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Il fideismo è l’anima del DEF

Chi ha letto il DEF non può non restare sorpreso dalle esternazioni di vari esponenti del governo in merito a progetti di spesa pubblica nei prossimi anni: dal ponte sullo stretto agli interventi proposti da Giorgetti in favore della famiglia, dai rinnovi dei contratti del pubblico impiego alla riforma delle pensioni. Non c’è nel DEF la minima traccia di risorse per questi interventi. Come si dice in un articolo dell’Avvenire, DEF e dichiarazioni dei ministri sembrano stare in due mondi paralleli che si ignorano a vicenda.

Banca d’Italia e Corte dei Conti nelle loro audizioni avvertono il problema e lo mettono in risalto. La prima afferma che “Sarà importante che prima di procedere ad aumenti di spesa e a tagli di entrata siano individuate coperture adeguate, strutturali e credibili“, la seconda afferma che nel DEF “Non si forniscono elementi su come il Governo intenda procedere per rimanere all’interno del quadro delle compatibilità di bilancio. Il compito viene, in certa misura, rinviato alla NaDEF e alla legge di bilancio“.

E, in effetti, è così, non vi é nel DEF nessuna indicazione di misure di politica economica da adottare nella prossima legge di bilancio anche perché, qualora ci fossero, avrebbero dovuto essere quantificate le risorse necessarie e indicate il modo in cui trovarle, modalità rispetto cui, l’attuale governo appare piuttosto allergico.

Anche nella Ragioneria Generale dello stato sembra aggirarsi lo stesso sospetto che traspare dalle audizioni di BdI e Corte dei Conti a giudicare dalla Relazione Tecnica che accompagna la delega fiscale. E’ la prima volta, a mia memoria, che in ogni articolo di modifica di un’imposta, viene ripetuto il richiamo in cui si ricorda che la delega non può produrre oneri finanziari. Questo richiamo viene ogni volta sottolineato, come per essere sicuri che la cosa sia ben chiara e non dimenticata nel momento in cui saranno fatti i decreti delegati. 

La fiducia nel governo non appare proprio massima.

Sia pure in un quadro meno negativo rispetto ad alcuni mesi fa, gli organismi internazionali continuano a prevedere un rallentamento dell’economia e del commercio mondiale. Il FMI prevede per il 2023 una crescita del PIL a livello mondiale del 2,8% e del 3% nel 2024. Diminuiscono i prezzi ma in misura sensibilmente minore a quanto atteso. La discesa dei prezzi energetici non si è diffusa in egual misura ai prezzi degli altri beni e servizi. Questo comporta la persistenza di politiche monetarie restrittive, una stretta del credito e l’insorgere di crisi bancarie. Quest’ultimo elemento rende indubbiamente più complessa la gestione delle politiche monetarie dovendo le banche centrali gestire da un lato il problema inflazione e dall’altro il problema crisi bancarie prodotto dalla crescita dei tassi. Elemento da sottolineare nella permanenza dell’inflazione di fondo è che nessun ruolo ha giocato la crescita salariale; pressoché in tutti i paesi i salari sono diminuiti in termini reali, mentre un forte ruolo hanno avuto i profitti.

In questo quadro non particolarmente positivo, il DEF colloca le previsioni tendenziali sull’economia italiana prevedendo una crescita dello 0,9% nel 2023 (in rialzo in confronto al DPB di novembre in cui la crescita era fissata allo 0,6%), dell’1,4% nel 2024 (dall’1,9% del DPB), dell’1,3% nel 2025 in linea con il DPB. 

Sono previsioni credibili? Nessuno dei previsori internazionali o nazionali indica questi livelli di crescita. Tutti indicano aumenti inferiori.

Previsioni tasso di crescita del Pil Italia

  202320242025
REF-Ricerche21-apr0,91,2 
Consensus  Economics14-apr0,61,0 
Oxford Economics13-apr0,80,91,0
FMI11-apr0,70,80,9
MEF DEF 12-apr1,01,51,3

L’Ufficio parlamentare di Bilancio (UPB) ha tuttavia validato le previsioni del DEF affermando che “il quadro macroeconomico tendenziale del DEF 2023 si colloca in un intervallo accettabile per il complesso dell’orizzonte previsivo (2023-2026), sebbene al limite per quanto attiene al 2024. Le previsioni sono validate …. assumendo la piena e tempestiva realizzazione dei progetti del PNRR. Il quadro è tuttavia instabile e incerto, anche per le tensioni geopolitiche e finanziarie. I rischi sono bilanciati nel breve termine ma si orientano al ribasso per i prossimi anni“.

