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Il programma fiscale di Meloni manca di concretezza

L’ascolto, e la lettura successiva, sulla parte fiscale dell’intervento programmatico del Presidente del Consiglio Meloni alle Camere per il voto di fiducia mi ha suscitato due considerazioni. La prima che la Meloni ha preso atto che, data la situazione economica, buona parte delle promesse elettorali fossero da rimandare nel tempo, la seconda che lo staff economico del suo partito non brilli per competenza.

Non vi è traccia per l’immediato, prossima legge di bilancio, di flat tax estesa a tutti i contribuenti, di abolizioni della legge Fornero e via di seguito rispetto a quanto promesso, soprattutto da Lega e FI per la verità, in campagna elettorale. Gli ultimi dati Istat sulle stime provvisorie del PIL del III trimestre aumentano un po’ le risorse a disposizione per la legge di bilancio, ma certo non tanto per interventi importanti fuori dell’emergenza energetica e del sostegno a famiglie e imprese.

La Meloni, quindi, ha enunciato il suo programma fiscale indicando interventi immediati di importo finanziario limitato, quali una riduzione delle imposte sui premi di produttività (ma l’imposta è già al 10%, forse vorrà cambiare i limiti di importo e di accesso), l’innalzamento della soglia di esenzione dei finge benefits aziendali, il potenziamento del welfare aziendale. Aggiunge poi l’intento di allargare la platea dei beni primari che godono dell’IVA ridotta del 5%. Cose da condividere ma che certamente non caratterizzano un governo, specie all’inizio di una legislatura, dal punto di vista fiscale.

Vi sono poi una serie di punti di cui non è indicata con precisione la scadenza temporale o questa è rimandata chiaramente nel tempo.

La riduzione di almeno 5 punti del cuneo fiscale e contributivo da ripartire tra lavoratori e imprese. Suppongo che il Presidente del Consiglio si riferisca al carico contributivo e qui la domanda è sempre la stessa, ossia come intende risolvere il fatto che la diminuzione di 5 punti di contribuzione si riflette negativamente sul montante contributivo dei lavoratori ai fini pensionistici e sul bilancio dell’Inps. Sarà lo stato ad assumersi il peso di questo taglio contributivo? In questo caso come sarà coperto?

La Meloni ha poi parlato di un nuovo patto per ridurre la pressione fiscale attraverso l’estensione della tassa piatta per le partite IVA dagli attuali 65.000 ai 100.000 euro di fatturato, l’introduzione della tassa piatta sull’incremento di reddito rispetto al massimo raggiunto nel triennio precedente, una riforma dell’Irpef con progressiva introduzione del quoziente familiare.

Come queste tre cose si tengano assieme tra di loro è difficile da capire. Flat tax per gli autonomi e quoziente familiare dovrebbero escludersi a vicenda.

L’estensione della flat tax per gli autonomi è chiaramente un pegno da pagare per un governo di destra. Aumenta la differenza tra il peso dell’Irpef a cui sono soggetti lavoratori dipendenti e pensionati e quello a cui sono soggetti gli autonomi che rientrano nei limiti della flat tax (ricordo che 65.000 e 100.000 non è il reddito imponibile, ma il fatturato, il reddito è sensibilmente inferiore).

La flat tax incrementale è un unicum nel panorama fiscale mondiale, almeno credo. Presenta tutta una serie di interrogativi a seconda di come verrà declinata se effettivamente introdotta. 

