Il Servizio Sanitario Nazionale vive da molti anni una crisi profonda, figlia di molte cause e poche soluzioni.
I cambiamenti demografici ed epidemiologici, mai affrontati come positiva occasione di cambiamento ma sempre subiti come irrisolvibile problema e incombente minaccia, il definanziamento pubblico e il costante aumento della spesa privata, lo spezzatino regionale e il localismo irresponsabile, l’assenza di politiche chiare e lungimiranti su temi fondamentali, dagli investimenti al personale, la costante subalternità a logiche neoliberiste di strisciante privatizzazione, l’insufficiente determinazione con cui si definisce e si persegue una prospettiva di medio lungo periodo, compongono un elenco parziale delle malattie croniche della sanità italiana.
La debole e transitoria euforia per lo scampato pericolo post pandemia, che si è diffusa nel paese più velocemente delle più diffusive varianti virali, ha relegato tra addetti ai lavori e in circuiti tecnici ristretti alcune lezioni che viceversa dovrebbero saldamente rimanere ai primi posti dell’agenda politica e di governo nazionale, per supportare decisioni e azioni necessarie e urgenti. Purtroppo così non è.
Il SSN – e in particolare la rete ospedaliera, nonostante una dotazione di posti letto di 3.1/1000 abitanti inferiore alla media OCSE di 4,3, per non dire della Francia a 5.7 e della Germania a 7.8- si è dimostrato in più di due anni di inaspettata e terribile tempesta, l’infrastruttura più solida del paese, capace di reggere l’inimmaginabile perché animata da centinaia di migliaia di donne e uomini competenti, responsabili verso la comunità fino al sacrificio personale, consapevoli di essere l’ultimo argine che non poteva cedere.
Oggi questi professionisti della salute sono logori e disorientati.
Logorati dalla fatica fisica e psichica della pandemia che ha culminato il lento e inesorabile processo di riduzione del finanziamento della sanità pubblica che data da più di due decenni e che relega l’Italia ad una spesa pro capite a parità di potere d’acquisto di 4.291 dollari, un dato che continua ad assestarsi sotto la media OCSE di 4.986 dollari. Il confronto resta impietoso rispetto ai grandi Paesi europei come la Germania che spende quasi il doppio (8.000 dollari) e la Francia (6.630). Spende più dell’Italia anche la Spagna con 4.432 dollari pro capite. Non proviamo nemmeno a risalire la china vista la previsione di riduzione del finanziamento in rapporto al PIL nei prossimi anni. La nota di aggiornamento del Def per il periodo 2023-2025 prevede una costante riduzione della spesa sanitaria annuale pari all’1.13 % e un rapporto tra spesa sanitaria e Pil che entro il 2025 scenderà al 6 %, un livello notevolmente inferiore rispetto ai dati pre pandemia.
Magra consolazione; possiamo considerarci “il primo dei paesi poveri”.
La scarsità di risorse, politiche sanitarie senza visione e senza innovazione, gestioni locali spesso inefficienti quando non penalmente rilevanti hanno grandemente indebolito la struttura del SSN. Dal 2000 al 2019 un calo di più di 80.000 posti letto di degenza ordinaria (272.000 contro 190.000), Dal 2007 al 2019 – 50.000 unità di personale (- 4500 medici – 7.700 infermieri), oltre 300 ospedali chiusi in venti anni (1.321 nel 2000 – 992 nel 2019). Non pochi medici – intesi come laureati in medicina e Chirurgia – (4.1/1000 abitanti, dato superiore rispetto alla media OCSE di 3.7) ma con una carenza di specialisti e l’età media più alta tra tutti i paesi OCSE: ben il 56% ha più di 55 anni.
Per contro una grave carenza di infermieri: 6.2/1000 abitanti a fronte di una media OCSE di 9.2/1000 abitanti.
Tutto ciò mentre l’assistenza territoriale si dimostrava sempre più fragile, primo argine a crollare durante la pandemia, con i medici di base sempre più soli e i pronto soccorso in perenne emergenza.
