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Il Jobs Act: meno precarietà, più tutele, più contrattazione

L’efficacia delle politiche del lavoro dipende dalla capacità di integrarle con altre misure, da quelle di politica industriale a quelle  del credito,  in grado di orientare le scelte imprenditoriali. 

E’ quindi sbagliato attendersi dalle riforme del lavoro che esse possano, da sole, migliorare le  prospettive occupazionali.

Ma non va neppure sottovalutato il ruolo che le regole possono avere nell’accompagnare  i nuovi investimenti, spostare la convenienza da alcune tipologie poco tutelate a forme di lavoro più stabili, aiutare a gestire le transizioni da lavoro a disoccupazione, tutelando i lavoratori nei momenti di difficoltà.

Fin dall’inizio la Cisl ha  espresso un giudizio articolato sulla legge delega n.183/2014, senza indulgere a ideologismi.

Indubbiamente il Jobs Act pone una sfida:  un riassetto di alcune tutele individuali in cambio di maggiori tutele  collettive. Bisogna chiedersi se la sfida ha un senso e se vale la pena accettarla. La Cisl pensa di sì.

Il primo ambito di provvedimenti è quello composto dal contratto a tutele crescenti e dal riordino delle tipologie contrattuali, insieme agli sgravi contributivi introdotti dalla legge di stabilità.

E’ stato superata la reintegra in una serie di casi, ma essa resta nei licenziamenti disciplinari, laddove il fatto non sussiste, grazie anche all’azione della Cisl che, con senso di responsabilità, ha scelto di confrontarsi anche su temi delicati. 

E’ stato un errore, da parte del Governo, eliminare il riferimento ai codici disciplinari dei contratti collettivi ed escludere il principio di proporzionalità nella nuova regolamentazione del regime sanzionatorio. 

In ogni caso è difficile negare il persistente rilievo del principio di proporzionalità quale principio generale dell’ordinamento, così come il mancato riferimento esplicito ai codici disciplinari dei CCNL non toglie che il giudice possa tenerne conto in quanto norme di “maggior favore” per il lavoratore. Si tratta quindi di temi sui quali potrà esercitarsi la contrattazione collettiva.  

Allo stesso modo si è commesso un errore volendo escludere l’applicazione dell’art.18 per i licenziamenti collettivi per i quali non vengano rispettati i criteri di scelta, di legge o contrattuali; ma anche qui confidiamo che sindacati  e imprese, nella concreta gestione delle vertenze e nella contrattazione, possano trovare equilibri più avanzati del legislatore.

Così come, con un più attento ascolto delle parti sociali, avrebbero potuto essere  esclusi i cambi di appalto dal nuovo regime. Anche qui la contrattazione collettiva potrà comunque stabilire la possibilità di accordare ai lavoratori le tutele del contratto a tempo indeterminato “tradizionale”.

 

Contemporaneamente si registra, se non quell’annunciata “pulizia” delle tipologie contrattuali, un deciso cambio di rotta per quanto riguarda il contrasto al falso lavoro autonomo, cancellando associazione in partecipazione e lavoro a progetto ma soprattutto  estendendo la disciplina del lavoro subordinato a tutto il  lavoro etero-organizzato, al fine di superare finte partite Iva e collaborazioni, fatte salve le situazioni nelle quali la contrattazione riterrà di concedere deroghe con regolamentazioni specifiche. 

 Nella versione finale del decreto  è stato eliminato il riferimento al contenuto ripetitivo del lavoro, come chiesto dalla Cisl, allargando molto, in tal modo, l’ambito di applicazione della norma. Ed ecco, anche qui, uno spazio significativo ed impegnativo per la contrattazione collettiva.

Ora si tratta, però, di evitare che le nuove norme, nonostante le ottime intenzioni,  possano  andare a creare lavoro nero, soprattutto se si pensa che dal 2016 si avranno, contemporaneamente, il superamento del lavoro a progetto  e la fine degli incentivi al contratto a tempo indeterminato. Una scelta coraggiosa sarebbe la proroga,   a tutto il 2016, dello sgravio contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato, eventualmente in forma più selettiva e mirata per indirizzare le poche risorse disponibili. Soprattutto sarebbe  importante andare verso una riduzione strutturale del costo del lavoro.

 

Avere costruito una impalcatura che farà pulizia del falso lavoro autonomo è sicuramente positivo ma lascia aperta la questione delle tutele al lavoro autonomo scelto, quello “genuino”, quello dei moltissimi lavoratori iscritti alla Gestione Separata Inps, che svolgono lavori di collaborazione o a partita Iva per scelta. Per loro, a fronte dei consistenti contributi versati,   vanno potenziate le tutele previdenziali ed assistenziali.  

 

Il secondo ambito dei provvedimenti del Jobs Act è dedicato alle tutele in caso di crisi dell’azienda e disoccupazione. 

La prima tappa è stata la Naspi, maggiormente inclusiva grazie ai requisiti soggettivi più larghi, più generosa nel massimale e nella durata, portata a 24 mesi, anche se con un sostegno ridotto rispetto al passato per alcune fasce di  lavoratori stagionali, che sono stati salvaguardati per il solo 2015.

Insieme alla Naspi viene introdotta la Dis.Coll., che sostituisce la precedente indennità di fine rapporto con un trattamento dignitoso, esteso anche alle co.co.co.

E finalmente nasce in Italia un “ammortizzatore di ultima istanza” , l’Asdi, che non è un reddito minimo di cittadinanza, bensì  uno strumento di cui potrà beneficare chi, dopo aver usufruito della Naspi, sia ancora disoccupato e al di sotto di certe soglie Isee.

 

Il miglioramento del sistema di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione   sarà finanziato, senza giri di parole,  con  la riduzione delle  durate dei trattamenti di cassa integrazione. 

