“Il nostro dovere non è arrestare qualcuno e mettergli le manette per fare bella figura con i superiori e magari prendersi un encomio. Noi siamo pagati per garantire i diritti, per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo che ci circonda, la vita delle persone.” (Roberto Mancini)
Un libro coraggioso questo di Chiarelettere. E’ la storia di un poliziotto coraggioso: Roberto Mancini. Un uomo che sapeva già tutto del disastro ambientale nella cosiddetta Terra dei fuochi. Vent’anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un’informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell’ultimo periodo della sua vita, un’altra informativa (pubblicata per la prima volta in questo libro).
Mancini, è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell’Interno come “vittima del dovere”. Un giovane poliziotto cresciuto tra le fila della sinistra extraparlamentare negli anni confusi e violenti della contestazione. Manifestazioni, picchetti, scontri di piazza, poi la scelta della divisa, per molti incomprensibile e spiazzante, per Mancini del tutto naturale.
Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia (la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura, la figlia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto), i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini, che restituisce la sua verità e tutto il senso della sua battaglia umana e professionale.
Una storia chiusa per anni nel silenzio e oggi riscoperta, oggetto di una fiction con protagonista Giuseppe Fiorello nel ruolo di Mancini e finalmente patrimonio di tutti, da non dimenticare.
GLI AUTORI
Luca Ferrari, giornalista, documentarista e fotografo, è autore dell’inchiesta che per la prima volta ha raccontato la storia di Roberto Mancini, pubblicata su “la Repubblica”. Ha collaborato con la trasmissione Servizio pubblico, condotta da Michele Santoro, e con “la Repubblica”, “l’Espresso”, “The Huffington Post” e “il Fatto Quotidiano”. Con il suo primo film, Pezzi (2012), prodotto da Valerio Mastandrea, ha vinto il Premio Doc It – Prospettive Italia Doc per il miglior documentario italiano al Festival internazionale del film di Roma e ha ottenuto una candidatura nella categoria miglior documentario al David di Donatello 2013. Nel 2015 il suo secondo film documentario, Showbiz, sempre prodotto da Valerio Mastandrea, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma.
Nello Trocchia, giornalista e scrittore, precario dell’informazione, collabora con “il Fatto Quotidiano”, “l’Espresso” e con La7 (La gabbia). Ha realizzato inchieste su clan, malaffare politico e crimini ambientali. È autore di Federalismo criminale (Nutrimenti 2009), menzione speciale al premio Giancarlo Siani, primo libro-inchiesta sui comuni sciolti per mafia; La peste (con Tommaso Sodano, Rizzoli 2010), sulla cricca politico-criminale che ha realizzato il sacco ambientale in Campania; Roma come Napoli (con Manuele Bonaccorsi e Ylenia Sina, Castelvecchi 2012). Da agosto del 2015 è sottoposto a vigilanza dei carabinieri per aver subito minacce da un boss di camorra a seguito delle inchieste giornalistiche pubblicate.
Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo uno stralcio del libro
Il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi
«Mio padre è un eroe. Ha dei nemici? Bene. Questo significa che ha lottato per qualcosa nella sua vita. L’unica sua debolezza è stata la morte: non usatela per affermare la vostra forza.» Il 3 maggio 2014, il giorno del funerale, Alessia ha solo tredici anni. Il papà, Roberto Mancini, sostituto commissario di polizia, ne aveva cinquantatré ed è morto per aver scoperto e denunciato con una determinazione e un coraggio unici un sistema criminale e la rete dei trafficanti di veleni. Nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura, a Roma, le istituzioni sono presenti in prima fila insieme con la famiglia per dare l’ultimo saluto a un servitore dello Stato, encomiato perfino dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quelle stesse istituzioni che a lungo lo avevano ignorato e perfino osteggiato. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi. Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. Mancini è stato uno sbirro controcorrente, sempre con «il manifesto», quotidiano comunista, sotto braccio, insofferente al potere delle gerarchie ma comunque dalla parte della legge e della giustizia sociale. E questo dava fastidio. Negli anni del liceo aveva militato nel collettivo di sinistra, poi la voglia di cambiare il sistema dall’interno lo aveva portato a far domanda per entrare in polizia. Negli anni Ottanta, sorprendendo chiunque lo conoscesse, era diventato il più giovane viceispettore d’Italia. Per molti colleghi, che in questo libro lo ricordano con affetto e stima, è stato un «esempio»; per altri, soprattutto per alcuni suoi superiori ai quali lui non si è mai piegato per ottenere promozioni o simpatie, è stato invece solo un «visionario, un pazzo». Eppure quel «pazzo» si è ammalato perché durante le sue indagini, portate avanti per anni, è andato a scavare nelle aree contaminate dai trafficanti di veleni armato solo di guanti di lattice e mascherina. Lì dove hanno vomitato di tutto: scorie di fonderia, ceneri, ammoniaca, liquami, rifiuti industriali di ogni genere. Nel 1994 Roberto Mancini aveva cominciato a indagare su Cipriano Chianese, secondo la Procura di Napoli l’«inventore» dell’ecomafia, e a produrre una quantità di informazioni molto scomode. Con la commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, da consulente, tra il 1997 e il 2001, era tornato poi ad attraversare quei territori per rilievi e verifiche. Tra l’Italia e l’estero aveva partecipato a sessanta sopralluoghi su discariche abusive e luoghi contaminati. E il pazzo alla fine ci ha rimesso la pelle. Una biopsia gli ha diagnosticato il linfoma non-Hodgkin. Mancini ha conosciuto la depressione, ha attraversato una stagione di profonda sofferenza ma non ha mai smesso di lavorare. Fino all’ultimo ha cercato di fornire documentazioni al pm Alessandro Milita, colui che rappresenta la pubblica accusa nel processo ancora in corso a carico di Chianese. Nel 2005 Mancini si sottopone a un trapianto e per un momento tutto sembra risolversi per il meglio, l’incubo finito. Ma non c’è lieto fine a questa storia. Nel maggio del 2010, infatti, il morbo si riaffaccia. Una nuova biopsia diagnostica una recidiva. Il poliziotto non risponde più alle chemio, si sottopone al trapianto del midollo osseo, donato dal fratello. Purtroppo non servirà. I nomi dei responsabili dell’avvelenamento di quella terra rimangono a lungo impuniti: è stato questo il più grande rimpianto di Mancini, insieme a quella telefonata di riconoscenza dall’amministrazione della polizia, doverosa e tanto attesa, che però non è mai arrivata durante i terribili e faticosissimi giorni dell’agonia prima della morte.
Mancini resterà sempre il poliziotto comunista, ligio al dovere, ma insofferente al potere. Questo libro racconta per la prima volta la sua storia. Siamo entrati nella sua vita; abbiamo conosciuto i suoi amici di sempre, i colleghi e la sua famiglia, in particolare la moglie Monika che ha contribuito in modo attivo alla stesura di queste pagine. Come giornalisti, abbiamo preso spunto dalle sue indagini per denunciare una mattanza ambientale senza precedenti. Abbiamo recuperato alcune sue carte inedite, appunti scritti a mano, documenti scottanti e compromettenti, frutto di anni di investigazioni sul campo, che pubblichiamo per la prima volta. Ma soprattutto abbiamo raccontato la storia di un poliziotto, di un tifoso, di un amante, di un marito, di un padre e di un investigatore eccelso. Di un uomo che stimiamo profondamente. Questo non è il ritratto di un eroe, tutt’altro. Gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani o di chi le mantiene pulite ficcandole in tasca, di chi non prende mai posizione, di chi nutre le schiere di coloro che si voltano sempre dall’altra parte. Oggi Roberto Mancini è una nobile voce che non fa più paura. Dopo la sua morte è arrivata l’approvazione unanime per il lavoro svolto e nel consenso generale la coscienza collettiva si è liberata del peccato. Mancini rifuggiva l’omologazione, si è sempre rifiutato di essere altro da quello che era solo per compiacere e ottenere favori personali. Forse non avrebbe gradito tutti questi applausi.
Luca Ferrari, Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini, Io, morto per dovere. La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi. Prefazione di Giuseppe Fiorello, Ed. Chiarelettere, Milano 2016 . Pagg. 168, Euro 15 euro