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Il caso Stellantis non è un caso

Il caso Stellantis è diventato negli ultimi anni l’emblema del “capitalismo della rendita” cioè di un modello di capitalismo che antepone la rendita e il profitto immediato a qualsiasi considerazione di sostenibilità industriale, sociale e occupazionale. Non è quindi un caso nato per caso. Ma è un caso fisiologico a un modello sviluppo che senza correzioni continuerà a produrre infinite situazioni identiche.

La fusione tra PSA e FCA aveva suscitato inizialmente grandi aspettative, promettendo competitività, innovazione e una transizione verso un modello produttivo all’avanguardia, capace di affrontare le sfide della mobilità sostenibile. Tuttavia, quelle promesse sono state disattese, lasciando spazio a una gestione aziendale guidata esclusivamente da logiche finanziarie di breve periodo. Stellantis oggi rappresenta un caso emblematico di come le priorità degli azionisti, spesso legate a minoranze organizzate e speculative, possano compromettere non solo il futuro dell’impresa stessa ma anche quello di migliaia di lavoratori e interi territori.

Nonostante il drastico calo della produzione negli stabilimenti europei, in particolare in Italia, Stellantis ha registrato negli ultimi anni profitti record. Nel 2023 l’azienda ha dichiarato utili per 18,6 miliardi di euro, con una crescita dell’11% rispetto all’anno precedente, e ha distribuito dividendi per circa 6 miliardi di euro. Questa apparente contraddizione si spiega con la scelta di ridurre drasticamente la produzione di veicoli di fascia media e bassa, concentrandosi su modelli ad alto margine di profitto. A ciò si aggiunge una politica di tagli ai costi che ha comportato chiusure di stabilimenti, esuberi e una progressiva riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo. 

Emblematico è il caso italiano, dove la produzione di autoveicoli è passata da circa 1,4 milioni di unità negli anni Novanta a 470.000 nel 2022, con un impatto devastante sull’occupazione e sulle filiere industriali locali. Decisioni come la chiusura dello stabilimento Maserati di Grugliasco, mascherata da “razionalizzazione produttiva”, evidenziano una strategia orientata esclusivamente al profitto di breve termine, ignorando le ricadute sociali ed economiche per i lavoratori e le comunità. Queste scelte hanno portato a un progressivo deterioramento della capacità competitiva dell’azienda. Negli ultimi mesi, Stellantis ha iniziato a subire gli effetti negativi di questa politica, misurando un vero e proprio crollo delle vendite e, conseguentemente, del valore di borsa dell’impresa. 

La crisi è stata certificata il 1° dicembre 2024 con le dimissioni dell’amministratore delegato Carlos Tavares. Tra le cause del tracollo vi è il ritardo nell’investire seriamente nella mobilità elettrica, un settore cruciale per il futuro dell’industria automobilistica globale. Nonostante la crescente domanda di veicoli elettrici, Stellantis ha scelto di mantenere un approccio cauto, sottovalutando l’importanza strategica di questo mercato e compromettendo ulteriormente la sua competitività. In parallelo, il modello aziendale, orientato alla distribuzione dei dividendi, ha eroso le risorse destinate a ricerca, sviluppo e innovazione, elementi fondamentali per affrontare le sfide della transizione ecologica e digitale.

Un sostegno a contrastare politicamente vicende come questa arriva dalla Confederazione Europea dei Sindacati (CES) che ha espresso ripetutamente forti critiche verso questo modello, sottolineando come la priorità data alla finanza speculativa stia distruggendo il tessuto industriale europeo. La CES ha recentemente adottato una risoluzione sulle politiche industriali che evidenzia la necessità di un approccio radicalmente diverso, basato su investimenti produttivi, innovazione e sostenibilità sociale. Tra le proposte più urgenti che la CES ha deciso di portare avanti vi è anche l’introduzione di una moratoria sui licenziamenti forzati, come risposta alle ristrutturazioni aziendali non giustificate da reali difficoltà economiche, ma esclusivamente dalla necessità di garantire rendimenti agli azionisti, oltre che dalle necessità che oggettivamente sorgeranno nel mondo del lavoro nelle more delle transizioni ormai già in corso. 

Si tratta di iniziative obiettivamente necessarie per portare nel dibattito con le autorità europee non solo il singolo caso, pur clamoroso e gravissimo come quello di Stellantis, ma la necessità di rivedere complessivamente l’approccio alla crescita che in Europa sconta anche un regime di concorrenza interno tra gli stessi membri della comunità, attraverso politiche fiscali, sociali e industriali che tendono a scaricare sui “vicini” l’incapacità di trovare soluzioni strutturali e comuni alle crisi, alla scarsa crescita, alla vulnerabilità dei sistemi produttivi. 

Ma assieme a nuove politiche industriali e strumenti di protezione sempre più robusti per tutelare i lavoratori, che replichino, per esempio, la straordinaria esperienza del fondo SURE con cui l’Europa garantì la tenuta dell’occupazione durante il COVID, emerge sempre di più la necessità di un nuovo modello di governance delle imprese, che riconosca il ruolo centrale dei lavoratori e promuova una partecipazione più attiva nella loro gestione strategica, in linea con l’articolo 46 della Costituzione italiana e con la recente proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dalla CISL.

