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Il lavoro al tempo delle migrazioni di massa

L’entusiasmo che si è diffuso in tutta Europa, nelle ultime settimane, per l’accoglienza che tedeschi e austriaci in particolare hanno riservato alle decine di migliaia di migranti giunti nei loro Paesi a piedi o su treni stracarichi, non è stato appannato dalle chiusure (dicono temporanee) delle frontiere di alcune delle nazioni riceventi, dalle resistenze dei Paesi baltici, dalla vergogna della frontiera ungherese ostruita per chilometri dal filo spinato.

Il motivo di tale entusiasmo non è soltanto conseguenza dell’emozione suscitata dalla foto di Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum o dell’ammirazione per la determinazione dimostrata dai profughi nel voler raggiungere i Paesi che avevano scelto come meta del loro lungo peregrinare. L’entusiasmo è la reazione avuta da milioni di europei che hanno visto riemergere, sia pure faticosamente e non unanimemente, un’anima dell’Europa, quella umanitaria e solidale.

Per troppi anni, l’Unione Europea ha mostrato un timbro severo se non ostile verso i più deboli, i più esposti alla crisi, i più lontani che sfuggono alla fame e alle guerre. E’ merito della Germania e della Merkel innanzitutto che questa immagine sia stata fortemente ridimensionata. Non che ne giganteggi un’altra alternativa, ma quella che abbiamo conosciuta e che ha alimentato tanto populismo ed egoismi è all’angolo. Ha ragione Juncker: “La UE non versa in buone condizioni. In questa Unione europea manca l’Unione e manca l’Europa”, aggiungendo che l’Europa che gli piace è quella del panettiere di Kos che prepara i panini per i nuovi arrivati, dei cittadini di Monaco che accolgono i profughi siriani alla stazione intonando l’”inno alla gioia”. 

L’entusiasmo può mettere la sordina ai nazionalismi esasperati però non elimina i problemi. Ma una cosa è il respingimento e un’altra è la consapevolezza che siamo di fronte a un fenomeno di massa, non temporaneo, non circoscrivibile a pochi gruppi etnici. E che quindi va affrontato con la consapevolezza che, da un lato, soltanto una gestione in positivo può consentire un pacifico processo integrativo e che, dall’altro lato, le vecchie logiche che hanno fatto il bello e cattivo tempo a Bruxelles vanno archiviate.

La prima ad essere demolita dalle marce forzate dei profughi è la logica dell’austerità. Soltanto una politica espansiva, a guida europea, può mettere a disposizione risorse adeguate per organizzare un ordinato ed accettabile accoglimento di prima istanza. Soltanto azioni fiscali e programmatiche finalizzate alla crescita potranno aprire le porte del lavoro legale per centinaia di migliaia di rifugiati nei prossimi anni, senza che scoppino guerre tra poveri, che prevalga l’idea che i nuovi arrivati stiano “rubando” il lavoro a chi li ha accolti.

La seconda logica che non regge più di fronte a questo impatto così massiccio è che  ogni Stato deve sbrigarsela da solo. Anche in Germania ne sono coscienti. Ciò non riguarda soltanto le attività produttive ma anche il welfare, l’organizzazione delle città, la formazione e la cultura. Ci sono tanti lavori nuovi che si intravedono dietro l’implementazione di politiche comuni su questi fronti e quanto prima saranno messe in agenda, tanto meglio potranno oliare gli ingranaggi della convivenza multietnica.

Il terzo smottamento riguarda la produttività del lavoro e conseguentemente la sua remunerazione. L’Europa finora ha chiesto sempre e soprattutto agli Stati più in difficoltà che ci fosse tanta flessibilità nel lavoro. Cattiva o buona, purchè ci fosse. Ma ciò non ha reso l’Europa più competitiva rispetto alle Americhe e all’Asia. L’afflusso di energie fresche (la maggior parte dei migranti sono giovani e spesso acculturati) e ovviamente più disponibili alla flessibilità (soprattutto cattiva) può creare tensioni nel mercato del lavoro del Paesi accoglienti. Soltanto il buon governo delle flessibilità potrà evitare concorrenzialità scorrette tra gli Stati e tra autoctoni e non e nello stesso tempo far aumentare la produttività in maniera durevole e solida. C’è materia d’impegno per studiosi, intellettuali, sindacalisti e governanti per sostituire alla vecchia logica, una nuova grammatica europea del diritto al lavoro.

In definitiva, le migrazioni di massa, producendo scossoni negli equilibri esistenti non alimentano soltanto reazioni negative, ma sollecitano visioni nuove. Nell’Europa del nostro tempo, al grigiore che l’ha dominata per tutta questa prima parte del secolo, si può sostituire una fase ri-creativa ed il lavoro, con la carica di dignità e di libertà che lo contraddistingue da sempre, può essere il volano di una identità dell’Europa che, anche in questo modo, annuncerebbe che non vuol invecchiare, declinando.

Se poi questo rinvigorimento dell’anima umanitaria e solidale della maggior parte degli europei sollecitasse i popoli a ripensarsi come Stati uniti d’Europa, non resterebbe che ringraziare per il servizio resoci, questo immenso sciame di disperati, determinati però a realizzare i propri sogni. 

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