La bozza del decreto legge, noto come decreto dignità, varato dal Consiglio del Ministri lunedì 2 luglio u.s., continua ad essere sotto la lente di ingrandimento degli studiosi, oltre che dei rappresentanti sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e del mondo politico in generale. Non sfuggono le critiche e le perplessità pressochè generalizzate, incentrate tutte sulla constatazione, secondo la quale le misure ipotizzate non colgono le effettive esigenze del mercato del lavoro, così come si è venuto evolvendo, caratterizzato in particolare dalla flessibilità.
E’ stato notato come l’encomiabile obiettivo del contrasto alla precarietà del lavoro, che vorrebbe sostanzialmente restituire, nelle intenzioni ministeriali, dignità al lavoratore è perseguito mediante un percorso parziale e inadeguato, quale la restrizione del contratto a termine, in assenza peraltro della promozione di quello a tempo indeterminato.
Le aspettative al riguardo erano per un intervento governativo più organico, che tenesse conto dell’insieme dei contratti caratterizzati, anche per la diffusa non corretta applicazione, dalla precarietà sia sotto il profilo temporale che degli strumenti di tutela sociale.
Sicuramente positivo l’intendimento, che per ora rimane tale, espresso in conferenza stampa dal Ministro del lavoro e dello sviluppo economico, secondo il quale nella legge di bilancio di fine anno si procederà per un taglio selettivo del cuneo fiscale. Non può sfuggire, tuttavia, che, a voler sottacere il problema delle coperture finanziarie, l’intervento con potrà, comunque, essere isolato, in considerazione della complessità del tema lavoro, nel quale andrebbe inserirsi.
Inoltre, è opinione generalizzata, sia pure con una cauta apertura delle OO.SS. dei lavoratori, che, al di là dei limiti da più parti evidenziati anche nell’ambito della stessa area governativa, nell’iter dell’approvazione, superate le perplessità circa lo stesso carattere della necessità e urgenza proprie del D.L., non potranno non essere apportati significativi correttivi.
Contenuti attuali del provvedimento
Il quadro attuale per quanto attiene alla materia strettamente lavoristica, a seguito degli ultimi aggiustamenti, presenta i cambiamenti sotto riportati, in gran parte interessanti il Jobs Act, apparentemente in controtendenza con l’impostazione in atto, che trova le sue lontane origini già nella riforma Treu.
Il primo punto, che si propone, come accennato, l’ambiziosa finalità della dignità del lavoratore, è costituito dalla stretta suicontratti a termine.
La durata massima di tali contratti scende da 36 a 24 mesi, le proroghe saranno 4 e non più 5, con obbligo della causale-abolita nel 2014 per superare un enorme e inutile contenzioso-dopo il primo contratto cosiddetto libero della durata fino a 12 mesi, nonchè di un contributo di 0,5 punti, che si aggiunge a quello di 1,4 stabilito dalla legge Fornero.
Le causali attengono alle esigenze temporanee e oggettive, nonché a quelle di sostituzione e agli incrementi non programmabili dell’attività ordinaria; è motivo di grande preoccupazione presso gli operatori del settore voler far derivare da qui l’inclusione della stagionalità, che caratterizza l’attuale periodo dell’anno. Non solo per questo viene registrata la tendenza ad anticipare proroghe e rinnovi prima della scadenza.
Le nuove regole trovano, infatti, applicazione anche per i contratti in corso, in caso di proroghe e rinnovi. L’assenza di un regime transitorio non potrà non scontare sicuri inconvenienti di non poco conto sul piano occupazionale, favorendo attendibilmente l’alternanza dei lavoratori.
Le tanto discusse innovazioni, con tutte le articolazioni appena richiamate, sono estese anche alla somministrazione a termine, con la non applicazione del limite numerico previsto per i contratti a termine, nonché del diritto di precedenza nelle assunzioni.
Infine, potrebbero assumere un certo significato i dati occupazionali Istat di maggio – tuttavia, verosimilmente non indicativi di una tendenza – dati che segnalano per i contratti a tempo indeterminato un incremento importante di 70.000 unità, superiore a quello dei contratti a termine pari a 62.000 unità. La circostanza potrebbe portare acqua alla tesi di chi ritiene questi ultimi funzionali, con un certo carattere strutturale, all’evoluzione registrata nelle attività e nell’organizzazione aziendali.
Una seconda modifica mira ad incidere sulle tutele legate ai contratti a tutele crescenti, introdotti anch’essi dal Jobs Act. In particolare, verosimilmente con intenti anche dissuasivi della risoluzione contrattuale non assistita dalla reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità in caso di licenziamento illegittimo viene fissata in 36 mensilità, con indennizzo minimo pari a 6 mensilità. Il salto non è di poco conto, essendo oggi il risarcimento variabile da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità.
Di una certa importanza l’ulteriore intervento sulla delocalizzazione dell’attività aziendale incentivata, con divieto riferito ai trasferimenti sia all’interno che all’esterno della Ue, pena la perdita dei benefici accordati e l’applicazione nella seconda ipotesi anche di consistenti sanzioni amministrative.
Più in particolare, ad evitare possibili contenziosi intorno al concetto di delocalizzazione, se ne è tentata la definizione, identificando l’operazione come “il trasferimento di attività economica o di sua parte dal sito produttivo incentivato ad altro sito da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa con la quale vi sia rapporto di controllo o collegamento”.
Ancora, per le stesse finalità, il superamento di eventuali censure per il divieto di trasferimento all’interno della Ue potrebbe rendersi possibile grazie alla previsione riferita alla salvaguardia dei “vincoli derivanti dalla normativa europea in materia di aiuti di Stato e di utilizzo dei fondi strutturali europei”.
Il divieto di cui sopra opera per cinque anni dalla conclusione dell’iniziativa agevolata. La sanzione consiste, come accennato, nell’obbligo della restituzione dei contributi, finanziamenti agevolati, garanzia e aiuto fiscali ricevuti, con l’aggiunta degli interessi determinati al tasso vigente al momento della concessione, maggiorati fino a 5 punti. Per i trasferimenti extra Ue trova applicazione un’ulteriore sanzione calcolata da due a quattro volte l’importo degli aiuti illecitamente usufruiti.
Misure punitive dello stesso segno sono previste anche in materie analoghe:
-revoca totale o parziale degli aiuti concessi ai datori di lavoro che riducono nei cinque anni successivi il numero degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata. L’entità della revoca è rapportata genericamente alle dimensioni aziendali e al grado di ridimensionamento dei livelli occupazionali. Con riferimento alle condizioni per il riconoscimento degli aiuti, gli stessi possono attenere direttamente all’impatto occupazionale, quanto alle “ricadute economiche e industriali dei progetti agevolati”;
-restituzione dei benefici fiscali relativi all’iperammortamento di Industria 4.0, nell’ipotesi di cessione a titolo oneroso o delocalizzazione all’estero di beni o macchinari agevolati.
Appare agevole richiamare ancora una volta come le misure in tema lavoristico appena illustrate, soprattutto per alcuni passaggi chiave sono suscettibili di revisione in sede di approvazione definitiva dello schema di decreto, oltre che di conversione: al di là delle posizioni politiche talvolta diversificate all’interno della stessa compagine governativa, l’opinione è suggerita dall’impatto del provvedimento in tema sociale e occupazionale, che attendibilmente potrebbe finire per comportare almeno l’inserimento per taluni istituti di un regime transitorio.