Si parla del sindacato come una forza in crisi, senza considerare l’enorme impatto che esso ha e che dovrebbe continuare ad avere, sulla realtà. Un presupposto della sua ripresa è tuttavia l’abbandono delle caratterizzazioni politiche che lo contraddistinguono. Vedremo di seguito entrambe le cose.
I punti reali di forza del sindacato sono due: uno amministrativo, da valorizzare; uno tecnico-politico, da ricostruire. La questione amministrativa è attualmente la vera forza del sindacato, in gran parte occulta. In passato essa si esercitava massicciamente. Tutte le strutture dello stato ne erano permeate: i Ministeri, l’Inps, le Asl, le Scuole, i Servizi dei Comuni, vedevano la partecipazione in concreto di soggetti sindacali nella loro gestione. Il che significava in particolare: “Non si muove foglia che il sindacato non voglia”. A fronte dello strapotere dell’offerta sulla domanda, che in questo modo si determinava, con conseguenze negative per gli utenti, il processo si è in gran parte ristrutturato. Non c’è più una partecipazione diretta sulla gestione, ma indiretta. Abbastanza potente, comunque, da influire su molte carriere. Soprattutto, si sono sviluppati i servizi al cittadino, in maniera massiccia: i Caaf, l’Isee, le consulenze Inps ne sono un esempio significativo. I servizi sono a volte essenziali, al punto che il cittadino è lasciato senza supporto, se non fosse per l’intervento del sindacato. Qui c’è molto lavoro da fare, per elevare la qualità media del servizio, spesso abbastanza scadente. Il sindacato si cura poco di tali servizi, quando un loro corretto svolgimento è essenziale. I ricchi si salvano comunque, con la consulenza dei professionisti oppure con l’accesso diretto (ad esempio Ministeri, Inps).
Il sindacato è tuttora, nella sua mente, assorbito principalmente: a) dall’intervento nella contrattazione collettiva, in teoria a favore di tutti i lavoratori; b) dalla difesa attiva dei diritti dei lavoratori; c) soprattutto, dal privilegio degli incontri con il Governo, garantitogli da questa situazione. Tale realtà fattuale si è tuttavia dissolta. La contrattazione del governo si esercita ora con l’Unione Europea. Il lavoro, in particolare in Italia, è diventato in buona parte autonomo (dai dieci ai dodici milioni di partecipanti alle partite Iva, tra soggetti Iva e collaboratori, secondo i calcoli dello scrivente, Le due facce della luna. Il riformismo nell’economia politica, 2014, par. 59). Per la parte del lavoro dipendente, il lavoro si è spostato sui contratti a tempo parziale, e soprattutto riguarda in maggioranza le piccole imprese, dove il sindacato è, in sostanza, fuori.
La contrattazione collettiva riguarda le grandi imprese del settore privato ed il settore pubblico, e ora è sottoposta a gravi limitazioni per effetto della crisi economica. Angeletti, già leader della Uil, ad un convegno per la presentazione del libro sopra citato (Università di Torvergata, luglio 2015; il resoconto scritto è in questa rivista, n…., 2015; inoltre l’incontro è disponibile su You Tube), ha detto ciò in modo plastico. Egli ha affermato che il sindacato si è sempre occupato dei settori in monopolio, privato o pubblico; quando, con la globalizzazione, il settore privato è entrato in concorrenza, esso si è sentito travolto. Ora opera infatti in maniera residuale, subendo tracolli. Ha subito nel 2011 la riforma delle pensioni, con un innalzamento drastico degli anni per la pensione di anzianità, quando in passato si facevano barricate per innalzamenti minimi. Sta subendo la disoccupazione di massa, senza fare proposte concrete per un suo rientro. I campi della sua azione reale sono svaniti, ed esso non reagisce più. Nella presente congiuntura non tenta neanche di spostare il baricentro della sua azione a livello europeo, per cercare di muoversi nella contrattazione collettiva. A parte le difficoltà di lingua, superabili, ci sono situazioni troppo differenti nei vari paesi. Si pensi alle differenze di livello dei salari tra Italia e Germania. Se si perde anche l’unica possibilità di intervento, che riguarda le percentuali di incremento salariale, indipendentemente dalla base di calcolo, la via resta totalmente preclusa.
