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Il peso delle terre rare nel mondo post globale

Per più di due secoli, i combustibili fossili sono stati la materia prima che ha alimentato il motore termico dell’industria fordista. Le riserve di gas, petrolio e carbone hanno inoltre contribuito a disegnare in modo importante gli equilibri internazionali, basti pensare che gli stati che hanno vinto la seconda guerra mondiale sono quelli che potevano contare sulle maggiori riserve di oil. Inoltre, vi sono paesi che estraendo ed esportando le commodities hanno fatto girare le loro economie o almeno una grossa parte del loro prodotto interno lordo: la Russia, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Irak, il Kuwait, il Qatar, il Venezuela, etc.

Oggi la grande trasformazione che riguarda l’industria e la produzione di energia vede una progressiva emancipazione dallo sfruttamento del carbonfossile a vantaggio di altre materie prime che determinano, in particolare, il lavoro dell’infrastruttura digitale e quello delle tecnologie energetiche cosiddette “pulite”.

Stiamo parlando di quelle che l’Europa definisce “materie prime critiche”, ovvero indispensabili per la transizione ecologica: in particolare, il litio, il cobalto e le cosiddette terre rare sono elementi di alta strategicità.

Il litio e più in generale, i metalli rari – 17 delle 34 materie prime critiche sono terre rare – sono sostanze in grado di cambiare e di potenziare le proprietà delle leghe che li contengono. Hanno effetti molto importanti su microchip e semiconduttori. Il litio, in particolare, è indispensabile per lo sviluppo dell’industria delle batterie – gli attuali leader nella produzione delle batterie sono Cina, Giappone, Corea del Sud e Australia – tra gli obiettivi più importanti del Green Deal europeo, che ha proprio nell’auto elettrica uno dei suoi simboli.

Per quanto riguarda le terre rare, l’Europa le importa per il 98% dalla Cina che, per il momento, possiede il 40% delle riserve mondiali. Possiedono terre rare anche USA, Vietnam, Brasile, Russia, India, Australia, e Groenlandia. Questa era la ragione per cui Trump, durante il suo mandato 2016-2020, voleva comprare l’isola più grande del mondo dalla Danimarca. Si stima che anche il canale di Sicilia ne sia ricco.

Le terre rare in questo momento più ambite sono quelle del gruppo dei “supermagneti”, ovvero il neodimio, il lantanio, il praseodimio, etc. Sono importantissime per la produzione dei nuovi motori dell’auto elettrica, così come per smartphone e televisori, ma anche per tutta la filiera eolica, per la fibra ottica e per quella della diagnostica medica. Come si comprende, sono il cuore dell’innovazione tecnologica e digitale, motore a sua volta – insieme alle fonti energetiche rinnovabili – dello sviluppo sostenibile. In realtà, il problema vero delle terre rare non è la rarità – al di là del gioco di parole – ma la difficoltà di estrazione.

La Cina rappresenta indiscutibilmente il principale produttore di terre rare al mondo, anche perché ha iniziato presto – negli anni ‘80, con Deng Xiaoping – a capire quanto i metalli rari sarebbero stati fondamentali. Ciò costituisce un vantaggio competitivo di non poco conto per Pechino. E, dato che gli Stati Uniti non ne sono così dipendenti, questo è un gap pesante per l’Europa nei confronti delle altre potenze economiche, anche se più o meno un anno fa in Svezia, nell’area di Kiruna, è stato scoperto uno dei più grandi giacimenti al mondo di terre rare.

Tuttavia – come si accennava in precedenza – il 98% dei metalli rari utilizzati dall’Unione Europea viene importato dalla Cina, che vale il 60% dell’estrazione e il 90% dei processi di trattamento, purificazione e raffinazione. Venendo al litio e alle batterie, è vero che non sono da sottovalutare le ricerche e gli investimenti europei. Ma, anche qui, a oggi la Cina produce tre quarti delle batterie prodotte nel mondo: degli oltre 130 siti produttivi per gli accumulatori al litio attualmente sparsi in tutto il globo, 100 si trovano in Cina.

Questi numeri ci danno un’idea del vantaggio competitivo cinese sulla nuova infrastruttura tecnologica. Tant’è che, oggi, i grandi costruttori europei e gli stakeholder dell’automotive hanno forti ripensamenti sul “Total electric” (dal 2035) voluto da tutti loro e approvato dalle Istituzioni europee in più riprese. Ma non c’è dubbio che la grande industria dell’auto si era piegata al dogma dell’elettrico. Volkswagen, ad esempio, su 180 miliardi di euro di investimenti previsti per il piano 2023-2027 ne aveva destinati circa due terzi ai veicoli elettrici. Fino a due anni fa, Oliver Blume, ceo del gruppo di Wolfsburg, andava dicendo che Volkswagen avrebbe prodotto veicoli soltanto elettrici già prima del 2035. La stessa cosa diceva Carlos Tavares, ceo di Stellantis. Poi il vantaggio acclarato dell’industria cinese – la tecnologia del motore elettrico è stata inventata da loro – e il controllo della Cina dei traffici di terre rare hanno convinto tutti che un ripensamento dei tempi previsti per la transizione all’elettrico sia più che opportuno.