Anche BdI considera le previsioni presentate nel DEF nel complesso coerenti con gli elementi previsivi a disposizione “pur collocandosi nella parte superiore dell’intervallo di stime disponibili”

Insomma, dotandosi di ottimismo, le previsioni del governo sono credibili. Del resto nello stesso DEF è scritto che il governo confida sulla capacità dell’economia italiana di “sorprendere al rialzo“, come già accaduto “diverse volte negli ultimi anni” i previsori internazionali e nazionali, le cui previsioni sono nettamente meno ottimistiche di quelle del Mef.

Questo quadro ottimistico può saltare, e il DEF correttamente ne da atto, se vengono meno alcuni fattori internazionali che caratterizzano le previsioni. Un nuovo eventuale aumento dei prodotti energetici con una ripresa dell’inflazione, una stretta monetaria che produca un forte rialzo dello spread. In questi casi la crescita sarebbe minore. 

Uno scenario internazionale favorevole e l’utilizzo pieno delle risorse del Pnrr sono due elementi fondamentali per la tenuta della nostra economia. La politica di bilancio, infatti, da quanto appare nel DEF, risulta restrittiva. Sono eliminati progressivamente tutti i sussidi erogati a tutela del “caro-energia”, aboliti gli incentivi in campo edilizio e le maggiori voci di spesa corrente mostrano una crescita inferiore rispetto all’inflazione, ossia una sensibile diminuzione in termini reali. In questo modo il governo ottiene obiettivi di deficit e di rapporto debito/Pil coerenti con il ripristino dei target di finanza pubblica europei che entreranno in vigore dal 2024.

Possiamo giudicare questa cosa sotto due aspetti. Da un lato è certamente una cosa positiva, il governo ha lasciato alle sue spalle tutte le sue promesse elettorali, dall’abolizione dalla Fornero alla Flat tax per tutti e via discorrendo prendendo atto della realtà. Dall’altra, incapace di intervenire a fronte di settori del suo elettorato, rinuncia a fare politica economica trovando risorse per interventi che possano spingere la crescita economica.

Il quadro di finanza pubblica tendenziale mostra un progressivo miglioramento dei saldi, sia a livello complessivo sia a livello primario. L’indebitamento netto è pari quest’anno al 4,35% del PIL e continua a diminuire negli anni successivi, scendendo al 3,5% nel 2024, al 3,0% nel 2025 e al 2,5% nel 2026. Il saldo primario torna positivo a partire dal 2024. 

Questo andamento della finanza pubblica, come detto, è frutto del graduale esaurimento degli effetti delle misure di sostegno all’economia durante la crisi pandemica ed energetica e al fatto che nel quadriennio di previsione la spesa primaria cresce, secondo i dati del DEF, in media dell’1,7% l’anno, diminuendo, quindi, in termini reali sia rispetto all’indice dei prezzi al consumo previsto, sia rispetto al deflatore del PIL indicato nel DEF. In termini reali diminuisce la spesa per il pubblico impiego, diminuisce la spesa sanitaria, diminuisce la spesa per il funzionamento dello stato.

Colpisce in particolare il dato della spesa sanitaria che passa dal 6,9% del PIL nel 2021 al 6,2% nel 2025/2026, a un livello cioè inferiore a quello pre-pandemico del 2019 quando ammontava al 6,4% del PIL.

Il quadro tendenziale di finanza pubblica è leggermente più positivo nel biennio 2023/24 rispetto al programmatico della NADEF (rispettivamente 4,5% e 3,7%), nonostante il D.L. 34/2023 che ha previsto misure per contrastare gli effetti dell’aumento dei costi energetici sui bilanci di famiglie e imprese e di alcuni interventi nel comparto sanitario per un importo stimato in circa 0,2 punti percentuali del PIL. Queste misure sono state tuttavia finanziate tramite risparmi di spesa realizzati su analoghe misure previste dalla manovra di bilancio 2023.

Il governo confermando l’obiettivo programmatico fissato nella NADEF, ha chiesto l’autorizzazione al Parlamento per lo sforamento di bilancio ricavando così un tesoretto di circa 3 mld per il 2023 e di circa 4 mld nel 2024. Il primo sarà usato quest’anno per una nuova riduzione temporanea dei contributi a carico dei lavoratori dipendenti a reddito medio-basso, mentre gli altri 4 miliardi saranno destinati al Fondo per la riduzione della pressione fiscale nel 2024.