Queste condizioni causano rischi per la tenuta del sistema che non vanno sottovalutati. In primis l’aumento di persone che a causa del costo della compartecipazione alla spesa o a causa delle difficoltà all’accesso rinunciano alle cure. Nel corso del 2020 secondo i dati Istat il 7% della popolazione italiana ha dovuto rinunciare a cure mediche essenziali a causa dei costi elevati o delle lunghe liste d’attesa, coinvolgendo così ben quattro milioni di cittadini. Nel 2021 i cittadini italiani hanno speso un totale di 41 miliardi di euro per le proprie cure, con una media di 623 euro pro capite. Questo crescente fenomeno mina la fiducia nella capacità del SSN di soddisfare la funzione che gli è propria: dare ad ogni persona la serenità di non dovere essere costretto a scegliere tra curarsi e sostenersi e la consapevolezza che la risposta appropriata viene da un sistema che non fa distinzione tra ricco e povero.
Non vanno negati gli sforzi e gli incrementi realizzati durante gli anni della pandemia (finanziamento, personale, posti letto di terapia intensiva) sostenuti più dallo stato di necessità che da scelte strategiche di lungo periodo, ma sono stati transitori e insufficienti per affrontare il futuro prossimo, che è già chiaro.
Da questo contesto, i professionisti della sanità pubblica se ne vanno, o non arrivano nemmeno. Le stime più attendibili prevedono nel periodo 2019 – 2024, tra pensionamenti, dimissioni volontarie e nuove attività legate alla pandemia e al potenziamento della assistenza territoriale, una carenza di circa 40.000 medici specialisti. Ogni anno almeno mille medici vanno all’estero, a questi se ne aggiungono circa 2000 che ogni anno lasciano il servizio pubblico per andare a lavorare nel privato o a fare il “gettonista”.
Già oggi nei pronto soccorso mancano all’appello 4.500 medici. È stato ormai raggiunto un vero e proprio “punto critico” che rappresenta una vera “emergenza nazionale” in cui il sistema di emergenza-urgenza è al collasso nonostante l’abnegazione e la dedizione costanti di tutto il personale, sistema che non può più sopportare un lavoro in “isorisorse” né di lavorare sempre di più e più velocemente.
Le cause non sono solo economiche, pur essendo le retribuzioni del personale sanitario inferiori alla media dei Paesi dell’Europa occidentale e con scarsissime possibilità di incremento nei prossimi anni. Condizioni di lavoro inadeguate, stress lavoro correlato a diffusi fenomeni di burn-out tagliano le radici delle motivazioni personali e negano il riconoscimento sociale causando effetti nocivi sulla salute del personale sanitario sino a determinare – come evidenziato da innumerevoli studi nazionali e internazionali – una diminuzione dell’aspettativa di vita dei medici.
Inoltre, anche nelle realtà regionali e aziendali più solide, è nota l’estrema difficoltà che si incontra nel reclutamento di specialisti e di numerose altre professioni sanitarie, in conseguenza della errata programmazione e dell’insufficiente finanziamento del sistema formativo nell’ultimo decennio.
Dei 191 miliardi del PNRR solo poco più di 15 sono stati destinati alla sanità, circa l’8%, di questi una minima parte è stata sinora spesa e comunque esclusivamente per investimenti, opportunamente orientati alla necessaria riforma dell’assistenza territoriale consentiranno di costruire case della comunità e acquisire tecnologie, prevedibilmente in quantità insufficiente, ma non serviranno ad assumere personale sanitario, in particolare ospedaliero.
A ciò si aggiunge il necessario recupero delle prestazioni sanitarie arretrate- ambulatoriali e chirurgiche – accumulate a causa della pandemia costituisce un problema nel problema, stretto tra insufficienti risorse e rancore sociale scarica su medici e infermieri aspettative e responsabilità difficilmente sostenibili.
La sanità è un settore ad elevata intensità di lavoro e ad altissima concentrazione di competenze.
Da anni i professionisti del SSN sono sempre meno numerosi, sempre più anziani, sempre più precari, con responsabilità spesso non formalmente attribuite e con contratti rinnovati – quando accade – molti anni dopo la scadenza.
Ancor più grave è lo scarso riconoscimento del valore del lavoro che svolgono, nonostante la maggior parte di loro si impegni quotidianamente all’interno di un sistema sempre più in difficoltà.