Il punto vero è che il sindacato deve uscire dal proprio “privato”, la difesa del lavoro dipendente, elaborando piattaforme di politica economica, in cui inserire le sue rivendicazioni: percentuali di incremento salariale per la contrattazione; tendenza al pieno impiego. Qui c’è il salto culturale da compiere. Lo si deve compiere, perché chi è tenuto a fare le piattaforme di politica economica, i governi, non le fa. I governi dovrebbero interessarsi di deficit, di debito, di pieno impiego, di surplus e deficit della bilancia della dei pagamenti, di struttura fiscale. Si interessano, invece, in Europa, solo del deficit, finalizzato all’eliminazione del debito pubblico, come previsto dai parametri di Maastricht. Nel contempo lasciano maturare un avanzo enorme della bilancia dei pagamenti, senza curarsi della sua distruttività. Non gli importa nulla della situazione dell’occupazione. Sul fisco coltivano l’ideologia dell’imposta progressiva, senza curarsi della sua obsolescenza e della sua inadeguatezza, fin dall’inizio (si veda di nuovo il libro citato, cap.II).
Esistono, e sono ormai urgenti, possibilità alternative. Il deficit pubblico deve essere perseguito, in misura abbastanza elevata, per evitare le crisi economiche nei paesi avanzati. In contemporanea i saggi di interesse, pubblici e privati, devono essere strutturalmente azzerati o ridotti al minimo. Così già accade in Giappone, in Cina, e negli Usa. Bisogna riportare il commercio estero in tendenziale equilibrio, anziché in avanzo strutturale. In avanzo strutturale esso si trova ora, in particolare con la funzione di coprire, in parte, una crisi economica endemica. Se ci si muove in questa direzione diviene assai più facile perseguire il pieno impiego. La contrattazione salariale va governata a livello europeo, stabilendo percentuali di incremento in linea con l’incremento della produttività nei singoli paesi, per evitare l’inflazione (si veda il mio articolo su questa rivista, Le prudenze della Banca d’Italia e le politiche utili per l’Europa, n. 196, Giugno 2017). Infine il fisco va riformulato, permettendo di combattere le nuove rendite, enormi, che si determinano nell’economia. Basta per questo ritornare all’impostazione della struttura fiscale delle imposte dirette ed indirette vigente in Italia fino agli anni settanta del secolo scorso. Aggiungendo la progressività dei contributi sociali, l’intera struttura fiscale risulterebbe fortemente progressiva, e mirata alle rendite della produzione (per un approfondimento, vedi i miei articoli: su questa rivista, Meglio l’Europa Confederata che Federata, n.203, Ottobre, 2017; su Mondoperaio, Cambiare Costituzione, n.11, 2016, pp.32-35).
Il sindacato ha due strade. O stare in linea con l’attuale politica economica, che significa di fatto diventare una struttura profondamente reazionaria, alla ricerca degli oligopoli, per tentare di partecipare alle rendite che in esso si formano. E’ la via che porta ad un crescente odio verso i medesimi, odio che il sindacato cerca ora di mascherare schermandosi dietro alle forze politiche tradizionali di riferimento, contribuendo a trascinarle verso l’irrilevanza. Oppure rendersi conto della via alternativa, i cui fondamenti sono già tracciati dall’evidenza. Deve solo convincersi che la grande stampa massonica è la vera avversaria, e che essa sta tentando di favorire il saggio di interesse, a scapito del lavoro, restato senza veri difensori.
Se chi è nato per difendere il lavoro tradisce il suo obiettivo fondamentale, fallirà anche come organo amministrativo. Dietro agli Stati Uniti d’Europa, con i suoi assurdi parametri di Maastricht, c’è un grande inganno, che ha messo nelle mani degli Usa il potere decisionale della prossima crisi economica, che esploderà se gli Usa, come ripetutamente minacciato, cercheranno di rientrare dal deficit della loro bilancia commerciale. L’Europa, con i suoi grandissimi avanzi commerciali verso gli Usa, è la vittima designata. Se il sindacato, cessando di perseguire l’Unione Europea, come primo obiettivo si pone la Confederazione degli Stati Europei, darà l’occasione per ridiscutere la struttura europea dei parametri. In fondo gli economisti che hanno tracciato la via (Keynes, Sraffa, Steve) sono tutti europei.