Il lavoro cambia e non si può evitare di tenerne conto. Il cambiamento è rischioso, ma ben più rischiosa è la tentazione di fermarlo. Nelle economie moderne l’elemento strategico fondamentale, il vero fattore competitivo non è più la dotazione di risorse ma la capacità di utilizzarle, che possiamo sinteticamente definire con il termine conoscenza – in un’accezione tutt’altro che teorica.
Nel mondo globalizzato si affermano i paesi che più si rivelano dotati di conoscenza perché meglio dimostrano di saper gestire le risorse, nazionali e globali. Diventa necessario adottare la prospettiva in cui creazione, acquisizione e trasmissione di conoscenza – ovvero i processi di ricerca e di apprendimento – assumono rilevanza economica cruciale; e, di conseguenza, adottare della conoscenza una visione processuale, effettuale e sociale, che inquadra l’apprendimento come processo collettivo. Un processo che, ad esempio, individua la capacità del lavoratore di applicare, in associazione con altri, la propria intelligenza e i risultati della ricerca al conseguimento di obiettivi desiderabili a livello di team di lavoro, reparto, impresa, territorio, Paese.
L’attenzione internazionale al tema dell’accumulazione e della valorizzazione del capitale umano segnala quanto forte sia il riconoscimento della centralità della conoscenza ai fini del progresso sociale ed economico. Le prospettive di sviluppo delle economie avanzate vengono ormai collocate quasi esclusivamente nell’ambito dell’“economia della conoscenza”. Per le agenzie sovranazionali (ma non ancora per la politica nazionale e locale), la convinzione che la conoscenza sia diventata il vero fattore competitivo è ormai acquisita. A fronte di questo diffuso consenso internazionale l’economia italiana, che questo indirizzo ha mostrato di tenere in considerazione modesta, ha sinora ottenuto risultati problematici. Quali le difficoltà a imboccare il cammino dell’economia della conoscenza?
La spettacolare diffusione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione consente ovunque alla conoscenza di essere creata, valutata, scambiata e diffusa, in misura assai maggiore di ieri, in tempi e con costi prima semplicemente impensabili. Ma l’informazione non è conoscenza e non va in alcun modo confusa con essa. Su livelli crescenti di complessità, e di relativa 2 scarsità, si collocano anzitutto il dato, poi l’informazione, solo dopo, molto più in alto, la conoscenza, e più in alto ancora la sapienza. Quest’ultima si può definire come la capacità di combinare e utilizzare diverse conoscenze (e quindi, attraverso di esse, diverse risorse, locali e globali) ai fini del progresso materiale e morale degli individui e della società. Non è difficile comprendere quanto questo quarto grado della piramide sia arduo da raggiungere nelle società odierne, dominate da interessi economici sempre più forti e da visioni troppo spesso di breve periodo. Il difficile cammino che porta alla sapienza è peraltro ostacolato dall’insorgere di fenomeni di entropia informativa, con la diffusione di una mole senza precedenti di informazione priva di strumenti di decodifica, che non perviene al livello della conoscenza ma la simula, portando l’opinione pubblica a valutare positivamente scelte che non recano alcun progresso, né materiale né etico.
In questo schema l’apprendimento occupa due snodi cruciali: anzitutto la trasformazione dell’informazione in conoscenza e, quindi, l’ancor più cruciale trasformazione della conoscenza in sapienza. L’informazione assume valore in quanto l’apprendimento può trasformarla in conoscenza, ma anche la conoscenza non ha valore in sé ma solo in quanto può fondare, attraverso l’apprendimento, la sapienza, e produrre così sulla realtà effetti desiderabili.
Dunque oggi l’informazione, disponibile a costi e in quantità prima impensabili, rende possibili (ma non per questo automaticamente acquisiti) sviluppi formidabili della conoscenza in tutti i campi dell’azione umana, rendendola il vero e concreto fondamento, la vera materia prima del progresso sociale ed economico. Questa constatazione non vela però che piena partecipazione all’economia moderna, progresso, competitività, occupazione e qualità del lavoro non dipendono soltanto dalla capacità dei sistemi di istruzione e ricerca di creare conoscenza; ma, in misura altrettanto ampia, dalla capacità di imprenditori, lavoratori e consumatori di apprendere ad applicare (con sapienza) la conoscenza al lavoro e all’economia, alla produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi di mercato.
L’innovazione organizzativa, in qualunque versione la si declini, attribuisce dunque oggi il ruolo centrale alla gestione della conoscenza all’interno del processo produttivo al fine di trasformarla in competenza, innescando un ciclo di apprendimento secondo la logica della learning organization: espandere continuamente la capacità dell’impresa di creare il proprio futuro e aumentare 3 continuamente, attraverso l’apprendimento, la capacità dei lavoratori di raggiungere i risultati che si prefiggono.
