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Il pensiero sulla immigrazione

In questo momento dove il tema delle migrazioni economiche, ma soprattutto forzate è stato riportato all’attenzione di tutti a causa dei conflitti in molti paesi e aree del mondo, vogliamo richiamare l’attenzione, e rileggere le parole pronunciate dal Santo Padre, papa Francesco, in alcune occasioni: delle visite pastorali a Lampedusa (8 luglio 2013), al Centro Astalli di Roma (10 settembre 2013), del discorso a Strasburgo (25 Novembre 2014),  del discorso rivolto alle Acli  il 23 maggio 2015, della lettera al Vescovo di Cefalù (28 Maggio 2015) e del discorso del 30 Maggio 2015, sala Clementina all’Associazione Scienza e Vita. 

Di ogni intervento del papa Francesco evidenzieremo in questa ricerca solo le parti riguardanti i temi dell’immigrazione, dell’accoglienza, dell’integrazione, del lavoro, ecc., mentre in calce all’articolo saranno riportati in allegato tutti i testi integrali.

L’omelia del Santo Padre a Lampedusa (8 luglio 2013)

“Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta per favore.  …Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’scià!
Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.
«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!
Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovanoaccoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza.Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto.
«Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?
Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore! Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande:«Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

 

Riportiamo qui di seguito il testo del discorso del Santo Padre Francesco al Centro Astalli di Roma (10 settembre 2013).

…Saluto prima di tutto voi rifugiati e rifugiate. Abbiamo ascoltato Adam e Carol: grazie per le vostre testimonianze forti, sofferte. Ognuno di voi, cari amici, porta una storia di vita che ci parla di drammi di guerre, di conflitti, spesso legati alle politiche internazionali. Ma ognuno di voi porta soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere. Molti di voi siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze! La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti! Viviamo la fraternità!
Roma! Dopo Lampedusa e gli altri luoghi di arrivo, per molte persone la nostra città è la seconda tappa. Spesso – come abbiamo sentito – è un viaggio difficile, estenuante, anche violento quello che si è affrontato – penso soprattutto alle donne, alle mamme, che sopportano questo pur di assicurare un futuro ai loro figli e una speranza di vita diversa per se stesse e per la famiglia. Roma dovrebbe essere la città che permette di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere. Quante volte, invece, qui, come in altre parti, tante persone che portano scritto “protezione internazionale” sul loro permesso di soggiorno, sono costrette a vivere in situazioni disagiate, a volte degradanti, senza la possibilità di iniziare una vita dignitosa, di pensare a un nuovo futuro!

Grazie allora a quanti, come questo Centro e altri servizi, ecclesiali, pubblici e privati, si danno da fare per accogliere queste persone con un progetto. Grazie a Padre Giovanni e ai Confratelli; a voi, operatori, volontari, benefattori, che non donate solo qualcosa o del tempo, ma che cercate di entrare in relazione con i richiedenti asilo e i rifugiati riconoscendoli come persone, impegnandovi a trovare risposte concrete ai loro bisogni. Tenere sempre viva la speranza! Aiutare a recuperare la fiducia! Mostrare che con l’accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro, più che una finestra, una porta, e più si può avere ancora un futuro! Ed è bello che a lavorare per i rifugiati, insieme con i Gesuiti, siano uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del bene comune, che per noi cristiani è espressione dell’amore del Padre in Cristo Gesù. Sant’Ignazio di Loyola volle che ci fosse uno spazio per accogliere i più poveri nei locali dove aveva la sua residenza a Roma, e il Padre Arrupe, nel 1981, fondò il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e volle che la sede romana fosse in quei locali, nel cuore della città. E penso a quel congedo spirituale del padre Arrupe in Thailandia, proprio in un centro per i rifugiati.
Servire, accompagnare, difendere: le tre parole che sono il programma di lavoro per i Gesuiti e i loro collaboratori.
Servire. Che cosa significa? Servire significa accogliere la persona che arriva, con attenzione; significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli. Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà. Solidarietà, questa parola che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. E’ quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione.

