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Inno alla gioia

E’ dal 27 maggio che, non solo nel nostro Paese, si è levato alto e forte un inno alla gioia per l’Europa. Finora si seguiva distrattamente nelle cerimonie ufficiali, più per dovere che per piacere. Adesso, tanto Beethoven quanto i Capi di Stato – che nel 1985 adottarono il finale (solo musicale) della nona sinfonia come “inno all’unità nella diversità” – si possono sentire più in famiglia. Il coro, verbale e scritto, di consensi alla Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen e al Recovery Plan presentato al Parlamento Europeo è stato sorprendente e quasi unanime.

La sorpresa, non da tutti sottolineata, è che la Commissione diventa soggetto di emissione di bond per conto di tutti gli Stati. Si affaccia finalmente un grumo di politica economica europea; quel mestiere sempre sollecitato da Draghi a complemento della politica monetaria della BCE e mai ascoltato dai rappresentanti degli Stati. Si sono nascosti sempre dietro l’unanimismo delle decisioni e non sono mai riusciti a fare un passo in avanti in tal senso. Ora, la spinta decisiva è venuta dalla proposta franco-tedesca, ma anche dalla consapevolezza che le regole del passato erano state spazzate via da una “forza” che aveva colpito tutti, senza responsabilità di nessuno.

L’unanimità su questo storico cambio di rotta non è ancora a portata di mano. Ma i Paesi “tirchi” hanno le cartucce bagnate. L’austerità non può essere invocata; tutti i Paesi chiuderanno il 2020 con il segno negativo del PIL. E non è detto che nel 2021 torni quello positivo. La solidarietà espressa al massimo con i prestiti è troppo tradizionale, per reggere l’offensiva del buon senso. Ma soprattutto tutto il mondo produttivo, civile e culturale – dagli imprenditori ai sindacati di tutti i Paesi, dagli intellettuali ai principali media continentali – si è speso per un rilancio dell’Europa come entità politica di intervento autonomo. Ci vorrà ancora un lavoro di rifinitura, ma è ragionevole pensare che i residui mal di pancia rientreranno e a metà giugno il disegno di politica economica dell’Europa prenderà corpo. Con buona pace dei “sovranisti” in circolazione nell’Unione.

La massa di denaro che potrebbe arrivare in Italia è enorme. Di per sé potrebbe soddisfare le esigenze di un programma poliennale di ammodernamento del Paese e nello stesso tempo di riduzione delle diseguaglianze. Eppure conviene usare il condizionale. Una sana ed efficace utilizzazione di queste risorse ha bisogno di alcune condizioni preliminari.

La prima, non se ne parla ancora abbastanza, riguarda il fattore tempo.  Non è irrilevante. Il flusso degli aiuti, specie se non si fa ricorso al MES, inizierà il prossimo anno, se tutto va liscio. Ma fra qualche mese, in quali condizioni saranno le casse dell’Agenzia delle entrate e dell’Inps? I versamenti fiscali e contributivi sono in veloce riduzione e nulla fa ritenere che i sostegni ai redditi potranno diminuire a breve. D’altra parte, i fondi MES e Recovery non hanno una destinazione assistenziale e l’emissione di titoli pubblici assorbiti dalla BCE sono sempre sotto la spada di Damocle dei mercati finanziari. Si porrà quindi una difficilissima questione di ricerca di risorse “domestiche” – soprattutto attraverso la fiscalità – per evitare che il disagio sociale si trasformi in problema di ordine pubblico.

La seconda riguarda la trasparenza dell’utilizzo delle risorse in arrivo e la credibilità dello Stato. Al primo caso di infiltrazione delle mafie nei canali di finanziamento europei, è il Paese che ne pagherà le spese. Non possiamo dare alibi a chi pensa che non siamo in grado di ridurre il lavoro nero, che non sappiamo combattere l’evasione fiscale, che non abbiamo il pugno di ferro verso l’eversione criminale. Forse è il momento di prestare ascolto a Gratteri, a don Ciotti, a Saviano per non far correre a tutti noi l’alea di perdere la faccia in Europa.

La terza condizione è che tutti vanno assistiti, se ne hanno effettivamente bisogno, ma non tutti possono tornare a fare quello che facevano prima. Chi lo sostiene, sa di non poter mantenere la parola. Dobbiamo necessariamente pensare ad un futuro diverso, fatto di un mix di consumi di qualità; di ambienti – dalla casa alla fabbrica – che non sprechino energia e cooperino a salvare il pianeta; di stili di vita sobri e dignitosamente diffusi; di servizi pubblici – a partire dalla sanità – non buoni ma eccellenti; di “pivot” nazionali in tutti i settori di nuova rigenerazione, perché piccolo è bello ma anche fragile; di aiuti in beni e servizi alla persona che valorizzino il “sapere per saper fare” per non  essere emarginati dalla velocità del cambiamento tecnologico; di lavori antichi e nuovi ma tutti più ricchi di competenze e partecipazione, interconnessi con un sistema formativo continuo, dalla tenera età alla quarta età, potenziato e aggiornato; di tempi di lavoro e di vita che non facciano a cazzotti tra loro, che non penalizzino le donne, che lascino spazi alla redistribuzione degli orari per far crescere l’occupazione giovanile.

Troppa carne al fuoco? No, dobbiamo imparare a correre, a dare addosso alle rendite di ogni tipo – da quelle burocratiche, a quelle finanziarie, a quelle immobiliari, a quelle professionali – a riprendere lo spirito che nel dopoguerra i nostri padri e madri seppero esprimere per riscattarsi da un dramma bellico che il fascismo aveva ciecamente perseguito. 

La pandemia di questi mesi non deve essere ricordata perché ci ha costretti a chiuderci in casa, ma perchè ci ha costretti a prendere per i capelli un destino che già ci stava sfuggendo di mano, che già stava subendo le conseguenze di frustrazioni e disimpegni. C’è una lunga transizione da realizzare, ma è l’unico modo per onorare i morti di covid 19 (e non di paura, come qualche scemo urla in piazza e sproloquia nei talk show) e soprattutto ci possa far gustare veramente l’inno alla gioia. 

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