Ma creazione, condivisione e utilizzazione della conoscenza nell’impresa e tra le imprese, per migliorare processi, prodotti e organizzazione, sono processi impegnativi, che comportano investimenti, frizioni e costi di transazione spesso elevati. E i risultati sono quelli attesi solo se si diffonde tra i lavoratori la motivazione necessaria a trasformare la conoscenza in competenza, il lavoro in continua capacità di miglioramento. La costruzione di questa motivazione richiede che la conoscenza venga considerata e gestita come un bene comune: ai lavoratori e all’impresa. È questo il tema nascosto (ma non troppo), tanto dell’attuale stagione contrattuale quanto del dibattito sulla riforma del sistema di relazioni industriali aperto dal sindacato confederale con la piattaforma unitaria del 25 gennaio.
Contratti e relazioni industriali per innovarsi davvero devono acquisire il principio che, per ridurre le tensioni e i costi di piena utilizzazione della conoscenza, i lavoratori debbono potersi identificare come appartenenti ad una comunità. In generale infatti (come già aveva pienamente compreso negli anni ’50 del secolo scorso l’imprenditore Adriano Olivetti), lo sviluppo dell’innovazione (ovvero dell’applicazione della conoscenza) richiede che i lavoratori riconoscano la conoscenza come un patrimonio comune, da accrescere e gestire assieme all’impresa: un patrimonio cui tutti possano attingere e al quale tutti siano chiamati a contribuire; e possano quindi riconoscere l’innovazione che ne deriva come il frutto, anche economico, di quel comune patrimonio.
È questo il significato profondo, questo il vero obiettivo di ogni innovazione organizzativa, di ogni modello avanzato di gestione delle “risorse umane” e delle relazioni industriali. Il ruolo centrale della gestione della conoscenza come bene comune nel favorire l’innovazione comporta che i lavoratori assumano una nuova attitudine cruciale, una specifica competenza che si può definire con il termine di partecipazione cognitiva, ovvero «la volontà e la capacità di acquisire, condividere e utilizzare la conoscenza (propria e dell’organizzazione) per migliorare i prodotti e i processi produttivi e organizzativi» (mi si perdoni l’autocitazione). L’obiettivo fondamentale tanto dell’innovazione organizzativa come del rinnovamento della contrattazione e delle relazioni industriali è per l’appunto quello di rafforzare la partecipazione cognitiva di dirigenti e lavoratori, di farne il cardine dello sviluppo dell’impresa.
Ma il primo oggetto della partecipazione cognitiva non può che essere la qualità dei luoghi di lavoro (sicurezza, salute, ergonomia, creatività, relazioni interpersonali). Per questo, al fine della diffusione della partecipazione cognitiva può dimostrarsi utile la diffusione del welfare aziendale, così come si rivela indispensabile il varo di sperimentazioni su larga scala di pratiche di partecipazione gestionale, organizzativa e finanziaria che predispongano il quadro esperienziale su cui fondare una normativa che dia finalmente attuazione all’articolo 46 della Costituzione.
La giornata di oggi intende offrire a esperti, protagonisti delle relazioni industriali e opinione pubblica la possibilità di fare il punto su tre temi interconnessi e di grande rilievo – innovazione organizzativa, partecipazione, riforma delle relazioni industriali; temi che animano il dibattito attuale non solo sul lavoro e sul suo futuro, ma anche sullo sviluppo del sistema di relazioni industriali e sul progresso dell’economia.
In risposta alla lunga e grave recessione e nella prospettiva aperta dal dibattito su Industry 4.0, l’impresa italiana si sta trasformando. In questa direzione si segnalano i sostanziali avanzamenti realizzati da quelle aziende che da tempo hanno imboccato la via dell’innovazione organizzativa e dell’introduzione di pratiche di lavoro ad alta performance, in accordo con i modelli della produzione snella, della learning organization, della riorganizzazione per processi. Particolarmente evidenti sono i successi ottenuti in Italia e in tutto il mondo da Fiat Chrysler con il modello WCM, che verrà discusso tra poco, nel corso della presentazione del numero monografico della rivista “Economia & lavoro” della Fondazione Giacomo Brodolini, dedicato al tema del World Class Manufacturing (WCM), il modello di innovazione organizzativa perseguito con notevole successo da Fiat Chrysler in Italia e nel mondo.
Se il caso della Fiat costituisce un esempio di successo, esso rappresenta anche una sorta di benchmark per gli orizzonti che ci auguriamo possa aprire il rinnovo del contratto nazionale dell’industria metalmeccanica. FCA è una grande azienda globale; mancano però modelli altrettanto promettenti di valorizzazione e riqualificazione del vasto tessuto di piccola e piccolissima impresa, che tanto profondamente caratterizza la nostra economia e tanto gravemente ha sofferto la crisi dei distretti industriali.
