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Italia e fiscal compact, prospettive credibili cercasi

A partire dal 2015 entrerà in vigore la clausola del Fiscal compact che prevede per i paesi europei con un rapporto debito/Pil superiore al 60% l’obbligo di iniziare un processo di riduzione di questo rapporto fino alla soglia del 60% in un periodo massimo di 20 anni. In pratica una riduzione annua di 1/20 o del 5% della differenza tra il valore 60 e quello attuale. Per l’Italia, che ha un valore pari al 130%, significa una riduzione di 70 punti pari a 3,5 punti all’anno. Rapportata al Pil previsto per il 2014 questo significa una riduzione del debito di circa 56 miliardi di euro ogni anno.

L’approvazione da parte del Consiglio Europeo del Fiscal compact è del gennaio 2012. L’accordo, non sottoscritto solo dal Regno Unito e dalla Repubblica Ceca, è stato quindi firmato dal governo Monti e approvato in parlamento da PDL, PD e UDC. La fase delle trattative era stata, tuttavia, seguita per tutto il 2011 dal duo Berlusconi-Tremonti che avevano via via accettato, o subito, tutte le clausole poi contenute nella stesura finale dell’accordo. 

L’accordo prevede, inoltre, l’obbligo di non superamento della soglia di “deficit strutturale” (ossia al netto del ciclo economico) dello 0,5% del Pil (1% per i paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL) e quella dell’inserimento nella Costituzione o nella legislazione nazionale dell’obbligo del pareggio di bilancio. L’Italia ha optato per l’inserimento in Costituzione di questo obbligo con una modifica costituzionale approvata in via definitiva il 18 aprile 2012 dopo il doppio passaggio tra Camera e Senato con una maggioranza superiore ai 2/3 costituita da PDL, PD e UDC.

Molti economisti, italiani e stranieri, si sono dichiarati contrari a questa clausola, come in generale alle regole del fiscal compact. In particolare all’obbligo del pareggio di bilancio si imputa di limitare la possibilità di intervento dei governi in caso di crisi economica. Che siano regole sbagliate non vi è dubbio, che l’Italia nella “situazione data”  del 2011/12 potesse rifiutarle è da discutere, che possa oggi uscirne “autonomamente” mi sembra alquanto complicato. Sicuramente andrebbero riviste in ambito europeo.

Ma torniamo alla riduzione annuale del debito pubblico di 56 miliardi di euro all’anno resa obbligatoria dal fiscal compact. Sarà obbligatoria una manovra annua di tale portata da aggiungere a quella eventualmente necessaria per restare ogni anno sotto la soglia dello 0,5% di deficit strutturale? 

Non è necessariamente così. Quello che va ridotto è il valore di un rapporto che dipende dalla dinamica del numeratore e del denominatore. La crescita del Pil può limitare o annullare del tutto la necessità di una manovra finanziaria. Con un pareggio di bilancio basterebbe una crescita nominale del Pil di poco inferiore al 3% per ottenere una diminuzione del rapporto debito Pil di 3,5 punti. Sottolineo il fatto che si tratta di una crescita nominale del Pil, ossia di una crescita reale dell’1% con un’inflazione del 2% o con una crescita reale dell’1,5% con un’inflazione dell’1,5%. Obiettivi non impossibili da raggiungere. La chiave sta, quindi, da un lato nella crescita e dall’altro nel pareggio di bilancio. Esaminiamo questi due punti.