I poveri sono anche maestri privilegiati della nostra conoscenza di Dio; la loro fragilità e semplicità smascherano i nostri egoismi, le nostre false sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza e ci guidano all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio, a ricevere nella nostra vita il suo amore, la sua misericordia di Padre che, con discrezione e paziente fiducia, si prende cura di noi, di tutti noi.

Da questo luogo di accoglienza, di incontro e di servizio vorrei allora che partisse una domanda per tutti, per tutte le persone che abitano qui in questa diocesi di Roma: mi chino su chi è in difficoltà oppure ho paura di sporcarmi le mani? Sono chiuso in me stesso, nelle mie cose, o mi accorgo di chi ha bisogno di aiuto? Servo solo me stesso o so servire gli altri come Cristo che è venuto per servire fino a donare la sua vita? Guardo negli occhi di coloro che chiedono giustizia o indirizzo lo sguardo verso l’altro lato? Per non guardare gli occhi?

Accompagnare. In questi anni, il Centro Astalli ha fatto un cammino. All’inizio offriva servizi di prima accoglienza: una mensa, un posto-letto, un aiuto legale. Poi ha imparato ad accompagnare le persone nella ricerca del lavoro e nell’inserimento sociale. E quindi ha proposto anche attività culturali, per contribuire a far crescere una cultura dell’accoglienza, una cultura dell’incontro e della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani. La sola accoglienza non basta. Non basta dare un panino se non è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare con le proprie gambe. La carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente. La misericordia vera, quella che Dio ci dona e ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada per non essere più tale. Chiede – e lo chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma, alle istituzioni – chiede che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere e a lavorare, a essere pienamente persona. Adam ha detto: “Noi rifugiati abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in Italia”. E questo è un diritto: l’integrazione! E Carol ha detto: “I Siriani in Europa sentono la grande responsabilità di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società”. Anche questo è un diritto! Ecco, questa responsabilità è la base etica, è la forza per costruire insieme. Mi domando: noi accompagniamo questo cammino?

Difendere. Servire, accompagnare vuol dire anche difendere, vuol dire mettersi dalla parte di chi è più debole. Quante volte leviamo la voce per difendere i nostri diritti, ma quante volte siamo indifferenti verso i diritti degli altri! Quante volte non sappiamo o non vogliamo dare voce alla voce di chi – come voi – ha sofferto e soffre, di chi ha visto calpestare i propri diritti, di chi ha vissuto tanta violenza che ha soffocato anche il desiderio di avere giustizia!

Per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli “specialisti”, ma siano un’attenzione di tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali. In particolare – e questo è importante e lo dico dal cuore – in particolare vorrei invitare anche gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei tempi. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti… Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio. Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire. Superare la tentazione della mondanità spirituale per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli ultimi. Abbiamo bisogno di comunità solidali che vivano l’amore in modo concreto!

Ogni giorno, qui e in altri centri, tante persone, in prevalenza giovani, si mettono in fila per un pasto caldo. Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche che fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come posso dare una mano?”.

 

Dal discorso di papa Francesco a Strasburgo – 25 novembre 2014

…La mia visita avviene dopo oltre un quarto di secolo da quella compiuta da Papa Giovanni Paolo II.  Molto è cambiato da quei giorni in Europa e in tutto il mondo. Non esistono più i blocchi contrapposti che allora dividevano il continente in due e si sta lentamente compiendo il desiderio che «l’Europa, dandosi sovranamente libere istituzioni, possa un giorno estendersi alle dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora dalla storia».

Accanto a un’Unione Europea più ampia, vi è anche un mondo più complesso e fortemente in movimento. Un mondo sempre più interconnesso e globale e perciò sempre meno “eurocentrico”. A un’Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi l’immagine di un’Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto.

