostenute da investimenti assolutamente inadeguati, quali ad esempio quel miliardo di cui ha parlato la Meloni. Una cifra davvero ridicola, tanto più se paragonata ai cento miliardi e più bruciati dal 110% delle ristrutturazioni energetiche degli edifici.
Teniamo presente che una sola azienda americana, come OpenAi, che con ChatGPT controlla ormai circa la metà del mercato delle applicazioni automatiche, sta mobilitando circa 7 mila miliardi per pianificare il passaggio dall’intelligenza generativa, quella basata sulla preparazione statistica al linguaggio naturale, a quella generale, che dovrebbe autonomamente acquisire abilità creative nell’organizzazione dei contenuti.
Questa sproporzione deve portare l’intera politica europea a porre il tema di come controllare queste tendenze all’autonomia dei sistemi tecnologici e come invece combinare le applicazioni specializzate con un corredo di valori etici e morali che ci permettano di governare progressivamente un sistema relazionale sempre più digitalizzato.
L’alternativa su cui orientarci, soprattutto come sinistra e come organizzazioni sindacali che devono sentire questo terreno come priorità rivendicativa e non solo puramente formativa, ci pare proprio quella di diventare una sponda e partner del movimento open source. Parliamo non di sparute comunità di zoccolanti digitali, ma di una potenza che si sta affermando in rete come l’unica realtà in grado di rendere sostenibili ed efficienti questi mastodontici apparati semantici.
Negoziare l’algoritmo prima che lui negozi noi
Offrire la nostra pubblica amministrazione, il reticolo dei distretti tecnologici, la rete delle università, il pulviscolo artigianale come laboratorio e fabbrica di esperienze di implementazioni digitali collaborative, su protocolli aperti, con processi di riprogrammabilità inclusi, significa indicare all’Europa una strada concreta e non velleitaria di piena autonomia sia linguistica che di sviluppo di software che possa assicurarci una reale sovranità culturale e industriale. Oltre a garantire le più elementari norme di sicurezza in quella guerra ibrida che si è scatenata in Europa dopo l’invasione dell’Ucraina. Una guerra di senso che mira ad inquinare le fonti dei saperi e della conoscenza di intere popolazioni, tanto più se in vigilia elettorale. Inoltre dobbiamo intendere la sicurezza anche ai fini dei più delicati settori di applicazione, quali quelli militari e soprattutto sanitari.
Pensiamo specificatamente alle ricadute nelle ricerche biotecnologiche, in cui il sistema della Silicon Valley, a cominciare non a caso proprio da Google ed Apple stanno riconvertendo i loro poderosi guadagni. Anche in questo delicatissimo settore staremmo determinando le condizioni per dei ristretti monopoli che potrebbero selezionare, in base ai dati biometrici che ormai gli smartphone possono raccogliere, e integrandoli con potenza di calcolo tipica dell’intelligenza artificiale, le tendenze evolutive su cui intervenire. In sostanza decidere quali malattie curare e quali invece quelle su cui impegnarsi di meno.
Senza una politica trasparente che innesti procedure negoziali a partire da interessi pubblici avremmo delle derive eugenetiche e delle diseguaglianze biologiche all’orizzonte. Si confermerebbe così la previsione del genetista Craig Vender che spiegava qualche anno fa che i sistemi digitali non servono per giocare con i social ma per programmare la vita umana.