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In ricordo di Giovanni Falcone. Intervista a Vincenzo Musacchio

Il criminologo, che con il giudice ebbe un rapporto epistolare, lo ricorda nel trentunesimo anniversario del suo assassinio assieme a sua moglie Francesca Morvillo  e ai tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. 

Professore, a trentuno anni dalla morte di Giovanni Falcone non sappiamo ancora il vero motivo del suo assassinio, come se lo spiega?

Dal suo ingresso nel Pool Antimafia di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone iniziò a demolire, picconata su picconata, il potere – fino ad allora assoluto – della mafia. Con il maxiprocesso raggiunse il suo obiettivo. Diciannove ergastoli, oltre quattrocento condanne, duemila anni di carcere. È stato, sembra ombra di dubbio, una spina nel fianco dei boss mafiosi e dei loro sodali. 

Con Paolo Borsellino fu anche l’anima più autentica del pool guidato da Antonino Caponnetto. La giustizia ci ha confermato che fu Salvatore Riina a decidere la morte di Giovanni Falcone. In realtà la sua morte, come quella di Paolo Borsellino e di Rocco Chinnici, a mio parere, non furono soltanto una vicenda di mafia. Il pool, guidato da Chinnici prima e Caponnetto successivamente, era arrivato ad accertare l’esistenza di livelli apicali: il cd. “quarto livello”. Qualcuno molto più in alto di Totò Riina probabilmente ha deciso che ci si fermasse al livello mafioso, che è stato però solo l’ambito in cui questi omicidi sono stati eseguiti. Esiste sicuramente un livello superiore che quantomeno ha dato l’ispirazione e ha agevolato le stragi. Lo stesso Rocco Chinnici, per bocca del figlio Giovanni, parlava già ai suoi tempi del “quarto livello” che secondo lui altro era il livello delle istituzioni e dell’alta politica. I tanti processi hanno certamente portato alla luce una verità processuale, hanno lasciato però tante zone d’ombra che attendono una risposta da tanti, troppi anni.

Quali sono queste zone d’ombra?

Credo ruotino tutte intorno ad un interrogativo: fu solo Cosa Nostra a volere la morte del giudice antimafia più famoso al mondo? I misteri restano tanti. Giovanni Brusca, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, hanno sempre smentito presenze esterne nel commando mafioso. Nel corso del processo d’appello tuttavia è stato sentito un nuovo collaboratore di giustizia, Pietro Riggio, il quale invece afferma che ad azionare il telecomando nella strage di Capaci non sarebbe stato Giovanni Brusca ma soggetti esterni a Cosa Nostra. L’idea che la strage di Capaci sia stata solo un fatto di mafia, immune da contaminazioni esterne, contrasta anche con le dichiarazioni rese, nel corso della sua collaborazione con la giustizia, da un boss di primaria importanza che era stato capo del mandamento di Caccamo, Antonino Giuffrè. Il collaboratore di giustizia parla espressamente di “sondaggi con persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico. La mafia ha sempre condiviso interessi comuni, con ambienti dell’economia, della politica, delle professioni, della magistratura e dei servizi deviati. I dubbi, dunque, restano e il decorrere del tempo purtroppo li rende sempre più forti allontanando così l’accertamento della verità fattuale. 

L’isolamento a cui fu costretto Giovanni Falcone ha influito sulla sua morte?

È stato determinante. L’isolamento è sempre il frutto di un ambiente in grado di rendere vittime potenziali proprio i rappresentanti dello Stato. Questa condizione è stata più volte denunciata proprio da Giovanni Falcone, il quale, analizzando con la sua competenza i vari delitti di matrice politica commessi da Cosa Nostra, nel suo libro “Cose di Cosa Nostra” scrive lucidamente: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Questa frase, in un certo senso, è una parte del suo testamento lasciato ai posteri: “Morirò perché sarò lasciato solo proprio da chi invece dovrebbe difendermi e proteggermi”.

Un’ultima domanda. Professore, come sarebbe stata l’Italia con Falcone ancora in vita?

Più volte ho immaginato Giovanni Falcone Ministro della Giustizia e Paolo Borsellino Procuratore Nazionale Antimafia. Sono certo che oggi avremmo vissuto in un Italia diversa. Se i due magistrati fossero restati in vita più a lungo, avrebbero potuto sviluppare a fondo le loro doti investigative sulla frontiera innovativa che stavano portando avanti con determinazione, competenza, coraggio e intelligenza. Avevano già instaurato sul fronte della lotta alle mafie contatti e rapporti nazionali e internazionali che già configuravano un nuovo modello di lotta al crimine organizzato transnazionale. Se avessero continuato per la loro strada avrebbero sicuramente inferto un colpo mortale e probabilmente definitivo alle mafie nel nostro Paese. Con Falcone e Borsellino vivi, la storia dell’Italia sarebbe stata sicuramente diversa.

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). È ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ottanta. È tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali. Esperto di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto europeo di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative in ambito europeo.

Dal sito: www.rainews.it

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