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La priorita’ delle priorita’

“Lei ha paura di quello che può succedere in autunno sul piano sociale ed economico?”; risposta di Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo: “Non paura, terrore.” (Corriere della sera, 09/07/2020) Per come lo conosco, Sassoli non è tipo emotivo e né pessimista. Se lo dice, è perché la situazione dell’economia mondiale – assediata dal covid 19 – è veramente critica. E l’Europa non sta meglio, sempre in bilico tra stagnazione e recessione. Per non parlare dell’Italia che, se va bene, chiuderà a -12% di PIL il 2020 e sarà difficile non replicarlo nel prossimo anno. 

E’ in corso un dopoguerra e non lo vogliamo ammettere. E’ un errore, perché con l’aspettativa della ripresa dietro l’angolo, si ragiona prevalentemente in termini congiunturali, lasciando sullo sfondo le questioni strutturali dello sviluppo. Guardare al passato, forse, ci può aiutare a capire come muoverci.

Tra la fine degli anni 40 e l’inizio di quelli 50 del secolo scorso, l’Italia era allo stremo. Ma la sua classe dirigente – partiti, associazioni della società civile, centri della cultura – si confrontò più sulle prospettive strategiche, che su come sfamare la gente. Ovviamente, si pensò anche ad essa ed anche in modo consistente, ma discussero animatamente e anche duramente su come approvvigionarsi di materie prime (acciaio e petrolio, in primis), di quali settori tutelare (agricoltura) e quali sviluppare (industria e welfare state), su quali soggetti contare (imprenditori e lavoratori, attraverso le loro rappresentanze) per realizzare il salto di qualità che gli anni 60 e 70 consolidarono. L’Italia rapidamente divenne la seconda potenza industriale europea, dopo la Germania. Paradossalmente i perdenti della seconda guerra mondiale, in un paio di decenni, divennero egemoni in Europa.

Siamo nella stessa situazione. Una fase storica ha avuto un’accelerazione di conclusione a seguito del virus. C’è bisogno di non cincischiare in una logica tutta immediata (emergenza sì, emergenza no fino a fine anno?) e spostare il tiro sulle prospettive da costruire, individuando i lati buoni e quelli più dolorosi di una transizione inevitabile. L’Europa si è mossa in questa direzione. E’ l’Italia che non ancora fa capire che scelte sta facendo. Anzi, fa salvataggi (Alitalia), scelte industriali (Autostrade) e riforme della P.A. (salvo intese) che poco hanno a vedere con il MES o il Recovery Fund. Purtroppo il tempo non è illimitato. La crisi incalza, le decisioni europee vanno prese, le esigenze degli operatori economici e dei lavoratori incombono.

Almeno si individui il bandolo della matassa. Qui, con i contributi che seguono, lo si individua nella qualità dello sviluppo che è cosa diversa dalla pura e semplice crescita quantitativa della ricchezza. Una qualità che è tonificata dalla sostenibilità ambientale e che è alimentata da reti di connessione sempre più estese. Infatti, per ottenere più sviluppo non basta iniettare quattrini nel sistema produttivo; occorre orientarlo, facilitarlo, selezionarlo. Necessitano, ovviamente, persone, soggetti economici, istituzioni che sappiano riempirlo qualitativamente. Cioè una pluralità di agenti che siano attrezzati a dare un senso non solo utilitaristico alla generazione di valore, ma anche sociale e solidale.