Oggi, la promozione dei diritti umani occupa un ruolo centrale nell’impegno dell’Unione Europea in ordine a favorire la dignità della persona, sia al suo interno che nei rapporti con gli altri Paesi. Si tratta di un impegno importante e ammirevole, poiché persistono fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può programmare la concezione, la configurazione e l’utilità, e che poi possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi.

Occorre però prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici -, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (μονάς), sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere, così che si finisce per affermare i diritti del singolo senza tenere conto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale, in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa.

Ritengo perciò che sia quanto mai vitale approfondire oggi una cultura dei diritti umani che possa sapientemente legare la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel “noi-tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Infatti, se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze.

Parlare della dignità trascendente dell’uomo, significa dunque fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato; soprattutto significa guardare all’uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale. Una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami. La si vede particolarmente negli anziani, spesso abbandonati al loro destino, come pure nei giovani privi di punti di riferimento e di opportunità per il futuro; la si vede nei numerosi poveri che popolano le nostre città; la si vede negli occhi smarriti dei migranti che sono venuti qui in cerca di un futuro migliore.

Tale solitudine è stata poi acuita dalla crisi economica, i cui effetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche dal punto di vista sociale. Si può poi constatare che, nel corso degli ultimi anni, accanto al processo di allargamento dell’Unione Europea, è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose. Da più parti si ricava un’impressione generale di stanchezza, d’invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni.

A ciò si associano alcuni stili di vita un po’ egoisti, caratterizzati da un’opulenza ormai insostenibile e spesso indifferente nei confronti del mondo circostante, soprattutto dei più poveri. Si constata con rammarico un prevalere delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orientamento antropologico. L’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che – lo notiamo purtroppo spesso – quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere.

Come dunque ridare speranza al futuro, così che, a partire dalle giovani generazioni, si ritrovi la fiducia per perseguire il grande ideale di un’Europa unita e in pace, creativa e intraprendente, rispettosa dei diritti e consapevole dei propri doveri?

Proprio a partire dalla necessità di un’apertura al trascendente, intendo affermare la centralità della persona umana, altrimenti in balia delle mode e dei poteri del momento. In questo senso ritengo fondamentale non solo il patrimonio che il cristianesimo ha lasciato nel passato alla formazione socioculturale del continente, bensì soprattutto il contributo che intende dare oggi e nel futuro alla sua crescita. Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l’indipendenza delle istituzioni dell’Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l’hanno formata fin dal principio, quali la pace, la sussidiarietà e la solidarietà reciproca, un umanesimo incentrato sul rispetto della dignità della persona.

…Sono convinto che un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e le potenzialità, possa essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché «è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza». …Non possiamo qui non ricordare le numerose ingiustizie e persecuzioni che colpiscono quotidianamente le minoranze religiose, e particolarmente cristiane, in diverse parti del mondo. Comunità e persone che si trovano ad essere oggetto di barbare violenze: cacciate dalle proprie case e patrie; vendute come schiave; uccise, decapitate, crocefisse e bruciate vive, sotto il silenzio vergognoso e complice di tanti.

…Mettere al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e la propria creatività, sia a livello di singolo che di popolo.  …D’altra parte le peculiarità di ciascuno costituiscono un’autentica ricchezza nella misura in cui sono messe al servizio di tutti. Occorre ricordare sempre l’architettura propria dell’Unione Europea, basata sui principi di solidarietà e sussidiarietà, così che prevalga l’aiuto vicendevole e si possa camminare, animati da reciproca fiducia. …Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone.