La storia della transizione energetica dell’uomo ci dice che per ogni nuova scoperta di fonti di energia sono scaturite guerre per l’accaparramento delle fonti. Lo è stato per il carbone, per l’acciaio, per il petrolio. Ai giorni nostri,  la guerra in Ucraina, in questo senso, non fa eccezione. Il punto però è capire perché oggi il problema delle materie prime è così importante, tanto da causare guerre.

Con la pandemia è crollato il già traballante e vecchio ordine mondiale. In particolare, con il decoupling delle catene del valore – ovvero con l’inizio del disaccoppiamento della tecnologia e dell’economia occidentale da quella asiatica – per le grandi piattaforme industriali diventa strategico controllare gli approvvigionamenti di materie prime. Consideriamo che il cambio di rotta della globalizzazione inizia almeno 10 anni fa, con il back reshoring delle produzioni (avviato da Obama, 2012). Poi nel 2015 abbiamo segni evidenti del rallentamento del commercio mondiale e nel triennio 2017-2019, prima della pandemia, la regionalizzazione delle economie era già disegnata: i mercati hanno iniziato a riorganizzarsi attorno alle grandi piattaforme produttive (Usa, Cina, Europa) anche per effetto dei dazi di Trump (2016).

È in questo quadro, accelerato poi da pandemia e guerra, che scatta la corsa all’approvvigionamento: se ben ricordiamo, la crisi di microchip, gas e materie prime è qualcosa che inizia nel primo anno di pandemia, dopo il lockdown mondiale e la conseguente forte ripartenza delle produzioni.

Tra i diversi Paesi del mondo, inoltre, vi era disallineamento dei lockdown e, in particolare, dei paesi fornitori: il Vietnam è stato in lockdown fino a novembre 2021. La Cina, approfittando del calo dei prezzi, in quel periodo acquista ovunque materie prime strategiche, dai chip e minerali a cereali e cotone. Una vera e propria “corsa all’accumulo”, non soltanto per immagazzinare scorte, ma anche nella consapevolezza che l’Europa sarebbe andata in difficoltà. Questa corsa all’approvvigionamento significa, anche, passare dalla produzione just in time alle scorte di magazzino che avevamo quasi dimenticato. La crisi delle materie prime e l’inflazione nascono da qui. La Cina vive dell’export in Europa, quindi non può permettersi una recessione europea. Ma la spirale inflattiva che abbiamo registrato ha fatto certamente gioco agli interessi di Pechino.

La guerra delle materie prime, con la crisi ucraina, conosce poi il suo aspetto più cruento: i territori occupati dai russi sono proprio quelli più ricchi di materie prime, in particolare proprio di gas, litio e Terre Rare.

Proprio per la ricchezza del suo territorio, qualche anno fa l’Ucraina è stata ufficialmente invitata a partecipare all’Alleanza europea sulle batterie e le materie prime con lo scopo di sviluppare l’intera catena del valore dall’estrazione alla raffinazione e al riciclo dei minerali nel Paese. A luglio 2021, a Kyiv, UE e Ucraina hanno firmato il partenariato strategico sulle materie prime. E questo è certamente uno dei fattori di destabilizzazione del rapporto Russia-UE.

Si consideri, anche, che la Transizione energetica europea è fumo negli occhi per Putin: quello che, a lungo, è stato il principale mercato dell’industria russa del gas è sempre più orientato all’energia rinnovabile e sempre meno ai combustibili fossili. Senza pensare al fatto che, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, l’Europa ha deciso di fermare il grande gasdotto Nord Stream 2 – cosa che per Putin è stato un duro colpo – e che, dall’anno scorso, le sue fonti di approvvigionamento energetico sono completamente cambiate.

Il conflitto russo-ucraino – dal quale, come si evince, l’Europa non è estranea – è la prima grande guerra per le materie prime del mondo post globale che, ancora, è in cerca di equilibri. L’auspicio è che, per il raggiungimento di un nuovo ordine mondiale, il conflitto non si estenda ulteriormente.

*Direttore di Oikonova e autore de “La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino” (Rubbettino, 2022)

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