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Il lavoro resti centrale, più dei sussidi

I netti esiti della prova elettorale che l’Italia ha affrontato 2 settimane fa stanno rimescolando l’agenda delle priorità e delle politiche al centro del dibattito, soprattutto sulla scorta dei successi realizzati dalle due forze politiche che più hanno saputo intercettare il voto degli italiani (M5S e Lega).

Quello del reddito di cittadinanza e della sua possibile realizzazione costituisce, tra i tanti, il tema che sembra creare maggiori attese e aspettative. Se non altro perché, al contrario di altri provvedimenti “annunciati” come l’abolizione della legge Fornero sulle pensioni o addirittura l’ipotetica abolizione del Jobs act (tutto o in parte non si capisce), in questo caso non siamo di fronte alla voglia di tornare a regole del passato ma siamo in presenza di una nuova misura di intervento.

Con il passare delle settimane gli stessi propositori del reddito di cittadinanza stanno cercando di dettagliare la proposta, al fine di confrontarsi inevitabilmente con quel principio di realtà che in ogni caso è decisivo per potersi misurare nel concreto.

Gli stessi sostenitori della proposta si stanno affrettando a dettagliarla, soprattutto togliendo quell’idea di “reddito a prescindere” che per diverso tempo la aveva accompagnata e che forse, è bene dirlo da subito, ha provocato anche un certo successo tra diverse schiere di elettori.

Ad oggi il reddito di cittadinanza non sembra più essere un sussidio slegato da azioni di responsabilità che il percettore deve assumere. Gli stessi propugnatori si sbracciano nel legarlo alla disponibilità alla ricerca di un nuovo lavoro, alla effettuazione di almeno 8 ore settimanali di attività sociali nel territorio, alla accettazione di proposte di lavoro pena (dopo 3 rifiuti) la decadenza dello stesso.

Ma questi sforzi necessari, ci mancherebbe che in Italia si introducesse un reddito senza condizionalità, non riescono a mio parere a togliere il difetto d’origine che questa proposta contiene.

Ammettiamolo: il reddito di cittadinanza anche nelle nuove versioni post-voto assomiglia ad una grande e costosissima evoluzione del REI (reddito di inclusione) introdotto dal governo uscente quale primo e fondamentale strumento di carattere universale e nazionale per il contrasto alla povertà, tema sociale sempre più pesante nelle nostre comunità che finalmente vede politiche di contrasto in campo.

Il reddito di cittadinanza mantiene una visione ben diversa dalle politiche di inclusione e di attivazione che nel mercato del lavoro italiano sono sempre più necessarie e che questo paese ha bisogno di sviluppare.

Se il futuro governo vuole alzare i tassi di occupazione, è sulle politiche attive che bisogna davvero investire e dalla realizzazione di queste che bisogna partire. Le politiche attive sono programmi di sostegno all’inserimento lavorativo, necessarie soprattutto per le figure più svantaggiate o deboli in un mercato del lavoro che tende a chiedere competenze sempre più qualificate e nuove.

Una non piccola colpa del governo uscente sta nel non essere riusciti a farle decollare in tempo. Le politiche attive erano state da tutti definite la seconda gamba del Jobs act, e invece fino alla stessa tornata elettorale le politiche per il lavoro messe in campo prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni hanno dovuto avanzare saltando su una gamba sola. Stiamo addirittura assistendo al paradosso per cui le politiche attive del vecchio governo cominceranno a funzionare con quello nuovo. E’ infatti annunciata per il prossimo 3 aprile la messa a regime dell’assegno di ricollocazione, prima misura nazionale rivolta a sostenere la ricollocazione dei disoccupati percettori di Naspi.

Meglio tardi che mai, viene ovviamente da dire. Abbiamo bisogno assolutamente di misurarci con l’avvio di questa misura che deve portare al conseguente potenziamento dei centri per l’impiego, alla attivazione responsabile dei tanti soggetti privati accreditati e al cambio definitivo di paradigma di una contrattazione collettiva nei casi di crisi che fino a ieri contava solo su allungamento degli ammortizzatori e incentivi all’esodo dei lavoratori in esubero e oggi invece deve imparare ad avere dimestichezza con riqualificazione e ricollocazione di chi un posto lo sta perdendo.

Insomma ciò di cui hanno bisogno il paese e i lavoratori sono maggiori strumenti per non perdersi e restare occupabili nelle sempre più forti transizioni occupazionali che caratterizzano un mercato del lavoro sempre più frammentato, discontinuo ma anche capace di aumentare il numero di lavoratori in transizione.

Vogliamo spendere di più per chi è debole nel lavoro? Mettiamo in campo strumenti di politiche attive per gli inoccupati e i bisognosi (ricordo a tutti che la lettera I dell’acronimo REI sta per inclusione ovvero nello sviluppo tutto ancora da disegnare e realizzare di politiche attive per soggetti marginali e molto deboli che non possono essere trattati come normali disoccupati), finanziamo meglio e di più il collegamento tra scuola e lavoro potenziando l’alternanza ma soprattutto rendendo l’apprendistato duale nel giro di pochi anni davvero il principale canale di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani, ma soprattutto creiamo un grande programma di sostegno alla formazione delle competenze per i lavoratori inseriti in sempre più veloci processi di cambiamento del lavoro.

Questi 3 punti dovrebbero essere i pilastri fondanti di una nuova politica di sostegno alle persone che lavorano e sugli stessi dovrebbero concentrarsi sia maggiori risorse pubbliche che, senza dubbio, le risorse della contrattazione e della bilateralità.

Gli italiani, anche con questo voto che ha punito i partiti di governo, chiedono più lavoro e più occasioni per incontrarlo e per incontrare un lavoro dignitoso, ben remunerato e tutelato. Gli italiani non chiedono di avere dei piccoli “gratta e vinci” mensili con i quali poter campare in termini di sussidi.

Le politiche attive costano, ancor più se accompagnate da un aumento delle indennità per chi le frequenta. Non sono un contabile, ma è del tutto evidente come i conti di chi propone il reddito di cittadinanza non hanno fatto ancora la quadratura con la realtà.

E allora invece di introdurre nuovi strumenti calati dall’alto perché non continuare a sviluppare certamente anche secondo nuovi assi che la futura compagine di governo potrà proporre, il REI, l’assegno di ricollocazione, la revisione delle indennità di disoccupazione in una logica di maggiore copertura ed estensione mirata, il potenziamento dei centri per l’impiego.

Far diversamente significa non sviluppare quanto già esiste e va potenziato e aspettare la messa a regime di strumenti nuovi che da subito farebbero fatica ad essere finanziati da un normale DEF o legge di bilancio.

Sarebbe questa una brutta partenza per chi ha raccolto da milioni di voti il testimone del cambiamento. Il sindacato da parte sua deve in ogni caso manifestare un atteggiamento aperto al confronto e alla costruzione di maggiori strumenti efficaci di sostegno a lavoro. Contiamo di poterci misurare nel concreto, lontani da formule teoriche, vicino ai lavoratori che dobbiamo meglio sostenere in modo proattivo, per essere meglio occupati e generatori di lavoro.

 

 

*segretario confederale Cisl

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