…L’Europa è sempre stata in prima linea in un lodevole impegno a favore dell’ecologia. Questa nostra terra ha infatti bisogno di continue cure e attenzioni e ciascuno ha una personale responsabilità nel custodire il creato, prezioso dono che Dio ha messo nelle mani degli uomini. Ciò significa da un lato che la natura è a nostra disposizione, ne possiamo godere e fare buon uso; dall’altro però significa che non ne siamo i padroni. Custodi, ma non padroni. La dobbiamo perciò amare e rispettare, mentre «invece siamo spesso guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non la “custodiamo”, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura». Rispettare l’ambiente significa però non solo limitarsi ad evitare di deturparlo, ma anche di utilizzarlo per il bene. Penso soprattutto al settore agricolo, chiamato a dare sostegno e nutrimento all’uomo. Non si può tollerare che milioni di persone nel mondo muoiano di fame, mentre tonnellate di derrate alimentari vengono scartate ogni giorno dalle nostre tavole. Inoltre, rispettare la natura, ci ricorda che l’uomo stesso è parte fondamentale di essa. Accanto ad un’ecologia ambientale, serve perciò quell’ecologia umana, fatta del rispetto della persona, che ho inteso richiamare quest’oggi rivolgendomi a voi.

Il secondo ambito in cui fioriscono i talenti della persona umana è il lavoro. E’ tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro, garantendo anche adeguate condizioni per il suo svolgimento. Ciò implica, da un lato, reperire nuovi modi per coniugare la flessibilità del mercato con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative, indispensabili per lo sviluppo umano dei lavoratori; d’altra parte, significa favorire un adeguato contesto sociale, che non punti allo sfruttamento delle persone, ma a garantire, attraverso il lavoro, la possibilità di costruire una famiglia e di educare i figli.

Parimenti, è necessario affrontare insieme la questione migratoria. Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero! Sui barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee ci sono uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto. L’assenza di un sostegno reciproco all’interno dell’Unione Europea rischia di incentivare soluzioni particolaristiche al problema, che non tengono conto della dignità umana degli immigrati, favorendo il lavoro schiavo e continue tensioni sociali. L’Europa sarà in grado di far fronte alle problematiche connesse all’immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni – causa principale di tale fenomeno – invece delle politiche di interesse che aumentano e alimentano tali conflitti. È necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti.

…la coscienza della propria identità è indispensabile nei rapporti con gli altri Paesi vicini, particolarmente con quelli che si affacciano sul Mediterraneo, molti dei quali soffrono a causa di conflitti interni e per la pressione del fondamentalismo religioso e del terrorismo internazionale.

Cari Eurodeputati, è giunta l’ora di costruire insieme l’Europa che ruota non intorno all’economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l’Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia il futuro per vivere pienamente e con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su sé stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità!

 

Discorso di Papa Francesco alle Acli       Aula Paolo VI         23 maggio 2015 

…vi saluto con affetto in occasione del 70° anniversario della fondazione delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani… Quello che è cambiato nel mondo globale non sono tanto i problemi, quanto la loro dimensione e la loro urgenza. Inedite sono l’ampiezza e la velocità di riproduzione delle disuguaglianze. Ma questo non possiamo permetterlo! Dobbiamo proporre alternative eque e solidali che siano realmente praticabili.

L’estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza del lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa. Risposta sollecita e vigorosa contro questo sistema economico mondiale dove al centro non ci sono è l’uomo e la donna: c’è un idolo, il dio-denaro. E’ questo che comanda! E questo dio-denaro distrugge, e provoca la cultura dello scarto: si scartano i bambini, perché non si fanno: si sfruttano o si uccidono prima di nascere; si scartano gli anziani, perché non hanno la cura dignitosa, non hanno le medicine, hanno pensioni miserabili… E adesso, si scartano i giovani. Pensate, in questa terra tanto generosa, pensate a quel 40%, o un po’ di più, di giovani dai 25 anni in giù che non hanno lavoro: sono materiale di scarto, ma sono anche il sacrificio che questa società, mondana e egoista, offre al dio-denaro, che è al centro del nostro sistema economico mondiale.

Davanti a questa cultura dello scarto, vi invito a realizzare un sogno che vola più in alto. Dobbiamo far sì che, attraverso il lavoro – il «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale» (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 192) – l’essere umano esprima ed accresca la dignità della propria vita. Vorrei dire qualcosa su queste quattro caratteristiche del lavoro.