Nella prospettiva dell’innovazione organizzativa assume nuova e cogente pregnanza il tema del diritto alla partecipazione, scolpito nell’art. 46 della Costituzione ma ancora inattuato. Sono pronti i partner sociali a darne 5 finalmente attuazione? Sono attrezzati culturalmente per farlo? L’esperienza della stagione della concertazione, come primo esempio storico di un una forma di partecipazione di livello macroeconomico e centralizzato, è stata di breve durata e sostanzialmente infruttuosa: ed è stata concordemente e piuttosto rapidamente abbandonata senza rimpianti da tutti e tre gli attori del processo: governo, sindacato e impresa.
Oggi però, come abbiamo premesso, il tema della partecipazione, in particolare della partecipazione cognitiva – del lavoro in team, dei suggerimenti dal basso, del coworking, dei momenti formali di apprendimento organizzativo – si propone con forza come uno degli elementi centrali e non più rimandabili dell’innovazione organizzativa. Su di esso si evidenzia la stretta connessione con il nodo irrisolto della diffusione della contrattazione decentrata.
In questo ambito il legislatore interviene oggi con un decreto su defiscalizzazione e tipologie degli accordi di produttività, che incentiva la partecipazione dei lavoratori alla definizione degli obiettivi aziendali. Ma non si può dimenticare che le precedenti esperienze legislative, da Treu a Damiano a Monti, hanno conseguito risultati quanto meno modesti; e soprattutto non hanno sinora portato allo sviluppo di una cultura aziendale, condivisa tra i partner sociali, di miglioramento continuo di processi, prodotti e organizzazione. Sarà questa la “volta buona”?
I temi della partecipazione, della diffusione della contrattazione decentrata e dell’innovazione organizzativa costituiscono peraltro elementi cardine della proposta di riforma del sistema delle relazioni industriali che il sindacato confederale ha presentato unitariamente alle rappresentanze datoriali e al governo. Sulla riforma della contrattazione, due temi assumono nell’attuale stagione contrattuale importanza cruciale. Il primo è quello, particolarmente caro a Tarantelli, di una visione macroeconomica e d’anticipo della politica salariale.
Nell’attuale situazione di deflazione, il target macroeconomico condiviso non può più essere la lotta all’inflazione, ma va invece ricercato in una ripresa della crescita del valore aggiunto settoriale, sul piano della domanda interna non meno che su quello della penetrazione internazionale. Su questo aspetto, particolarmente significativo può essere l’esempio offerto dall’accordo di incentivazione Fiat Chrysler per l’area EMEA dell’aprile 2015, che non esita a legare gli aumenti contrattuali agli obiettivi di crescita del gruppo e ad anticiparne ai lavoratori una parte sostanziale, come naturale corollario della 6 capacità del management di scommettere sul futuro e di coinvolgere il lavoro nella scommessa. Chi reclama oggi la necessità di stabilire gli incrementi salariali soltanto ex post, una volta verificati i risultati ottenuti, continua a cullarsi in un’illusoria tutela del profitto al di là dei meriti di mercato, assicurata da quella visione soltanto microeconomica del salario, che ha condotto prima all’indebolimento strutturale e poi al drammatico ridimensionamento dell’apparato industriale italiano, in misura drammaticamente più grave che nella media dell’Eurozona.
Il secondo tema è quello dell’articolazione tra i due livelli di contrattazione. Il documento unitario ribadisce l’interesse sindacale al potenziamento e alla diffusione della contrattazione decentrata. Ma non vela il fatto che, stante la struttura dell’impresa italiana fortemente dispersa verso la piccola e piccolissima dimensione, l’obiettivo della diffusione della contrattazione di secondo livello non può che essere perseguito attraverso lo sviluppo di varie forme di contrattazione territoriale, anche come strumento di apprendimento di una nuova capacità locale di programmazione partecipata dello sviluppo.
È negli auspici di chi ha organizzato questo incontro alla luce vivida dell’insegnamento e della testimonianza di Ezio Tarantelli, che la giornata di oggi possa favorire il dialogo dei partner sociali tra loro e con l’attore pubblico, e che il dialogo, franco e costruttivo, porti al superamento delle gravi difficoltà in cui ancora si dibatte l’economia italiana.
(*) Professore all’Università La Sapienza di Roma. Relazione svolta al convegno “Innovazione organizzativa, partecipazione, riforma delle relazioni industriali” tenuto il 23 marzo scorso, in ricordo dell’omicidio di Ezio Tarantelli a 31 anni dalla scomparsa.