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Il dialogo degli ateniesi e dei melii

Una vicenda internazionale in corso in questi giorni, mi ha fatto venire in mente l’episodio noto come il Dialogo dei Meli e degli Ateniesi.

Racconta Tucidide nel V libro de La guerra del Peloponneso che nel 416 a.C., nel corso della c.d. Pace di Nicia, che segnò una pausa nella trentennale guerra, Atene decise di ridurre alla ragione l’isola di Melo (oggi Mylos). Era, questa, una piccola isoletta delle Cicladi, di 148 Kmq, poco più di uno scoglio, inadatto all’agricoltura, con alcune miniere, abitata da pescatori e minatori. L’isola era geograficamente equidistante dalle coste del Peloponneso e dell’Attica; aveva partecipato, con una propria piccola flotta alle guerre persiane dell’inizio del V secolo. 

L’inimicizia fra Atene e Melo viene spiegata diversamente da due storici: secondo Tucidide, il popolo aveva deliberato di restare neutrale nella guerra in corso e ciò malgrado la comunità melia, di etnia dorica, discendesse da coloni spartani. Secondo Isocrate (Panegirico, 100-102) aveva deliberato di uscire dalla Lega Delio-Attica, che era l’ossatura dell’impero ateniese.

Nell’agosto del 416 a.C. una flotta ateniese forte di 38 navi, 30 ateniesi ed 8 degli alleati, con oltre tremila soldati ed arcieri, si presentò davanti al porto di Melo; gli strateghi che la comandavano chiesero di parlare ai Melii. Il governo li fece scendere a terra, li ospitò nella sala dei convegni e si dispose ad ascoltare cosa l’ambasceria avesse da dire (ma lo sapevano già). Tucidide, come in altre occasioni fece, riportò il resoconto dell’incontro, un po’ riferito da fonti presenti, un po’ da lui immaginato in base alle sue conoscenze della diplomazia.

Gli ateniesi dissero subito che non avevano del tempo da perdere, volevano parlare con franchezza e si aspettavano una risposta altrettanto celere e franca. Erano lì, dissero, per sottomettere i Melii, farli entrare nell’alleanza militare ponendo fine alla neutralità, che costituiva un pericoloso esempio per tutte le isole dell’Egeo, che potevano essere tentate di dichiararsi neutrali. Atene non poteva permettere che ciò avvenisse, e dunque l’ambasceria chiese brutalmente se Melo intendeva accettare la sottomissione oppure preferiva essere distrutta.

I capi del Melii osservarono che la guerra ormai era già sull’isola e che gli Ateniesi avevano già giudicato quale fosse il bene dei Melii e dedussero che quell’ambasceria avrebbe portato la guerra se, forti del diritto di scegliere il loro destino, i Melii non avessero ceduto; ovvero avrebbe portato la schiavitù se avessero ceduto alle pressioni ateniesi. Risposero gli Ateniesi che i Melii dovevano rendersi conto della realtà e prendere l’unica decisione che avrebbe comportato la salvezza della città. I Melii si appellarono alla giustizia e si dissero convinti che gli Dei non avrebbero permesso una tale ingiustizia, ossia la distruzione della città, e Sparta li avrebbe difesi e vendicati.

Raggelante fu la risposta degli ambasciatori ateniesi: è noto – dissero – che nei rapporti umani si parla di giustizia solo quando le forze in campo sono più o meno pari, ma la verità è che in ogni diversa situazione il più forte esercita il suo potere sul più debole, che è destinato a subirlo. Quanto agli Dei, anch’essi applicano il principio che il più forte prevarica il più debole, e si comportano di conseguenza. E’, questa, una legge inventata non da Atene, ma fatta dagli Dei, data da essi agli uomini, tanto che è poi diventata una legge della natura umana. Infine, quanto a Sparta – aggiunsero – non era una preoccupazione: un po’ era lontana e un po’ aveva altro a cui pensare.

Disperati, i Melii non sapevano più a cosa appellarsi; provarono a suggerire che se gli Ateniesi fossero stati clementi con loro, lasciandoli liberi di decidere il proprio destino, evitando massacri e rovine, questa clemenza sarebbe tornata utile anche ad Atene, nel caso che una sconfitta in guerra avesse fatto crollare il loro impero: il vincitore avrebbe certamente – dissero i Melii – tenuto conto che Atene era stata generosa con un nemico e le avrebbero risparmiato lutti e drammi.

Ma la logica imperiale non ammetteva clemenza né generosità. Siamo qui – conclusero gli ateniesi prima di abbandonare la sala del convegno – per consolidare il nostro impero, per estendere il nostro dominio su di voi senza correre rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina. Lo facciamo – dissero spudoratamente – anche nel vostro interesse. E i Melii di rimando: e il nostro interesse sarebbe di diventare vostri schiavi e fare di voi i nostri padroni?

I Melii decisero di combattere; l’assedio all’isola e la guerra in terraferma furono molto più lunghi e sanguinosi di quanto gli strateghi ateniesi si aspettassero, ma alla fine la straripante forza degli ateniesi prevalse: per la rabbia dell’accanita resistenza subita furono massacrati tutti gli uomini adulti, ridotti in schiavitù donne e bambini e devastati la città, i villaggi e i campi.