Il lavoro libero. La vera libertà del lavoro significa che l’uomo, proseguendo l’opera del Creatore, fa sì che il mondo ritrovi il suo fine: essere opera di Dio che, nel lavoro compiuto, incarna e prolunga l’immagine della sua presenza nella creazione e nella storia dell’uomo. Troppo spesso, invece, il lavoro è succube di oppressioni a diversi livelli: dell’uomo sull’altro uomo; di nuove organizzazioni schiavistiche che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno che contraddice la creazione nella sua bellezza e nella sua armonia. Dobbiamo far sì che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza e di vita nuova. Cioè, che il lavoro sia libero.

Secondo: il lavoro creativo. Ogni uomo porta in sé una originale e unica capacità di trarre da sé e dalle persone che lavorano con lui il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Ogni uomo e donna è “poeta”, capace di fare creatività. Poeta vuol dire questo. Ma questo può avvenire quando si permette all’uomo di esprimere in libertà e creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale. Non possiamo tarpare le ali a quanti, in particolare giovani, hanno tanto da dare con la loro intelligenza e capacità; essi vanno liberati dai pesi che li opprimono e impediscono loro di entrare a pieno diritto e quanto prima nel mondo del lavoro.

Terzo: il lavoro partecipativo. Per poter incidere nella realtà, l’uomo è chiamato ad esprimere il lavoro secondo la logica che più gli è propria, quella relazionale. La logica relazionale, cioè vedere sempre nel fine del lavoro il volto dell’altro e la collaborazione responsabile con altre persone. Lì dove, a causa di una visione economicistica, come quella che ho detto prima, si pensa all’uomo in chiave egoistica e agli altri come mezzi e non come fini, il lavoro perde il suo senso primario di continuazione dell’opera di Dio, e per questo è opera di un idolo; l’opera di Dio, invece, è destinata a tutta l’umanità, perché tutti possano beneficiarne.

E quarto, il lavoro solidale. Ogni giorno voi incontrate persone che hanno perso il lavoro – questo fa piangere –, o in cerca di occupazione. E prendono quello che capita. Alcuni mesi fa, una signora mi diceva che aveva preso un lavoro, 10/11 ore, in nero, a 600 euro al mese. E quando ha detto: “Ma, niente di più?” – “Ah, se non le piace se ne vada! Guardi la coda che c’è dietro di lei”.

Quante persone in cerca di occupazione, persone che vogliono portare a casa il pane: non solo mangiare, ma portare da mangiare, questa è la dignità. Il pane per la loro famiglia. A queste persone bisogna dare una risposta. In primo luogo, è doveroso offrire la propria vicinanza, la propria solidarietà. I tanti “circoli” delle Acli, che oggi sono da voi rappresentati qui, possono essere luoghi di accoglienza e di incontro. Ma poi bisogna anche dare strumenti ed opportunità adeguate. E’ necessario l’impegno della vostra Associazione e dei vostri Servizi per contribuire ad offrire queste opportunità di lavoro e di nuovi percorsi di impiego e di professionalità.

Dunque: libertà, creatività, partecipazione e solidarietà. Queste caratteristiche fanno parte della storia delle Acli. Oggi più che mai siete chiamati a metterle in campo, senza risparmiarvi, a servizio di una vita dignitosa per tutti. E per motivare questo atteggiamento, pensate ai bambini sfruttati, scartati; pensate agli anziani scartati, che hanno una pensione minima e non sono curati; e pensate ai giovani scartati dal lavoro: e cosa fanno? Non sanno cosa fare, e sono in pericolo di cadere nelle dipendenze, cadere nella malavita, o andarsene a cercare orizzonti di guerra, come mercenari. Questo fa la mancanza di lavoro!

Vorrei toccare brevemente ancora tre aspetti – è un po’ lungo questo discorso, scusatemi -. Il primo: la vostra presenza fuori d’Italia. Iniziata al seguito dell’emigrazione italiana, anche

oltreoceano, essa è un valore molto attuale. Oggi molti giovani si spostano per cercare un lavoro adeguato ai propri studi o per vivere un’esperienza diversa di professionalità: vi incoraggio ad accoglierli, a sostenerli nel loro percorso, ad offrire il vostro supporto per il loro inserimento. Nei loro occhi potete trovare un riflesso dello sguardo dei vostri padri o dei vostri nonni che andarono lontano per lavorare. Possiate essere per loro un buon punto di riferimento.