In primis pone un problema di equità orizzontale. Due redditi dello stesso importo, ma uno uguale a quelli del triennio precedente e uno superiore a quello massimo dello stesso periodo sarebbero tassati in modo diverso in barba al principio costituzionale, dato che una parte del reddito del secondo sarebbe soggetto all’imposta ridotta. Prendiamo due redditi da 20.000 euro, attualmente i primi 15.000 sono soggetti all’aliquota del 23% i rimanenti 5.000 all’aliquota del 25%. Se nel secondo reddito i 5.000 o parte di essi fossero aggiuntivi rispetto al triennio precedente sarebbero tassati con aliquota più bassa determinando a parità di reddito complessivo una pressione fiscale inferiore. Va poi detto che a parità di incremento di reddito i vantaggi in termini di sconto fiscale non sarebbero uguali per tutti i contribuenti. Supponiamo che la flat tax incrementale sia fissata al 15%; un conto è vederla applicata su di un aumento di reddito di 1.000 euro per chi ne guadagna 20.000, altro per chi ne guadagna 40.000 oppure 60.000 o più. Il primo infatti dalla flat tax incrementale godrebbe di un vantaggio di 100 euro (la sua aliquota sui mille euro scenderebbe dal 25 al 15%); il secondo godrebbe di un vantaggio di 200 euro (la sua aliquota sui 1.000 euro scenderebbe dal 35 al 15%); il terzo godrebbe di un vantaggio di 280 euro (la sua aliquota scenderebbe dal 43 al 15%). Insomma una flat tax incrementale regressiva. 

Non è poi chiaro cosa succede nell’anno successivo. L’aumento reddituale dell’anno precedente tassato con aliquota ridotta resta tassato con questa aliquota o rientra nella tassazione normale? Nel primo caso abbiamo in prospettiva contribuenti, specie se all’inizio di carriera, con carichi fiscali ridottissimi per tutta la vita e problemi non indifferenti per il bilancio pubblico. In poco tempo si avrebbero soggetti da anni al lavoro, oppure pensionati, con redditi stabilizzati e con ridotte prospettive di aumento, fortemente colpiti dal fisco, rispetto a soggetti nel pieno dell’attività lavorativa con aumenti ripetuti di reddito favoriti da aliquote basse su buona parte del reddito. Non solo una evidente e insostenibile disparità di trattamento, ma anche un pesante problema per la finanza pubblica cui col tempo verrebbero a mancare entrate notevoli.

Se invece l’aumento di un anno, nell’anno successivo rientrasse nel reddito soggetto a tassazione normale, il contribuente se non ha un incremento di reddito superiore a quello dell’anno precedente, vedrebbe diminuire l’anno successivo il suo reddito netto per l’aumento complessivo della sua pressione fiscale. Per farla semplice prendiamo un reddito di 18.000 euro ottenuto con un aumento di 3.000 euro rispetto al triennio precedente. I primi 15.000 euro sono tassati al 23%, l’aumento incrementale al 15% anziché al 25%. La pressione fiscale è pari al 21,67% (3.900 euro). L’anno successivo se il reddito resta lo stesso e viene tassato normalmente, la pressione fiscale sale al 23,33% (4.200 euro) e il suo reddito netto diminuisce. Un nuovo aumento uguale a quello dell’anno precedente usufruirebbe del vantaggio fiscale, ma questo sarebbe ridotto o annullato dal fatto che l’aumento dell’anno precedente sarebbe tassato normalmente. In concreto il vantaggio della flat tax incrementale si ridurrebbe al vantaggio del primo anno di applicazione.

Che poi questo sistema costi poco allo stato anche nel caso di un rientro della somma beneficiata nella tassazione normale dopo il primo anno, come affermato dalla Meloni è tutto da vedere e dipende da come e a chi è applicato. Un esempio concreto è dato dall’aumento che dovrebbe aspettare ai pensionati a partire dal prossimo primo gennaio per effetto della perequazione. Rientrerebbe nella flat tax incrementale e quindi sarebbe soggetto a aliquota ridotta? Hanno provato i tecnici della Meloni a chiede alla RGS quanto costerebbe questo in termini di mancate entrate al Tesoro? 

Di quoziente familiare si discusse molto; nel 2008/9, era nei programmi del CD, l’UGL presentò una propria proposta, ma non se ne fece nulla.

Il quoziente familiare è un modo di calcolare l’imposta sul reddito assumendo come soggetto colpito non il singolo individuo ma la “famiglia” nel suo complesso. Si sommano i redditi di tutti i membri della famiglia e si divide questa somma per il numero dei componenti (quoziente), ma non tutti pesano uno. Questo è uno dei punti chiave del sistema, il peso di coniugi, figli e altri nel sistema. Al reddito così ottenuto si applicano le aliquote esistenti e si moltiplica poi l’imposta ottenuta per il quoziente determinando il carico fiscale della famiglia al lordo di eventuali detrazioni.