Una declinazione vincente di questo obiettivo è possibile soltanto a condizione che ci sia un innalzamento diffuso delle competenze professionali, un potenziamento delle reti di connessione, una nuova didattica a distanza, una maggiore produzione e circolazione delle ricerche e delle informazioni scientifiche. L’e-learning è la chiave di volta per facilitare e rendere strutturale il perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo qualitativo. E’ lo strumento ma è anche uno metodo con il quale agire a tutto tondo. Esso è trasversale all’insieme del sistema educativo, produttivo, amministrativo, assistenziale di una comunità. Consente di dotare le persone di una capacità interpretativa e relazionale decisiva per non dipendere passivamente dalle tecnologie digitali. Diventa la nuova “materia prima” necessaria per gestire complessivamente lo sviluppo. Per questo insieme di significati, l’e-learning deve diventare una sorta di priorità tra le priorità, in quanto connette strettamente sviluppo e cultura, impresa e sistema formativo, territorio e centri di ricerca, individui e strumenti di conoscenza. Per una efficace diffusione di massa dell’e-learning bisogna agire in tre ambiti:

  • Una concertazione nazionale tra Governo, parti sociali, università e scuole per una pianificazione ragionevole della distribuzione delle risorse, privilegiando i progetti territoriali, educativi e/o produttivi che puntino a realizzare verificabili incrementi del valore aggiunto complessivo.
  • Una specifica programmazione degli interventi nella Pubblica Amministrazione sia per consentire il dialogo tra le varie strutture superando le strozzature attuali, sia per semplificare il rapporto con i cittadini e le imprese e sia per ridurre i tempi di attesa della certificazione o autorizzazione richieste.
  • La costituzione di una dote di almeno 150 ore annue per ciascun lavoratore/trice per accedere a proposte di e-learning, non necessariamente corrispondenti ad esigenze aziendali o della PA, ma anche a quelle proprie del lavoratore/trice, con un contributo pubblico variabile tra il 50% e il 100% del costo del lavoro, a seconda dell’importanza della frequentazione di e-learning.

L’immissione sul mercato del sapere di una così articolata possibilità di accesso all’e-learning potrebbe farci recuperare i ritardi che stiamo accumulando rispetto agli altri Paesi dell’Unione. Potrebbe portare alcuni settori – dall’agricoltura al turismo, dai servizi alle imprese a quelli alle persone – a livelli di qualità decisamente più professionali, facilitanti e diffusivi. Potrebbe accelerare la coesione sociale tri i territori e per un Paese come l’Italia che ha nel divario Nord – Sud un’atavica palla al piede, è l’occasione per cercare di uscire dal pantano storico. Inoltre, assicurerebbe un balzo in avanti delle connessioni internazionali, compartecipando al ridisegno della globalizzazione che, dopo questa crisi, certamente non regredirà ma non potrà neanche essere quella che è stata: sgovernata, solo finanziaria, squilibrante.

Ma soprattutto consentirebbe ad un numero enorme di persone di poter meglio autogestire il proprio destino, disponendo di un sistema di formazione continua nell’arco della propria vita, che lo può accompagnare nella ricerca della migliore allocazione della propria prospettiva di lavoro e di vita.

L’occasione dell’utilizzo delle risorse del MES e del Recovery Fund è troppo appetitosa per non aprire un dibattito serio sulla scala delle priorità che deve presiedere il ricorso a quelle risorse. C’è stato il piano Colao, ci sono stati gli Stati generali. Da quel che si può capire dalle cronache, non c’è stata un’idea guida forte e indiscussa. La robustezza delle richieste emergenziali e delle proposte per ritornare a quelli che eravamo è stata tale da offuscare quelle più strategiche e discontinue rispetto al passato. 

Il Governo scelga con chi vuole costruire il futuro, con quali forze economiche e sociali condividere un rigoroso catalogo di proposte corrispondenti ad un’idea di sviluppo di medio e lungo periodo e proceda con esse con speditezza. Non si governa a lungo traccheggiando, o aspettando di decidere sull’onda delle emergenze, delle tensioni sociali, dello stato di necessità. La concertazione del periodo 90/92 del secolo scorso fu efficace per tirar su per i capelli un Paese stremato, proprio perché tanto il Governo Amato, quanto quello Ciampi scelsero cosa fare e con chi farla. 

Fu una best practice che varrebbe praticare nuovamente.  

    

     

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