Il caso Stellantis solleva una questione fondamentale: la finanza speculativa è incompatibile con una governance industriale sostenibile. Negli ultimi trent’anni, il crescente potere dei mercati finanziari ha progressivamente eroso la capacità delle imprese di pianificare e investire a lungo termine. La pressione a generare profitti immediati, soddisfacendo le aspettative di azionisti spesso rappresentati da minoranze organizzate e soprattutto da fondi di investimento, impedisce di conciliare gli obiettivi di sostenibilità economica, sociale e ambientale con le reali esigenze produttive. Questo modello, centrato esclusivamente sulla distribuzione di dividendi e sulla remunerazione dei manager, ignora completamente la centralità del lavoro e dei lavoratori, nonché l’importanza di investimenti stabili e continuativi per lo sviluppo di tecnologie e infrastrutture innovative.

È necessario un cambiamento profondo, che parta dalla regolamentazione del rapporto tra finanza, imprese e mercato dei capitali. Senza regole chiare che vincolino le imprese a perseguire obiettivi di sostenibilità e benessere sociale, lo sviluppo sostenibile rimarrà un miraggio. La retribuzione dei manager, ad esempio, non può continuare ad essere scollegata dal valore sociale prodotto dalle loro azioni. I compensi dei dirigenti devono essere legati a risultati concreti in termini di occupazione, giusti salari, tutela dell’ambiente e inclusione sociale. Almeno il 50% della loro retribuzione complessiva dovrebbe derivare dal raggiungimento di obiettivi di natura sociale. Inoltre, è fondamentale introdurre una politica fiscale che penalizzi le imprese socialmente insostenibili, imponendo costi aggiuntivi a chi genera utili causando danni sociali e ambientali. Applicare un principio “risarcitorio” alla fiscalità applicata a chi genera costi in capo alla collettività pur di massimizzare il proprio profitto non sarebbe vessatorio ma semplicemente giusto. 

Allo stesso modo dovrebbero essere rivisti i principi con cui si erogano gli incentivi alle imprese. Si deve tenere presente, per esempio, che incentivi come quelli dati all’acquisto delle auto elettriche, sacrosanti nell’ottica della riconversione ecologica del sistema di mobilità privata, dovrebbero essere inversamente proporzionali alla categoria dell’auto. 

Il mercato dell’auto elettrica in Europa si sta infatti sviluppando soprattutto nelle classi di auto di lusso. Basti vedere quali sono i brand e i modelli più venduti per rendercene conto. È questa una delle ragioni per cui le vendite dei mezzi elettrici raggiungono ancora percentuali marginali del mercato complessivo dell’auto, mancando una significativa offerta di veicoli nelle fasce di prezzo più accessibili, mentre nelle fasce di lusso si sono sviluppati, brand e  modelli di grande successo. Incentivare con soldi pubblici un mercato che si sta posizionando prevalentemente nelle fasce alte, senza forzare correzioni di questo trend, significa applicare politiche fiscali regressive, avvantaggiando i soggetti con maggiore disponibilità e minori necessità.  Il risultato è doppiamente negativo: da una parte si aumenta l’ingiustizia fiscale, dall’altra non si dà un reale contributo alla trasformazione del parco auto e al raggiungimento degli obiettivi ecologici di sistema, né a quelli di espansione industriale del settore, con conseguente recessione anche sul piano dell’occupazione.

Stabilire condizionalità di natura sociale e ambientale quando si usano soldi pubblici dovrebbe essere un principio su cui non dover insistere come invece si è obbligati a fare continuamente.

E si dovrebbero introdurre strumenti di rappresentanza dell’azionariato diffuso e popolare che deve essere rafforzata, per contrastare il potere sproporzionato delle minoranze speculatrici e garantire che le decisioni strategiche siano prese nell’interesse collettivo. Riforme che vadano nella direzione di una maggiore democrazia economica sono sempre più necessarie per contrastare l’imbarbarimento del capitalismo e per riportare la gente nella pratica democratica. Ignorare che l’ingiustizia nella distribuzione della ricchezza; la riduzione draconiana della classe media, progressivamente  trasformata in lower class; l’abisso incolmabile tra le retribuzioni dei manager, i profitti della finanza e i salari dei lavoratori; la sensazione di impotenza che i lavoratori provano di fronte a decisioni oggettivamente difficili da comprendere e condividere da cui la loro vita viene mortificata; siano alla base della disaffezione della maggioranza della popolazione verso le istituzioni nazionali e europee e la partecipazione al voto sarebbe decisamente pericoloso per il futuro delle democrazie occidentali.

Il caso Stellantis non è un’eccezione, ma un esempio paradigmatico di un sistema economico che necessita di essere profondamente ripensato. Se non si interviene con misure strutturali che regolino i mercati finanziari e promuovano una governance industriale sostenibile, il futuro dell’industria europea rischia di essere compromesso. 

Occorre un modello che metta al centro il lavoro, i lavoratori e lo sviluppo sostenibile, contrastando le derive speculative e riaffermando il primato dell’economia reale sull’economia finanziaria. Solo attraverso una collaborazione attiva tra istituzioni, sindacati e imprese sarà possibile costruire un futuro industriale capace di coniugare innovazione, giustizia sociale e competitività.

*Segretario CES (Confederazione Europea Sindacati)

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