La durata massima complessiva della cassa integrazione passerà infatti dagli attuali 36 mesi a 24 mesi nel quinquennio mobile (non più fisso)  ma al contempo si incoraggia l’utilizzo del contratto di solidarietà  computando per la metà i relativi periodi e prevedendo che si potrà arrivare comunque a 36 mesi complessivi utilizzando esclusivamente quest’ultimo strumento.  Qui ci vorrebbe maggiore coraggio prevedendo una durata massima di 48 mesi se si utilizza esclusivamente questo strumento.

L’altro elemento di risparmio  è la ricerca di un nuovo equilibrio sui costi, aumentando il contributo addizionale delle aziende in caso di effettivo utilizzo e riducendo le aliquote ordinarie. E’ una manovra comprensibile se si conoscono i  problemi di bilancio che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato le gestioni Inps della Cassa Integrazione, ma andrebbe valutata con attenzione la scelta di aumentare in maniera eccessiva i costi proprio nel momento di maggiore difficoltà dell’impresa.

 

La Cisl ha chiesto ed ottenuto una particolare attenzione alla fase  di transizione dal vecchio al nuovo sistema.  Vengono giustamente salvaguardate le durate dei trattamenti relativi a procedure già concluse, pur se non sia stata ancora presentata la domanda. Inoltre viene data la possibilità, con un fondo ad hoc, di derogare addirittura ai limiti stabiliti dalla normativa previgente, nei casi in cui ciò sia previsto da piani industriali legati a casi di interesse strategico per cui sia stato stipulato un accordo in sede governativa entro una certa data.

 

La Cisl si era detta da subito indisponibile ad interventi di carattere meramente restrittivo, dichiarandosi invece favorevole al superamento di abusi e storture per poter finalmente arrivare ad un sistema di ammortizzatori sociali rivolto a tutti i lavoratori indipendentemente dal settore, dalle dimensioni aziendali, dalla tipologia contrattuale.  

Viene del tutto incontro a questa nostra posizione l’ estensione, finalmente,  alle aziende da 6 a 15 addetti dell’obbligo di aderire ai fondi di solidarietà già previsti dalla legge Fornero solo per le aziende al di sopra dei 15 dipendenti, e l’adeguamento dell’entità delle aliquote, che vengono innalzate a garanzia di  trattamenti adeguati, ora del tutto paragonabili, per entità e durata,  ai trattamenti previsti per le aziende incluse nel sistema della cassa integrazione.

 

Restando sul versante delle tutele,  grande attenzione merita il decreto relativo alle politiche attive del lavoro e ai nuovi servizi all’impiego, che punta a  colmare un gap apparentemente  incolmabile rispetto agli altri Paesi.  Questa è forse la sfida più difficile. 

Un intervento realmente  efficace è possibile, anche partendo da difficili condizioni (benché non manchino esperienze positive in alcune Regioni) grazie ad un’Agenzia Nazionale di respiro fortemente europeo, che superi l’eccessivo decentramento regionale, governata dal Ministero, dalle Regioni e dalle Parti Sociali, sostenuta operativamente da Isfol ed Italia Lavoro, pesantemente sbilanciata sul modello olandese, il solo, grazie ad un sistema informatico unico, semplice e funzionale, a poter permettere una rivoluzione senza costi eccessivi. 

Si potrebbero così coordinare meglio le azioni dei diversi centri per l’impiego, realizzando ovunque uno stretto collegamento tra politiche passive e politiche attive.  L’Agenzia nazionale sarà però uno strumento utile solo se saranno affrontati due grandi problemi:  a) le risorse disponibili per finanziare adeguatamente il funzionamento dei centri per l’impiego che l’Agenzia dovrà mettere in rete b) il rapporto tra Stato e Regioni, che deve essere realmente collaborativo se vogliamo che la rete immaginata dal decreto funzioni.  Il miglioramento della governance deve quindi servire a migliorare e potenziare le strutture che forniscono i servizi per l’impiego.

 

In conclusione, questa riforma del lavoro non potrà produrre nuova occupazione, semplicemente perché nessuna riforma del lavoro può ottenere tale obiettivo. Per questo  si dovrà confidare  in altre misure nonché nella serie di fattori che pongono le condizioni per una ripresa e in una  politica europea più favorevole alla crescita.  

 

Tuttavia il Jobs Act, pur ponendosi decisamente nella scia delle precedenti riforme (Treu, Biagi, Fornero) che via via hanno spostato in maniera sempre più decisa il fulcro dalla “tutela del posto di lavoro” alla “tutela nel mercato del lavoro”,   rappresenta al contempo  un cambio di paradigma, perché rimette al centro il contratto a tempo indeterminato, cambiando radicalmente il quadro delle convenienze e investendo per la prima volta risorse finanziarie sul lavoro stabile. 

Quel che ci si può  legittimamente attendere è quindi uno spostamento da occupazione  meno stabile e meno tutelata, ad occupazione a tempo indeterminato. I primi dati sembrano andare proprio  in questa direzione, e non si tratta certo di un piccolo risultato.

Inoltre si realizza quella universalizzazione degli ammortizzatori sociali invocata da tutti e attesa da troppo tempo.  Non è certo un risultato da sottovalutare.

Contemporaneamente questa riforma, oltre a confermare i numerosi rinvii alla contrattazione collettiva pre-esistenti, ne apre di nuovi  sul terreno delle tipologie contrattuali.

Questo per la Cisl è un punto centrale. Perché è soprattutto con la contrattazione che continueremo ad agire a favore delle persone che lavorano e delle tante, troppe, persone, che il lavoro lo hanno perso o lo stanno cercando per la prima volta.

 (*) Segretario Confederale CISL

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