Inoltre, la vostra Associazione sta affrontando il tema della lotta alla povertà e quello

dell’impoverimento dei ceti medi. La proposta di un sostegno non solo economico alle persone al di sotto della soglia di povertà assoluta, che anche in Italia sono aumentate negli ultimi anni, può portare benefici a tutta la società. Allo stesso tempo va evitato che nella povertà scivolino coloro che fino a ieri vivevano una vita dignitosa. Noi, nelle parrocchie, nelle Caritas parrocchiali, vediamo questo tutti i giorni: uomini o donne che si avvicinano un po’ di nascosto per prendere il cibo da mangiare… Un po’ di nascosto perché sono diventati poveri da un mese all’altro. E hanno vergogna. E questo succede, succede, succede… Fino a ieri vivevano una vita dignitosa… Basta un niente oggi per diventare poveri: la perdita del lavoro, un anziano non più autosufficiente, una malattia in famiglia, persino – pensate il terribile paradosso – la nascita di un figlio: ti può portare tanti problemi, se sei senza lavoro. E’ una importante battaglia culturale, quella di considerare il welfare una infrastruttura dello sviluppo e non un costo. Voi potete fare da coordinamento e da motore dell’“Alleanza nuova contro la povertà”, che si propone di sviluppare un piano nazionale per il lavoro decente e dignitoso.

E infine, ma non per importanza, il vostro impegno abbia sempre il suo principio e il suo collante in quella che voi chiamate ispirazione cristiana, e che rimanda alla costante fedeltà a Gesù Cristo e alla Parola di Dio, a studiare e applicare la Dottrina sociale della Chiesa nel confronto con le nuove sfide del mondo contemporaneo.

L’ispirazione cristiana e la dimensione popolare determinano il modo di intendere e di

riattualizzare la storica triplice fedeltà delle Acli ai lavoratori, alla democrazia, alla Chiesa. Al punto che nel contesto attuale, in qualche modo si potrebbe dire che le vostre tre storiche fedeltà – ai lavoratori, alla democrazia e alla Chiesa – si riassumono in una nuova e sempre attuale: la fedeltà ai poveri.

 

Lettera del 28 Maggio al Vescovo di Cefalù.  

Cari fratelli e sorelle,

vi saluto cordialmente in occasione del Convegno Nazionale promosso dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia insieme alla Fondazione Migrantes, alla Caritas Italiana, all’Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e all’Ufficio Nazionale per l’apostolato del mare sul tema: «Dov’è tuo fratello? (cfr Gen 4,9): famiglia e immigrazione». 

Questo titolo mi fa tornare alla memoria la mia visita a Lampedusa l’8 luglio 2013, dopo che

centinaia di fratelli erano morti in mare. Sono passati quasi due anni da allora, e purtroppo non è cambiato molto: tante, troppe persone ancora sono annegate nel Mediterraneo, e ancora si continua a parlare di “emergenza”, mentre in realtà il fenomeno va affrontato con un piano ampio e articolato.

Voglio ribadire quanto ho detto in diverse occasioni: dinanzi a questo esodo di popoli e di famiglie occorre uscire dalla globalizzazione dell’indifferenza. Non è possibile pensare di chiudere semplicemente le frontiere e mettere una diga, quasi un muro, su questo mare. Occorre domandarsi da dove stanno fuggendo le persone: povertà, guerra, rassegnazione. L’Europa e il mondo intero devono intervenire per fermare i commercianti di morte, ma anche per rispondere al grido della fame e al bisogno di pace di tante famiglie.