Un obiettivo di crescita reale di 1/1,5% non è impossibile da raggiungere, ma certo difficile in questa situazione. Nell’ultimo aggiornamento del Def, è indicata una crescita reale del Pil del 1% per il 2014 e del 1,7/1,9% nel triennio successivo. Unitamente ad una inflazione di poco inferiore al 2% annuo, questo porterebbe ad una crescita del Pil nominale del 2,9% nel 2014 e del 3,5/3,6% nel triennio successivo. Il rapporto debito/Pil scenderebbe così dal valore di 132,8 del 2014 a quello di 120,1 nel 2017 con il pieno rispetto del vincolo imposto dal fiscal compact senza necessità di ulteriori manovre. Tuttavia, le previsioni di tutti gli istituti italiani e internazionali sono meno ottimistiche sulla crescita con valori non superiori allo 0,7% nel 2014 e all’1,2% nel 2015. Ottimistica appare anche la previsione d’inflazione. Se così fosse è chiaro che la diminuzione del rapporto debito/Pil sarebbe minore e non necessariamente in linea con gli obblighi ricordati.

Ma il rispetto di quegli obblighi richiede anche, nel percorso delineato dal Def, il pareggio di bilancio. Il nostro paese deve fare i conti con un costo del debito che oggi ammonta al 5,5% del Pil ossia a circa 85 miliardi di euro. Questo significa che per avere un pareggio di bilancio noi dobbiamo avere un saldo primario di pari importo, ossia che le entrate dello stato debbono coprire le spese correnti e in conto capitale e generare un avanzo pari al costo del debito.

Nella nota di aggiornamento è, infatti, prevista la crescita del saldo primario dal 2,4% del 2013 al 5,1% del 2017 un ammontare pari, nelle previsioni, al costo del debito in quell’anno. Questo è l’altra condizione da rispettare per essere in grado di assolvere agli obblighi del fiscal compact. Osserviamo il quadro programmatico del governo e la legge di stabilità. Quest’ultima produce un effetto sull’indebitamento netto pari a + 3,5 miliardi nel 2015 e a +7,3 miliardi nel 2016. In questo modo, il governo ottiene una diminuzione dell’indebitamento netto e una crescita dell’avanzo primario con un pareggio strutturale di bilancio al netto del ciclo. I numeri della legge di stabilità vanno letti in questa ottica. 

Chiedere al governo di fare di più sul cuneo fiscale o sull’imposta sulla casa o su qualche cosa d’altro significava mettere in discussione i saldi e quindi gli effetti sull’indebitamento netto e sull’avanzo primario, cioè ottenere la bocciatura della legge da parte di Bruxelles in quanto non rispettosa del Fiscal compact. Ovviamente a parità di saldi si poteva intervenire su entrate e impieghi, ma nessuno ha indicato come, se non invocando non specificati tagli di spesa. 

Da rilevare ancora che l’effetto positivo sull’indebitamento netto nel 2015 e nel 2016 è tutto o quasi da attribuire al comma 430 della legge di stabilità che prevede che entro il gennaio del 2015 il governo debba varare provvedimenti capaci di produrre nuove e maggiori entrate per 3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi nel 2017 attraverso “variazioni delle aliquote di imposta e riduzioni della misura delle agevolazioni e delle detrazioni vigenti”. 

Unico modo per sfuggire a questo aumento della pressione fiscale è, secondo il suddetto comma, l’approvazione entro la medesima data di “provvedimenti normativi che assicurino, in tutto o in parte, i predetti importi attraverso il conseguimento di maggiori entrate ovvero di risparmi di spesa mediante interventi di razionalizzazione e di revisione della spesa pubblica“. Siamo insomma nelle mani di Cottarelli e della sua spending review. 

Ecco perché il tanto invocato Fondo per la diminuzione della pressione fiscale è stato praticamente svuotato nella sua formulazione finale. Le risorse derivanti dalla spending review debbono servire in primo luogo a produrre la diminuzione di indebitamento netto indicata nella Nota di aggiornamento, a finanziare le spese cosiddette insopprimibili (missioni militari, trasferimenti a ferrovie e Anas, fondi sociali vari ecc., coperte nella legge di stabilità solo per il 2014) ed eventualmente le spese sociali aggiuntive (ad esempio il reddito minimo). Coperto tutto questo, e assicurato così il pareggio di bilancio, le risorse eventualmente rimaste potranno essere dirottate verso una diminuzione della pressione fiscale.

