Quasi in sordina sta avanzando nell’agenda di governo l’ipotesi di un salario minimo. Sindacati e Confindustria non lo vogliono perché ne temono l’effetto di parziale svuotamento dei contratti nazionali (settoriali), che ancora costituiscono il perno del sistema di negoziazione salariale.
L’argomento, tuttavia, non convince. Il salario minimo protegge anzitutto quelli che un contratto salariale non ce l’hanno. Non si tratta solo di quelli che lavorano a condizioni di quasi miseria ai margini del mercato del lavoro ‘ufficiale’. Si tratta anche di coloro che si muovono verso attività innovative non ancora regolate da contratto. E c’è anche tutto il mondo delle professioni, in cui i giovani vengono a malapena remunerati negli anni iniziali della professione, a fronte di orari di lavoro massacranti.
In un mondo in rapido cambiamento, questi lavoratori devono essere protetti da una norma di remunerazione a carattere generale. Rispetto a tutti questi lavoratori, il contratto nazionale è una barriera che li esclude ed entro la quale non hanno probabilmente interesse ad entrare. D’altro canto, il salario minimo si commisura nelle esperienze note a una frazione del salario fissato nei contratti nazionali di lavoro (due terzi dei minimi contrattuali?), dunque costituisce una minaccia relativa per il ruolo di sindacati e Confindustria.
*In Più 29/09/2021