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Il Pentapolio Big Tech e l’ Intelligenza Artificiale

Lo scontro dentro Open AI, col fondatore Sam Altman cacciato dai Garanti e poi riaccolto per il bene dei ricavi, va inquadrato nel gioco e nei bilanci delle cinque grandi compagnie americane, dette le Big Tech, che (Cina a parte) dominano l’insieme dei servizi di Internet. 

Secondo i Rapporti Annuali depositati presso la Borsa di Wall Street e riferiti all’anno 2022, quelle imprese nell’insieme rastrellano 1.500 (millecinquecento) miliardi a fronte di 1.170 mld di costi operativi. E dunque dispongono annualmente di 330 mld all’anno da spartire fra ammortamenti (per il rimpiazzo e lo sviluppo della loro base tecnica, tasse (solo quelle che non riescono ad eludere) e dividendi per l’entusiasmo dei miliardari che le spremono. Per apprezzare l’entità di queste cifre basta ricordare che il mitico PNNR ha assegnato all’Italia 200 mld una tantum e che quegli incassi le Big Tech li incamerano ogni anno. Nel dettaglio ecco i risultati impresa per impresa: Microsoft, ricavi 198,270mld con un margine operativo di 83,383mld; Apple, ricavi 394,328mld e margine 119,437; Alphabet (Google), ricavi 282,836mld e margine di 74,842mld; META (Facebook), ricavi 114,450mld e margine 42,661mld; Amazon, 513,983mld e margine 12,248.

Queste montagne di denaro escono per metà dalle tasche dell’Europa sotto forma di spesa per pubblicità o di percentuali per l’intermediazione del commercio on line, come ben sanno gli smunti editori di giornali e gli scomparsi esercenti di negozi di quartiere. Questo monopolio, va detto, non è frutto di complotto, ma deriva dalla struttura stessa della Rete dove (se la Politica si scansa) i super aggregatori emergono dal pulviscolo iniziale perché l’aggregazione dei dati rende il web semplice da usare: così per le graduatorie di pagine scovate dietro un input di ricerca, per la vetrina e la gestione delle merci in vendita, per la costruzione di liste con cui scambiare post meditabondi e sfoghi da tastiera, per la standardizzazione dei Sistemi Operativi che danno il là a tutta la baracca. 

Le cinque Big Tech stanno peraltro bene attente a non pestarsi i piedi tra di loro e compongono a tutti gli effetti un Pentapolio (definizione di una studentessa di Economia dei Media resa accorta dall’analisi del Duopolio Rai Mediaset, oggi malaticcio, ma per decenni solidissimo), cioè un sistema stabile e anti conflittuale nonostante qualche episodica scaramuccia nelle zone di confine. Come sta avvenendo con Intelligenza Artificiale Generativa che i cinque pentapolisti – forti del disporre di un numero di server sterminato – si sono trovati a sviluppare, chi nei propri laboratori chi supportando terzi, chi scegliendo approcci misti. In un modo o nell’altro decine di miliardi sono stati spesi.

La sinergia fra Big Tech e Washington

Una volta individuata natura, forma e dimensione della attuale situazione del business della Rete, è consigliabile non dimenticare neppure per un attimo che né la Rete né l’Intelligenza Artificiale esisterebbero se i successivi Governi Usa non fossero intervenuti in mille modi per finanziare, più spesso con fondi militari, esperimenti, prove e ricerche d’avanguardia. Grazie ai Governi è avvenuto in sostanza l’incontro fra i soldi dello Stato e gli scienziati in cerca di chi gli finanziasse le ricerche, fino alla messa a punto di quelle ipotesi concrete che hanno dato la spinta alla creazione dei moloch degli affari. 

Date queste premesse non sorprende che l’incrocio fra Stato, ricercatori e imprese emerga anche nel clamore dell’ultima vicenda relativa ad Open Ai che nasce come entità no profit dedita all’esplorazione dell’AI e dei suoi rischi. Attività in sé molto costosa per cui, sebbene no profit, Open AI è stata alla perenne ricerca di miliardi. Finché, come testimonia il passaggio di Altman a Microsoft, i soldi sono rifluiti nell’alveo del business mentre ai “ricercatori puri” che resteranno nel no profit resta la speranza che qualche mecenate si risolva a metterci del suo. Oppure che sia lo Stato, come nel passato, a sostenere le loro ricerche perché non si sa mai che a forza di analizzare i limiti delle AI generative del momento, non si finisca per scoprire di nuove, più affidabili e potenti alla faccia dei cinesi.

