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Il lavoro uccide come un virus *

Sabato si era celebrata la “festa del lavoro”, e già lunedì si è ricominciato a contare i morti sul lavoro. Ha commosso tutti la fine di Luana D’Onofrio, per i suoi 22 anni, il suo bambino di 5, gli occhi grandi e sognanti. Ma quella di Christian Martinelli non è meno sconvolgente: 49 anni, padre di due bambine piccole, operaio specializzato con vent’anni di esperienza di fabbrica a Busto Arsizio, afferrato per un braccio dalla macchina alesatrice su cui lavorava e che, come fosse una cosa viva, l’ha trascinato negli ingranaggi fino alla schiena dilaniandolo.

Perché uccide cosi il lavoro, in modo cruento, si potrebbe dire impudico, sia che si cada dall’alto di un ponteggio o si venga schiacciati da una pressa o sbranati da un nastro trasportatore. Uccide in modo improvviso, a tradimento, anche sapendo che si rischia, che la macchina corre troppo, che l’organico è sottodimensionato, chele misure di sicurezza sono trascurate in no-me dell’urgenza. Ce lo ripetiamo ogni volta, che il lavoro, fonte di vita, non deve essere causa di morte. Ma poi la routine riprende come prima, e la statistica è feroce.

Sono, quest’anno, in media due al giorno i morti per incidenti sul lavoro:185 nel primo trimestre, oltre un dieci percento in più dell’equi-valente periodo dello scorso anno (+11,5%). Una strage prolungata, endemica. Fino a ieri, con gli occhi fissi sulla luttuosa statistica del Covid, li vedevamo poco, e ancor meno ne parlavamo. Ma quel triste bilancio continuava a dipanarsi, implacabile, spesso solo conosciuto dai famigliari delle vittime, senza un reale soprassalto pubblico di allarme e d’indignazione da parte di un Paese attanagliato dalla paura di un altro “castigo di dio”, dall’orrore di un’altra strage. Si sarebbe tentati d’immaginare che questo irrompere dei morti da lavoro sulle prime pagine di giornali e telegiornali sia dovuto al fatto che l’attività produttiva riprende, e con essa anche il corrispondente seguito d’incidenti, ma non è così. In realtà quella strage non si è mai fermata, solo che non la vedevamo. Politica, informazione, opinione pubblica, persino organi di vigilanza dello Stato, avevano altro a cui pensare.

Ora, forse, con l’allentarsi, si spera, della morsa del virus, e nella speranza di un rallentamento del contagio grazie alla vaccinazione, quell’altro orrore riaffiora all’attenzione collettiva. Christian Martinelli è spirato proprio mentre l’aula del Senato osservava un minuto di silenzio per la morte di Luana D’Onofrio. Ed è una coincidenza sconvolgente, perché ci dice che il lutto è permanente, e circolare. Ma da quell’impietoso sincronismo, da quella sorta di cortocircuito tra fabbrica e Palazzo, forse si potrebbe sperare (per ora solo sperare) che sorga un soprassalto di coscienza. E che il tormentoso apprendistato di questo anno e mezzo di immersione nell’atmosfera di morte prodotta dal virus, ovvero da una causa “eccezionale” e ci si augura transitoria, ci renda capaci di misurarci, con la serietà che è dovuta, anche con l’altra causa di morte purtroppo, questa, non “eccezionale” ma terribilmente costante e ripetitiva. “Ora basta, pretendiamo zero morti sul lavoro”, hanno proclamato i sindacati, scendendo in agitazione. Ed è il minimo per un paese civile. Ma come ottenerlo? Per ridurre la letalità del Covid puntiamo sul vaccino. Prima o poi se ne avrà ragione. Ma per sconfiggere la letalità, barbaramente alta, del lavoro non c’è vaccino. Occorrerà di più. Molto di più. A cominciare da un adeguato numero di ispettori del lavoro. E da una diffusa cultura della sicurezza che non ceda difronte all’appello puro e semplice all’efficienza della prestazione.

 

*da La Stampa, 06/05/2021

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