Secondo la BdI il nuovo taglio contributivo, nell’ipotesi di invarianza delle soglie di applicazione già in vigore e di avvio dei nuovi sgravi dal prossimo maggio, dovrebbe consentire un raddoppio dell’importo mensile dell’esonero già esistente. Secondo il modello di micro-simulazione della Banca d’Italia, gli individui interessati avrebbero un aumento del reddito disponibile di poco inferiore ai 200 euro nell’anno in media.

Il ministro Giorgetti si è dichiarato sorpreso dalla cifra fatta da BdI che certamente dipende dall’importo della retribuzione media considerata. Il ministro comunque dovrebbe considerare che non tutta la riduzione contributiva finisce nelle tasche dei lavoratori perché la diminuzione dei contributi comporta un aumento di imponibile fiscale e quindi un aumento di imposta. Parte della diminuzione contributiva è “mangiata” dall’aumento di imposizione fiscale. Ma il problema del taglio contributivo non è questo, il problema reale, come vedremo, si presenta nel 2024 e negli anni successivi.

Al di là degli interventi indicati con i due “tesoretti”, non sono previste risorse per ulteriori provvedimenti. 

Grazie alle nuove misure delineate per il 2023 e 2024, la crescita del PIL nello scenario programmatico è prevista pari all’1,0% quest’anno e all’1,5% nel 2024 e, soprattutto, la crescita è affidata agli investimenti del Pnrr. Cosa questa che non appare di semplice attuazione se dallo stesso DEF apprendiamo che nel 2022 dei 18 mld di spesa per investimenti prevista nel Pnrr ne sono stati fatti solo 4 e che l’apporto del Pnrr alla crescita del Pil è crollato, sempre nel 2022, dal previsto 0,7% allo 0,1%.

Sia BdI sia UPB rilevano la mancanza nel DEF di tavole con il profilo temporale degli interventi inclusi nel Piano. Per ora, quindi, l’apporto del Pnrr alla crescita appare un atto di fede nell’effettiva capacità del governo di attuarlo.

Le previsioni di finanza pubblica prevedono un graduale miglioramento degli indicatori nel breve-medio periodo. Diminuisce il deficit, come visto, e diminuisce anche il rapporto debito/Pil (dal 144,4 nel 2022 al 140,4 nel 2026). 

Tuttavia siamo alla vigilia del varo di un nuovo Piano di stabilità. La Commissione europea ha annunciato che la clausola di salvaguardia generale del Patto di stabilità e crescita sarà disattivata alla fine di quest’anno. In attesa del nuovo accordo gli obiettivi di bilancio, secondo la Commissione, dovrebbero essere coerenti con l’obbligo di garantire che il rapporto tra debito pubblico e PIL sia avviato su un percorso di riduzione per quei paesi con rischi di sostenibilità significativi e che il disavanzo sia al di sotto del 3% del PIL nel medio termine. 

Sotto questo aspetto, secondo BdI, sarebbe necessario un ulteriore lieve consolidamento dei conti nel triennio 2024-26. A leggere il DEF spazio per questo ulteriore lieve consolidamento dei conti non c’è e semmai mancano spazi per spese che appaiono obbligate come quelle per le cosiddette “politiche invariate” da finanziare ogni anno.

Il DEF le stima di ammontare pari allo 0,3% del PIL (7 mld), nel 2023 e nel 2024 e allo 0,4% (8 mld) nel 2025 e si limita a dire che le coperture andranno individuate all’interno del bilancio pubblico, attraverso una revisione della spesa, e attraverso “una maggiore collaborazione tra fisco e contribuente”.

Nelle “politiche invariate” sono comprese voci come le missioni internazionali e i rinnovi contrattuali del pubblico impiego delle Amministrazioni centrali. Il ministro Zangrillo ha parlato della necessità di almeno 7/8 mld per il rinnovo dei contratti pubblici, ma probabilmente le risorse necessarie, tenendo conto dell’inflazione, saranno maggiori. Nelle “politiche invariate” non sono poi compresi i rinnovi contrattuali delle Amministrazioni locali che difficilmente avranno le risorse per rinnovarli senza aiuto dello Stato.