Il racconto di Tucidide finisce qui.

La vicenda ebbe un seguito raccontato da Senofonte in Le Elleniche II, 2,3. Ripresa la guerra del Peloponneso, nell’agosto del 405 a.C. Atene subì una disfatta nella battaglia navale di Egospotami. Lisandro, il navarca spartano, prese possesso dello stretto dei Dardanelli e dispose il blocco navale dello stretto per impedire l’afflusso di grano e rifornimenti verso Atene; poi a tutta velocità si diresse con la flotta verso Atene, dove pose il blocco navale al porto del Pireo e si apprestò a sbarcare a terra per invadere l’Attica.

Racconta Senofonte che l’arrivo della flotta spartana tolse il sonno agli ateniesi; dappertutto si sentivano pianti, lamenti e si leggeva la paura negli occhi delle persone. Si materializzò il fantasma di Melo, tutti si ricordarono che l’invito alla clemenza, alla generosità era stato sprezzantemente rifiutato e temevano che Atene avrebbe subito la stessa sorte di quella piccola isoletta. Era effettivamente ciò che Lisandro intendeva fare: cancellare Atene dalle carte geografiche dell’epoca, ridurre la popolazione in schiavitù ed impossessarsi del territorio attico. assediò Atene dal mare e da terra; nessuna persona e nessuna merce poteva entrare o uscire; morirono di fame decine di migliaia di persone, finché Atene, nel marzo del 404, capitolò; firmò la resa senza condizioni. Lisandro si apprestava a massacrare i sopravvissuti e ad abbattere templi, teatri, statue, edifici pubblici, case; tutto doveva essere distrutto.

Per fortuna di Atene, Lisandro aveva solo il comando militare: il potere politico era nelle mani dei due Re spartani e degli Efori, e costoro non volevano la distruzione di Atene perché sapevano quanto grande quella città era stata, cosa rappresentava per l’intera umanità nella cultura, nelle arti, nelle scienze e in ogni altro campo dell’ingegno umano. Atene si salvò.

Cosa ci insegna questa drammatica, antica, vicenda?

Il primo insegnamento è uno squarcio aperto sulla cultura imperiale. Cosa vuol dire avere cultura imperiale? Atene pretendeva che tutte le città e le isole che erano entrate nella Lega e si erano rese tributarie verso la sua egemonia,impegnandosi a fornire navi, soldati e dare cospicue contribuzioni in danaro, restassero perennemente nell’alleanza; la conservazione dell’impero esigeva che il rapporto di ciascuna città o isola con Atene fosse cristallizzato per sempre; non era concepibile che un “alleato” ne uscisse, che volesse decidere del proprio futuro fuori dall’impero. Di per sé, Melo non contava nulla, era uno scoglio roccioso nell’Egeo; la sua contribuzione alla conservazione dell’impero era, prevedibilmente, modesta. Ma lasciarle prendere la sua strada fuori dall’impero avrebbe costituito un cattivo esempio per altre città ed altre isole: avrebbero pensato di potersi liberare di Atene e decidere autonomamente del proprio destino. Sarebbe stata una ferita inferta all’impero; la cultura imperiale non poteva accettarla, a prescindere dall’importanza di Melo all’interno della Lega.

Non solo: l’impero sarebbe stato indebolito per il solo fatto che la scelta di Melo di sottrarsi all’egemonia ateniese non fosse seguita da una dura reprimenda. Insomma, il cattivo esempio che Melo dava e la luce di debolezza che obbiettivamente spargeva su Atene, dovevano essere cancellati; la punizione sarebbe stata un monito per altri. La cultura imperiale esigeva che tutti i sottoposti sapessero che sarebbe arrivata la punizione se avessero provato a separarsi da Atene.

Il secondo insegnamento ci viene dal re Pausania e dagli Efori spartani, che fermarono le armate di Lisandro pronte a distruggere Atene. Dobbiamo presumere che seppero distinguere fra i governanti ateniesi, che avevano condotto una lunga guerra contro Sparta, e il popolo ateniese ritenuto probabilmente incolpevole, vittima dell’indottrinamento e dell’imperialismo dei suoi governanti e dell’élite economica che dall’impero traeva enormi ricchezze.La distruzione della città, la scomparsa della cultura che Atene aveva dato al mondo e il massacro della popolazione sarebbero stati – pensava così,forse, il re Pausania – un inutile danno per l’intera Grecia. Sarebbe stato sufficiente sciogliere l’impero, cioè la Lega Delio-Attica, sostituire il regime che reggeva la città, ma salvare la popolazione, i luoghi dell’arte, i Propilei, i luoghi sacri, il Partenone e la statua crisoelefantina di Athena, le scuole, le accademie e le biblioteche, il teatro di Dioniso e tutto ciò che Atene significava per il mondo. Con molte difficoltà ed attraverso una guerra civile, nel giro di alcuni anni le cose andarono proprio così: la cultura di Atene è giunta fin a noi.

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