In pratica, la spending review, per evitare manovre, dovrebbe assicurare risorse per 6 miliardi nel 2015, 10 miliardi nel 2016 e 13 miliardi nel 2017.

Siamo insomma condannati ad un lungo periodo di forti saldi primari e quindi all’impossibilità di agire sulla domanda interna attraverso una diminuzione della pressione fiscale e/o una spesa pubblica volta a sostenere la crescita. E’ questo l’aspetto più negativo del fiscal compact: toglie ai governi la possibilità di manovre favorevoli allo sviluppo, inchiodandoli al rispetto dei vincoli di bilancio e affidando la possibilità di ripresa e crescita alla sola domanda estera.  

La via di un forte saldo primario per ridurre il livello del debito è già stata seguita in passato con successo dai governi di centrosinistra nella seconda metà degli anni novanta, così come tra il 1894 e il 1914 il nostro paese affrontò un processo di rientro del rapporto debito/Pil del tutto compatibile con la regola del fiscal compact (vedi un articolo di B.Chiarini e E.Marzano www.iviaggiatorinmovimento.it/blog/fiscal-compact-il-sentiero-temporale-del-rientro). Il problema é che oggi questo percorso ci viene imposto in una fase recessiva e in una situazione in cui queste stesse politiche sono imposte ad altri paesi, condannandoci nel migliore dei casi ad un lungo periodo di bassa crescita e di forte disoccupazione.

Ci sono alternative? In passato il problema del debito è stato a volte affrontato e risolto con una forte inflazione, qualche volta è stata affrontato con un default. Sono vie non percorribili nell’attuale quadro istituzionale-economico europeo. Si può abbattere il debito con la vendita di patrimonio pubblico o con una super patrimoniale? Quest’ultima è una via che nell’ultimo periodo sembrano suggerire l’Ocse e la Deutsche Bundesbank nel caso di paesi a rischio di insolvenza. Nel caso della Bundesbank è evidente il tentativo di sollevare in questo modo la Germania da eventuali obblighi.

Per avere efficacia e consentire diverse politiche di bilancio una vendita di patrimonio pubblico e/o una patrimoniale non potrebbero essere inferiori ad almeno 200/300 miliardi di euro sia pure in un arco temporale superiore ad un anno. Da notare che questo intervento abbasserebbe il rapporto debito/Pil di circa 20 punti lasciandone comunque altri 50 da recuperare. Difficile appare nell’attuale situazione economica collocare sul mercato, anche in 2/3 anni, 200 miliardi o più di patrimonio pubblico. 

Quanto ad una maxi-patrimoniale la recente indagine Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie sembrerebbe suggerire di procedere su questa strada, ma bisognerebbe prima capire se la ricchezza del decile più ricco è nota al fisco oppure no. Se così non fosse l’esito sicuro di una superpatrimoniale per ottenere risorse come quelle indicate sarebbe quello di colpire ammontari di ricchezza molto più bassi di quelli posseduti dal decile più ricco. Fresco è il ricordo di chi indicava in “ricchi” i titolari di abitazioni con una rendita catastale di 750 euro. Una patrimoniale di quelle dimensioni, dato anche il nostro sistema fiscale, non può certo limitarsi al decile più ricco, con tutti i problemi conseguenti di liquidità per chi ne fosse colpito (l’imposta è sul patrimonio, ma sarebbe pagata con il reddito) e di effetti sulla domanda interna.

L’altra alternativa è ripensare i vincoli europei. Ovviamente la soluzione si può trovare in un mix di interventi, ma in ogni caso in vista delle prossime elezioni europee sarebbe interessante conoscere le indicazioni dei partiti in merito. Oggi sappiamo solo cosa ne pensano da un lato Letta e Saccomanni e dall’altro Grillo.

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