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Il contratto a termine costi di più dell’ indeterminato

In queste settimane si registra una persistente polemica attorno all’incremento occupazionale di circa un milione di posti di lavoro coincidente con la ripresa produttiva che, faticosamente, sta cercando di riportarci alle posizioni pre-crisi. Molti argomenti sono il frutto della volontà di alcuni partiti di ridurre al minimo l’impatto positivo che questa tendenza potrebbe avere sull’opinione pubblica nella già avviata campagna elettorale, a favore dei partiti di Governo. Meglio non tenerne conto. L’accusa principale – su cui vale la pena   soffermarci – è che la quota sempre più consistente di questo incremento è formata da contratti a tempo determinato e che quindi la precarietà resta il segno distintivo del nuovo ciclo produttivo.

Il dato è incontestabile, ma ha natura strutturale o congiunturale? In altri termini, è la nuova forma del lavoro per il futuro o è una fase intermedia che porterà al più socialmente accettabile (ed auspicabile) contratto a tempo indeterminato? Bisogna soltanto fare ricorso agli indizi, dato che non c’è politico, economista, sindacalista, imprenditore che siano in condizione di spendere una parola definitiva a riguardo. Indipendentemente dall’ottica che si assume, il ciclo produttivo in corso è iniziato in ritardo rispetto a quello dei vettori europei (in primis la Germania) ed esteri (Cina e Stati Uniti). E la durata della crescita mondiale è insidiata da fattori più politici che economici.

Primo indizio. C’è un dinamismo nel mercato del lavoro che va oltre il recupero vertiginoso della Cassa integrazione. L’Inps registra un calo del 25% delle ore autorizzate per i trattamenti di integrazione salariale tra gennaio/marzo del 2017 rispetto al 2016 (riguarda quasi tutti i settori, con industria e artigianato a – 50%, mentre il commercio è in controtendenza con un +131,2%). Questo segnale è importante perché documenta che il sistema produttivo ha ripreso a girare sia nell’industria che nei servizi e finanche in agricoltura. Questo riassorbimento, sotto il profilo sociale, è un sospiro di sollievo dopo anni di purgatorio di migliaia e migliaia di uomini e donne. Esistono ancora sacche di lavoratori lasciati a casa, incerti sul proprio destino. Ci sono ancora decine di vertenze aperte con grandi incertezze presso il MISE riguardanti medie e grandi aziende. Ma il clima di diffusa depressione che ha contrassegnato gli anni dal 2008 al 2016 ha ceduto il passo ad una cauta e maggiore tranquillità per tante famiglie.

Secondo indizio. Però, il mercato del lavoro resta sovrabbondante di disponibilità a lavorare, specie tra i giovani. Ma è anche sofferente per la carenza di alcune professionalità. La crisi è stata pesantemente strutturale, per cui la ripresa è tirata soprattutto da aziende che si sono fortemente riorganizzate e riqualificate in termini di tecnologie e prodotti. A seguito di ciò, si susseguono gli sos lanciati dalle aziende e dalle associazioni imprenditoriali circa la necessità di rafforzare i percorsi formativi per la creazione e la valorizzazione di alcuni mestieri e professioni piuttosto che altri. Su tale terreno, la scuola, ma non è la prima volta, si dimostra ancora scarsamente orientata rispetto alle tendenze delle esigenze produttive e sprovveduta di strumenti per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per questo è sperabile che l’alternanza scuola lavoro incentivi un serio orientamento dei giovani nella scelta dei loro percorsi formativi e consenta a questi, un avvicinamento ed un contatto sempre meglio organizzato con il mondo del lavoro. 

Terzo indizio. Il successo (per modo di dire) del contratto a termine coincide con la ripresa economica. Infatti, il sorpasso rispetto alle assunzioni con contratto a tempo indeterminato è datato 2016. A Job act già in vigore e quindi a vincoli sui licenziamenti “indeboliti”. Evidentemente, le valutazioni aziendali a favore del ricorso al primo tipo dei contratti non sono state condizionate dalla qualità delle norme che regolano il secondo. Chi ha temuto e tuttora teme che l’indebolimento delle tutele relative al contratto a tempo indeterminato avrebbero messo le imprese in una posizione dominante, dovrebbe ricredersi. Delle due, l’una: o le imprese non credono che il nuovo articolo 18 le favorisca o fanno valutazioni che prescindono dalla qualità delle norme. Al fatto che il pendolo sia più spostato verso la seconda delle interpretazioni concorrono: le incertezze sulla durata della ripresa; la constatazione che il grosso dei contratti a termine è nei servizi, settore in genere a bassa qualificazione e quindi con tanta forza lavoro a disposizione; l’annuncio governativo di decontribuzioni per il 2018 che ha scoraggiato, almeno da metà dello scorso anno, l’assunzione a tempo indeterminato.

Sulla base di queste considerazioni, si potrebbe dare cittadinanza ad una interpretazione congiunturale del boom dei contratti a tempo determinato. Ma non vale la pena di adagiarsi su di essa. Anche se la ripresa dovesse dimostrarsi più consistente nei prossimi mesi e anni, non c’è certezza di sgonfiamento significativo del fenomeno. Ragioni strutturali, specie nei servizi e scarsezza di incrementi consistenti di produttività nel breve periodo giocano a sfavore.  C’è un solo modo per depotenziare questa tipologia di contratto. Farla costare di più; significativamente di più di quel 1,6% stabilito nel 2016.

 Il problema non è l’articolo 18, ma l’affermazione di un concetto molto semplice: chi, per scelta o per necessità, accetta un contratto a tempo determinato deve avere una tutela diretta (più salario) o indiretta (più contributi previdenziali) maggiore del lavoratore a tempo indeterminato. E’ persona maggiormente esposta all’incertezza del proprio futuro, indipendentemente dalla congiuntura economica o dalla sorte dell’azienda. Questo rischio va riconosciuto con un indennizzo predefinito e a prescindere dalle capacità contrattuali individuali o collettive della persona interessata.

Questa sensibilità sembra che cresca nelle indicazioni elettorali di alcuni partiti. Soprattutto scavalca le polemiche legate al passato e cerca di spostare in avanti la ricerca delle assonanze e delle future, probabili scelte legislative. Sta maturando la consapevolezza che la coesione sociale non si assicura per molto tempo senza una riduzione della disoccupazione, ma neanche facendo proliferare forme spurie di flessibilità.  La precarietà forse non è cancellabile del tutto. Specie in un Paese come il nostro, in cui il lavoro nero riguarda un numero consistente di cittadini. Ma condizionarla e ridurla al minimo è possibile e doverosa.

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