dalla Newsletter n. 50 del 20/07/2010
Quando un argomento diventa troppo caldo, come è avvenuto nel caso Pomigliano, occorre imporsi un po’ di freddezza; ed anche un po’ di distanza psicologica di fronte alle emozioni mediatiche che il caso ha provocato. Naturalmente si corre il rischio di essere accusati di sfuggire ai problemi ed alle tensioni sul tappeto, ma è un rischio che sento di dove correre, anche per argomentare una convinzione che esprimo con piattezza: Pomigliano è regola per il futuro.
Si tratta di una convinzione che viene dalla constatazione che il nostro sistema d’impresa (ma anche quello degli altri paesi avanzati) esprime oggi un orientamento strategico preciso: il primato dell’egoismo aziendale.
Mi spiego meglio, partendo dallo sviluppo industriale di tutto il nostro lungo dopoguerra, che aveva come compagno di strada il primato dell’occupazione: più imprese, più produzione, più occupati, questo era il significato profondo dello sviluppo, fino a quasi tutti gli anni ’80.
Poi, quasi con violenza, si è puntato sulla identificazione dello sviluppo con il primato dell’interesse dei consumatori. Ricordiamo tutti, a livello alto, le sollecitazioni di studiosi ed opinionisti a fare mercato, concorrenza, efficienza produttiva, in modo che i consumatori potessero usufruire a basso costo di prodotti di qualità; e ricordiamo tutti, a livello più basso, la grande saga della centralità del consumatore gestita in modo quasi ossessivo dall’apparato mediatico sulle sue diverse componenti. Con le imprese affannate a difendersi o a rincorrere una fantomatica “customer satisfaction”.
Queste due grandi logiche dello sviluppo industriale recente (fare occupazione e fare soddisfazione del cliente) sono state certamente alla base del grande consenso sociale che il nostro sistema di imprese ha ottenuto negli ultimi decenni. Ma anche un antico cultore del sociale come il sottoscritto non può non registrare che quel consenso è costato spesso molto alle imprese e che quelle due logiche hanno compresso, talvolta in maniera drastica, la loro capacità espansiva, la loro stessa aggressività strategica. Non volevano dare l’impressione di “fregarsene” dei problemi occupazionali (specialmente le piccole imprese, dove il rapporto umano è dominante) ed hanno quindi tentato di tutto per tener stabile la forza lavoro, magari con qualche “aiutino” di cassa integrazione; e non potevano dare l’impressione di prescindere dalle attese, specialmente di prezzo, dei consumatori ed hanno quindi tentato di articolare e moltiplicare la loro gamma di prodotti, anche con qualche relativo rischio.
Prigioniere del passato, si potrebbe dire delle nostre imprese. O, più correttamente, prigioniere della coazione a rispondere al duplice primato del fare occupazione del fare soddisfazione del cliente. Ma nel fondo della loro evoluzione è andata maturando la convinzione che è tempo di aver presente un terzo primato: quello dell’egoismo dell’impresa. Non solo nel management aziendale ma anche nell’opinione pubblica più direttamente coinvolta (il mondo delle banche come quello dell’associazionismo imprenditoriale) si comincia ad affermare la convinzione che l’unico “bene” di una azienda è la sopravvivenza, l’esistenza e lo sviluppo della stessa, senza tanti riguardi per gli altri protagonisti, occupati o consumatori che siano.
Nella società degli egoismi in cui viviamo cresce quindi l’egoismo aziendale, ma meno virulento di quello urbano (pensiamo a quanto le città siano oggi decisissime a far di tutto, dalle Olimpiadi alle Expo, per avere occasioni di propria valorizzazione). È un egoismo sulla cui base la strategia aziendale si sente libera da ogni condizionamento; fa le sue scelte con un coraggio non lontano dall’improntitudine; pone le condizioni su cui fare i successivi confronti politici e sindacali; arrischia anche l’accusa di ricatto (o si fa così o si va altrove), affrontando accuse e rabbia di vari tipo. Sa che le cosiddette condizioni globali giocano a favore dei propri interessi, visto che l’internazionalizzazione permette di ricreare il binomio “occupazione e consenso dei consumatori” in ogni altra parte del mondo, senza dover tener conto dell’identità nazionale dell’azienda e dei poteri nazionali che possono premere sulla sua strategia.
Libertà quindi (soggettiva ed oggettiva) di egoismo, aziendale. E non c’è da meravigliarsi se qualche capo-azienda se la prende, tale libertà; specialmente se, come nel caso di Pomigliano, l’attività produttiva non ha un vincolo territoriale cogente, come è ad esempio per una banca, una compagnia assicurativa, un’azienda di servizi pubblici locali; l’attività produttiva segue solo il primato della egoistica strategia aziendale. E ciò vale, naturalmente, non solo per la sua dislocazione territoriale, ma anche per la sua organizzazione interna, per le sue politiche del personale, per isuoi orientamenti contrattuali, al limite per la sua stessa configurazione societaria (la new-co di cui a Pomigliano si è immaginata la costituzione).
Per questo all’inizio ho scritto che Pomigliano è regola per il futuro. Può spiacere, questa affermazione, può essere sentita come socialmente e politicamente inammissibile; ma la prospettiva è obbligata. Contrastarla, se la si vuole contrastare, è impegno difficilissimo e tutto da costruire, perché il quadro “macro”, economico e geopolitico, da cui è supportata rende poco utili gli strumenti di cui tradizionalmente disponiamo, dalle pressioni politiche alle lotte operaie, dall’opinionismo di vertice alle mobilitazioni territoriali. Arrendersi non è consentito, ma occorrono strategie più complesse e più fredde.
(*) Presidente CENSIS