È il sistema in vigore in Francia e si differenzia dallo splitting in cui il reddito è invece ripartito soltanto tra i coniugi e non tra tutti i componenti della famiglia.

Il quoziente familiare è un modo di calcolare l’imposta sul reddito per favorire le famiglie numerose, ma l’esempio francese mostra che deve essere usato con particolare attenzione per non favorire i redditi alti come avverrebbe, a esempio, se introdotto con una struttura delle aliquote e scaglioni come quella italiana attuale. In Francia inoltre vi è un “plafond”, un tetto per evitare un vantaggio eccessivo derivante ai redditi alti con la suddivisione del reddito e la conseguente diminuzione dell’aliquota fiscale. 

È chiaro poi che il quoziente confligge con l’assegno unico appena introdotto. Nel sistema italiano la tutela dei figli, e in generale delle persone a carico, si è fatta nel sistema fiscale attraverso le detrazioni. Rispetto ai figli queste sono state sostituite dall’assegno unico che ha assicurato un sostegno per i figli. Quoziente familiare e assegno unico sono ovviamente alternativi.

Punto fondamentale nel quoziente familiare è poi la definizione di famiglia ai fini fiscali e qui indubbiamente le prospettive non sono tranquillizzanti. In Francia la definizione è estesa non solo alla famiglia tradizionale, è facile pensare che su questo, qualora si introducesse il quoziente familiare, si aprirebbe uno scontro non piccolo. 

Non è infine escluso che occorre una modifica costituzionale dato che nella nostra Costituzione l’imposizione è su base individuale e che per questo la Corte dichiarò incostituzionale il cumulo dei redditi previsto nella riforma Irpef del 1973. In questo caso, tuttavia il quoziente sarebbe a favore della famiglia.

In ogni caso, l’introduzione del quoziente come qualsiasi riforma che preveda una diminuzione sensibile della pressione fiscale sui redditi richiede notevoli risorse e, dati i conti pubblici, bisogna indicare dove trovarli.

Non sembrerebbe, stando alle dichiarazioni del neo Presidente del Consiglio che queste risorse, o parte di esse, saranno recuperate dalla lotta all’evasione. Nel Patto fiscale indicato dalla Meloni, infatti, vi è “una tregua fiscale per consentire a cittadini e imprese (in particolare alle PMI) in difficoltà di regolarizzare la propria posizione con il fisco” e poi l’indicazione che la lotta all’evasione deve “partire da evasori totali, grandi imprese e grandi frodi sull’Iva”. Eppure i dati sull’economia sommersa indicano chiaramente che fonte principale dell’evasione nel nostro paese non sono le grandi imprese e le grandi frodi sull’IVA. Certo queste evadono, eludono e le frodi ci sono, ma l’imposta più evasa è l’Irpef sul lavoro autonomo e di impresa per 32,4 mld. L’Ires e l’Irap, le imposte delle imprese, sono evase per 8,3 e per 5 mld. Sull’evasione Iva danno il contributo tutti, piccoli e grandi, ed è pari a 27 mld. Comunque grazie all’opera dell’Agenzia delle entrate e alle misure di tracciamento del contante favorito dal limite al suo uso, in cinque anni l’evasione Iva è scesa da 35,8 a 27 mld.

Insomma i “piccoli” evadono e se si rinuncia per clientela elettorale a combattere la loro evasione si rinuncia di fatto alla lotta all’evasione.

Ha tutto il diritto il nuovo governo di cambiare alla scadenza il direttore dell’Agenzia delle Entrate ma non può inventarsi una motivazione inesistente, per non dire falsa, come quella che i criteri di valutazione dei risultati dell’Agenzia siano le contestazioni di somme da incassare e non le somme incassate. Le è stato fatto notare che proprio l’ultimo governo Berlusconi di cui lei ha fatto parte ha modificato i criteri di valutazione dell’Agenzia introducendo le somme effettivamente incassate come elemento di valutazione.

Se vuole procedere effettivamente a una riforma del nostro sistema fiscale il nuovo governo deve porsi il problema delle risorse e non può ignorare il problema dell’evasione e questo indubbiamente non può che porlo in contrasto con parte del suo elettorato.

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