A oggi le risorse disponibili per le “politiche invariate” sono alcune centinaia di milioni di euro di risparmi di spesa a carico della Amministrazioni centrali (300 milioni nel 2024, 500 milioni nel 2025 e 700 milioni nel 2026), che saranno resi  disponibili con un Dpcm entro il prossimo 31 maggio. 

I tagli del cuneo contributivo previsti dalla legge di bilancio per il 2023, 5 mld, e dal DEF, 3 mld, scadono a dicembre. Per mantenere inalterato il taglio per tutto il 2024 sono necessari 9 mld al netto del recupero fiscale. Nel DEF non c’è traccia di un loro stanziamento, a legislazione vigente, pertanto, le retribuzioni nette medio-basse subirebbero un taglio. 

Vi sono i 4 mld destinati alla riduzione della pressione fiscale, ma non basterebbero per eliminare il taglio retributivo e sarebbe peraltro un intervento limitato ai soli lavoratori dipendenti. Il DEF fa riferimento per il reperimento di risorse a una maggiore collaborazione tra fisco e contribuenti. Un aumento di compliance è certamente auspicabile, anche se difficile da immaginare con questo governo, tuttavia non può che essere valutato ex-post e non usato per finanziamenti ex-ante.

C’è anche il capitolo annoso delle tax expenditures sempre indicato come fonte di possibili risparmi poi mai realizzati da quando più tredici anni fa Tremonti avanzò l’idea per la prima volta. Anche qui, comunque, i conti si possono fare solo ex-post.

Vi è poi il problema delle pensioni e della Sanità. Sulle pensioni è previsto un disegno di legge collegato “interventi in materia di disciplina pensionistica”, ma nessuna risorsa. Se ne deve probabilmente dedurre che anche la riforma delle pensioni va collocata negli obiettivi di legislatura. Tuttavia anche per il rinnovo di quota 103, dell’Ape sociale, di Opzione donna, dell’aumento delle pensioni minime occorre circa 1 mld, attualmente non stanziato.

Il DEF mette in evidenza come la spesa sanitaria dopo il Covid sia prevista in calo rispetto al Pil: dal 6,7% del 2023 al 6,3%o nel 2024 e al 6,2% nel 2025 e 2026, a un valore cioè inferiore a quello preCovid del 2019 pari al 6,4%. Il cattivo stato di “salute” della “sanità” pubblica è sotto gli occhi di tutti. La spesa sanitaria in Italia è inferiore alla media europea, molto distante da quella tedesca e francese, con ovvie  conseguenze negative sulla qualità dei servizi offerti.

Il Sole24 ore parla della necessità di trovare almeno 20/25 mld per la prossima legge di bilancio e l’elenco fatto indica il perché. Il problema è che nel DEF non sono indicati né gli interventi di politica economica che il governo intende fare, o che comunque sono necessari, con la legge di bilancio né le relative coperture che pensa di utilizzare dati gli inesistenti margini di manovra concessi dai dati di finanza pubblica illustrati dal DEF e dal ritorno nel 2024 del Patto di Stabilità e crescita.

L’unica affermazione in merito contenuta nel DEF è la seguente frase “Il finanziamento degli interventi di politica di bilancio avverrà individuando le opportune coperture all’interno del bilancio pubblico, al fine di preservare la sostenibilità delle finanze pubbliche”.

Insomma, come si diceva all’inizio, per ora viviamo in due mondi paralleli, quello reale del DEF e quello immaginario delle dichiarazioni dei ministri. In autunno vedremo come i due mondi si fonderanno e nel frattempo possiamo solo sperare che il governo riesca almeno a spendere le risorse del Pnrr, l’unico strumento di politica economica che sembra poter utilizzare.

P.S.

In merito alla spesa sanitaria

Non è accettabile che invece di aumentare rispetto al PIL la spesa sanitaria diminuisca. Non è accettabile che prosegua una situazione che vede: una continua diminuzione dell’imponibile e dei soggetti passivi dell’Irap e dell’imponibile; dei soggetti passivi dell’addizionale Irpef regionale destinate a finanziare la sanità; che la delega fiscale prosegua su questa strada con l’estensione della cedolare secca agli affitti degli immobili a uso commerciale. Non è accettabile che a pagare per la sanità siano solo i redditi da lavoro dipendente e da pensione. A sinistra e nel sindacato sarebbe forse ora di svegliarsi su questo tema. 

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