C’è necessità di un faro in questo mare di morte e la Chiesa e le famiglie che sono in Italia, come piccole fiaccole, hanno un compito profetico: mostrare al mondo che questi nostri fratelli, uomini e donne come noi, possono costituire una risorsa preziosa; rafforzare la tutela familiare dei minori non accompagnati; costruire una cultura dell’inclusione. 

Così, attraverso l’accoglienza vissuta nella carne, potremo far crescere un nuovo umanesimo che, come lievito fecondo,diventi speranza per il Mediterraneo creando condizioni lavorative più dignitose per i migranti e per le loro famiglie, oggi fra noi e domani, forse, nei loro Paesi, quando le condizioni permetteranno loro di rientrare in pace e sicurezza.

 Allora porteranno con sé ciò che qui avranno ricevuto: disponibilità e amore, piuttosto che rifiuto e indifferenza. Questa non è un’utopia, è la società che il Padre celeste ci chiama a costruire attraverso segni concreti di solidarietà fraterna.

Auguro a tutti di proseguire nell’impegno di trasformare la nostra Italia e l’Europa in una «casa accogliente», per tutti coloro che, bisognosi di protezione e di dignità, bussano alla porte del nostro cuore e ci chiedono di diffondere il buon profumo della fraternità.

 

Discorso del Santo Padre Francesco all’incontro promosso dall’Associazione Scienza e Vita

Sala Clementina  Sabato, 30 maggio 2015

…Per tutelare la persona voi ponete al centro due azioni essenziali: uscire per incontrare e incontrare per sorreggere. Il dinamismo comune di questo movimento va dal centro verso le periferie. Al centro c’è Cristo. E da questa centralità vi orientate verso le diverse condizioni della vita umana. L’amore di Cristo ci spinge (cfr 2 Cor 5,14) a farci servitori dei piccoli e degli anziani, di ogni uomo e ogni donna, per i quali va riconosciuto e tutelato il diritto primordiale alla vita. L’esistenza della persona umana, a cui voi dedicate la vostra sollecitudine, è anche il vostro principio costitutivo; è la vita nella sua insondabile profondità che origina e accompagna tutto il cammino scientifico; è il miracolo della vita che sempre mette in crisi qualche forma di presunzione scientifica, restituendo il primato alla meraviglia e alla bellezza. Così Cristo, che è la luce dell’uomo e del mondo, illumina la strada perché la scienza sia sempre un sapere a servizio della vita. Quando viene meno questa luce, quando il sapere dimentica il contatto con la vita, diventa sterile. Per questo, vi invito a mantenere alto lo sguardo sulla sacralità di ogni persona umana, perché la scienza sia veramente al servizio dell’uomo, e non l’uomo al servizio della scienza. 

La riflessione scientifica utilizza la lente d’ingrandimento per soffermarsi ad analizzare determinati particolari. E grazie anche a questa capacità di analisi noi ribadiamo che una società giusta riconosce come primario il diritto alla vita dal concepimento fino al suo termine naturale. Vorrei, però, che andassimo oltre, e che pensassimo con attenzione al tempo che unisce l’inizio con la fine. Pertanto, riconoscendo il valore inestimabile della vita umana, dobbiamo anche riflettere sull’uso che ne facciamo. La vita è innanzitutto dono. Ma questa realtà genera speranza e futuro se viene vivificata da legami fecondi, da relazioni familiari e sociali che aprono nuove prospettive. 

Il grado di progresso di una civiltà si misura proprio dalla capacità di custodire la vita, soprattutto nelle sue fasi più fragili, più che dalla diffusione di strumenti tecnologici. Quando parliamo dell’uomo, non dimentichiamo mai tutti gli attentati alla sacralità della vita umana. È attentato alla vita la piaga dell’aborto. È attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia. È attentato alla vita la morte sul lavoro perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza. È attentato alla vita la morte per denutrizione. È attentato alla vita il terrorismo, la guerra, la violenza; ma anche l’eutanasia. Amare la vita è sempre prendersi cura dell’altro, volere il suo bene, coltivare e rispettare la sua dignità trascendente.

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