Non s’allenta affatto, in tutto questo, la joint venture tra Washington e le Big Tech come rivela la determinazione con cui il Governo USA protegge la domiciliazione dei -nostri- dati in territorio americano. Per il comodo delle Big Tech che esercitano il controllo piramidale ed accentrato del mercato, e per quello dei Poteri USA, Esecutivo, Legislativo e Giudiziario, che nei server a casa propria rovistano e apprendono di noi qualsiasi cosa senza neppure il disturbo di spiarci dentro casa.

L’Ordine Esecutivo di Biden e l’Ai Act della UE

È in questo quadro che inseriamo, come fatto nuovo, l’Ordine esecutivo con cui Biden allerta le strutture federali affinché promuovano nella Rete le pratiche virtuose che finora hanno snobbato.

Nessuno pensa che davvero gli USA – patria della norma del 1996 che ha dato il via libera all’immunità assoluta dei provider-editori rispetto ai contenuti che trasportano – si apprestino di punto in bianco a rieducarli a colpi d’ispezioni dell’FBI. Ben che vada avremo l’esortazione a imbrattare con l’inchiostro qualche pagina di codici deontologici che daranno alimento al business dei convegni e faranno movimento lasciando con cura che tutto resti come adesso. Ma resta il fatto che emanando l’Ordine Esecutivo, l’Amministrazione USA di fatto tira per la giacca e sfida al confronto l’Unione Europea che finora ha normato da sola i suoi Regolamenti a tutela degli utenti. Solo ora quelle norme – sulla proprietà e portabilità dei dati (se cambio social dovrei portarmi appresso i contatti degli amici e i file col mio profilo) e sui mercati in versione digitale – cominciano a mordere davvero ed ora è anche la volta dell’Intelligenza Artificiale che la UE vorrebbe “normare” proprio mentre le Big Tech USA si apprestano a fonderla con l’insieme delle loro applicazioni.

L’interno dell’AI è materia oscura

L’impresa della UE è di per sé impervia perché le AI attuali, tutte basate sul cosiddetto Deep Learning (apprendimento profondo) sono, per comune riconoscimento, tanto imperscrutabili quanto imprevedibili. Quindi è difficilissimo se non impossibile “normarle” dal di dentro, fissando parametri per costringerle a restare dentro uno statuto di garanzie e valori qualsivoglia. Per questo è probabile che la UE punti alla fin fine sulla responsabilità di chi mette in campo quelle AI nonostante che non sappia dirgli bene cosa fare. E da qui deriva, immaginiamo, il rovello per le Big Tech che, attraverso i limiti alle caratteristiche delle AI, vedrebbero -per trascinamento- limitato nel mercato europeo ogni servizio in cui la loro AI svolga un qualche ruolo.

Nathaniel Fick, super consulente della Casa Bianca, ha espresso di recente la sostanza della posizione americana: “La nostra forte esortazione rispetto all’AI Act è che non entri in vigore in una forma che limiterà l’innovazione e scoraggerà gli imprenditori dall’avviare e far crescere le loro attività in Europa”. “Forte esortazione” è un’espressione antipatica se usata da un messo dell’Impero, ma almeno è schietta e permette di capire dove abita il problema. E chiarisce anche perché, a ostacolare l’AI Act a un passo dall’emanazione, sia sorta una occasionale alleanza fra le Big Tech liberiste d’oltre oceano e alcune imprese francesi e tedesche che tentano di farsi Big Tech per conto loro e temono, con parecchie ragioni, che una legislazione restrittiva possa soffocarle nella culla.

C’è solo da sperare che i governi europei riescano a distinguere fra chi è già un gigante e chi gli lancia il guanto della sfida e mira in sostanza a riportare a casa una parte del fiume di miliardi di cui abbiamo raccontato in apertura. Di certo è su questo fronte che si gioca una parte importante dei rapporti fra le due sponde dell’Atlantico.

* da DOMANI 24 novembre 2023

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