Gli elementi critici si sovrappongono e potenziano a vicenda: la colpevole mancanza di qualsiasi programmazione della formazione e dei percorsi di accesso al lavoro, la riduzione del personale dipendente e l’incremento dell’età media, le esternalizzazioni e tutte le forme di precariato, le condizioni di lavoro demotivanti e la svalutazione del lavoro di cura, sono alcune delle cause reali che indeboliscono la rete di servizi a più elevato contenuto di competenze e alimentano malcontento e frustrazione.
A queste analisi di natura strettamente sanitaria e professionale si aggiunge un rischio sistemico che incombe sull’intero sistema Paese: il disegno di legge sull’autonomia differenziata, all’esame del Senato, un vero e proprio suicidio sociale oltre e prima che professionale e sanitario. Sottraendo al diritto alla salute una dimensione nazionale si mette in crisi il Ssn e anche un’idea unitaria di Paese, di Repubblica e di Stato. Rafforzare il regionalismo in sanità significa insistere su una strada sbagliata, perché la sanità rappresenta da tempo un laboratorio per misurare la capacità dello Stato di ridurre le diseguaglianze regionali, e in particolare il gap strutturale Nord-Sud. Oggi le distanze tra le varie aree del paese si misurano non solo in km ma in aspettativa di vita (minore al Sud di 4 anni), tassi di mortalità evitabile (maggiori al Sud), speranza di vita in buona salute (20 anni tra i due estremi) mortalità infantile (doppia al Sud), mortalità materna al parto (maggiore al Sud). Così come nei servizi sociali il divario è enorme, tra i 583 euro spesi per abitante di Bolzano e i 53 di Messina. Rendere l’acceso alle cure e i loro esiti, funzioni della residenza e del reddito equivale a trasformare la sanità in un bene pubblico per i residenti in una Regione e un bene di consumo in altre Regioni, realizzando la cosiddetta “secessione dei ricchi”, come definita dallo studioso Gianfranco Viesti, che ha una sola finalità: alimentare quelle diseguaglianze negli esiti di salute tra i territori che il governo dichiara di voler abbattere. Il federalismo in sanità è fallito.
Si presti ascolto alle parole del Presidente Mattarella nel discorso di fine 2022: “Le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese – tra Nord e Meridione, per le isole minori, per le zone interne – creano ingiustizie, feriscono il diritto all’uguaglianza.” Aggiungendo che: “Occorre operare affinché quel presidio insostituibile di unità del Paese rappresentato dal Servizio Sanitario Nazionale si rafforzi”.
Questo contesto aggiunge disorientamento alla stanchezza, nega una prospettiva accettabile su cui investire il proprio futuro umano e professionale, alimenta frustrazioni che indeboliscono senso di appartenenza e identificazione con i valori della sanità pubblica.
La classica domanda…che fare? ha alcune possibili risposte…se abbiamo imparato la lezione.
Prendo in prestito le parole di un caro amico, Giovanni Bissoni “E’ da tempo che la sanità pubblica, patrimonio indispensabile per un paese civile non ottiene la giusta attenzione. Oggi il vero pericolo è la privatizzazione e la perdita del S.S.N.”.
È necessario opporsi a questo declino – manifesto ma evitabile – riaffermando e rilanciando la capacità del Servizio Sanitario Nazionale di elaborare e realizzare politiche sanitarie all’altezza delle sfide presenti e future. Questa necessità, da tempo presente, è divenuta urgente e imperativa con la pandemia che segna il confine tra ciò che non deve più accadere e ciò che saremo capaci di far accadere.
Prima delle proposte è necessario animare e promuovere una vasta consapevolezza sociale che sia luogo di condivisione e mobilitazione. Le riforme degli anni settanta non sono capitate per caso, né tantomeno sono una gentile concessione dei governi di quegli anni, ma sono il risultato di solide elaborazioni e anni di aspri confronti e proteste civili.
È necessario unire i medici e gli operatori sanitari, oggi divisi da logiche individualiste e difese corporative, su obiettivi comuni di difesa e innovazione del SSN, di migliori condizioni di lavoro, di esigibili diritti di salute per tutta la comunità nazionale.
Occorre rinnovare il ruolo di guida nazionale nella difesa del diritto alla tutela della salute, l’unico che la Costituzione dichiara fondamentale per tutti gli individui e interesse della collettività, accelerando nell’innovazione delle politiche e dell’organizzazione, partendo da problemi reali di grande rilevanza.
Il principale dei quali è la cura del capitale umano perché la mancanza di una seria politica del personale sta mettendo in ginocchio l’intero sistema sanitario: la formazione, il reclutamento, la valorizzazione, la fidelizzazione dei professionisti della salute che lavorano per il Servizio Sanitario Nazionale, costituendo la risorsa prioritaria di questo complesso e prezioso sistema di strutture e servizi, unica garanzia dell’accesso “universale” all’erogazione “equa delle prestazioni sanitarie” in attuazione del dettato costituzionale.
E’ necessario ricostruire una prospettiva positiva e un clima di fiducia tra i professionisti del Servizio sanitario nazionale uscendo da una palude d’incertezze e subalternità.
Occorre rilanciare l’orgoglio di appartenenza di chi non solo resiste meglio degli altri ma sa vedere più lontano e costruisce progetti e soluzioni che innovano e migliorano le condizioni di lavoro di tutti i professionisti.
In questa prospettiva alcuni temi diventano prioritari e alcune proposte ineludibili.
Bisogna trovare una nuova via alla formazione, di base e specialistica, delle professioni sanitarie. È il SSN che deve occuparsi della formazione dei propri professionisti (come fa qualunque impresa che opera in qualunque altro settore dell’economia). Il servizio sanitario non può più pagare il prezzo della disastrosa sinergia tra la scellerata programmazione nazionale e l’indifferente monopolio delle Facoltà mediche.
Vanno costruiti percorsi di formazione, reclutamento e inserimento al lavoro nel servizio sanitario regionale più celeri e diretti, che soddisfino le esigenze di sostenibilità del servizio sanitario e le aspirazioni dei giovani professionisti, invertendo una deriva d’impoverimento e in alcuni casi di vera e propria fuga.
È necessario e urgente avviare uno straordinario piano di reclutamento che deroghi agli attuali vincoli (titolo di specialista come requisito d’accesso) valorizzando le fresche competenze, le grandi energie e l’intatto entusiasmo dei laureati in Medicina e Chirurgia, garantendo loro un percorso di specializzazione interno al SSN.
Una rinnovata attenzione va posta ai contesti organizzativi, all’interazione/integrazione multi specialistica e multi professionale, alla valorizzazione delle competenze e ai mutamenti indotti dalla potentissima innovazione tecnologica, alla transizione demografica che richiede nuovi assetti assistenziali affidati a professionisti con competenze specifiche e autonoma responsabilità. Confrontarsi con le migliori esperienze internazionali per alimentare innovazione e miglioramento continuo dei servizi è interesse dei professionisti e della comunità.
La valorizzazione non formale dei professionisti del servizio sanitario richiede anche il riconoscimento di un più chiaro ruolo d’attiva partecipazione e responsabilità alla vita delle aziende. Non è in discussione e non va confusa la naturale e positiva azione svolta dalle rappresentanze sindacali, di ordini e collegi, ma il servizio sanitario è un’intelligenza collettiva, una concentrazione senza pari di cultura e competenze che va ascoltata, resa partecipe e utilizzata nei processi decisionali, senza confusione di ruoli e timori di disfunzioni organizzative.
Quale “prescrizione” per curare chi si prende cura dei cittadini?
Nell’immediato, lanciando un piano straordinario di reclutamento e premialità di tutte le figure professionali del SSN, superando vincoli e incompatibilità che in una condizione di emergenza non ci possiamo permettere, finanziandolo adeguatamente incrementando la dotazione del FSN.
Con continuità, sostenendo politiche di valorizzazione del Servizio sanitario nazionale pubblico come elemento prioritario di solidità e crescita del paese, promuovendo la formazione e lo sviluppo di competenze innovative, l’integrazione multiprofessionale e il confronto imitativo con le migliori esperienze organizzative internazionali.
In prospettiva, rivendicando e proteggendo ogni giorno politiche per la salute all’altezza dei diritti e del valore delle persone, quelle che hanno bisogno di cure e quelle che si prendono cura.
*Direttore Dipartimento Chirurgico e Grandi Traumi; Direttore U.O. Urologia – Cesena – Ausl della Romagna; già Assessore Politiche per la Salute Regione Emilia Romagna