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L’esempio riformista

Nella primavera del 1993, all’esito finale della crisi della prima Repubblica, Giuliano Amato convocò nello studio di Pierre Carniti a piazza Adriana Giorgio Benvenuto, Ottaviano Del Turco e Raffaele Morese, oltre a Giorgio Ruffolo. La location non era scelta a caso. Carniti infatti rappresentava al meglio la risorsa che per la democrazia italiana – e innanzitutto per la sinistra riformista – era costituita dai corpi intermedi. Amato propose, alla vigilia del prevedibile crollo del Psi, che i sindacalisti socialisti bruciassero i vascelli alle loro spalle e dessero il via ad un nuovo inizio, come quello che un secolo prima aveva dato vita al partito di Turati: e non fu Carniti a sottrarsi all’impegno.

 Geloso custode dell’autonomia sindacale                                                                                              

Carniti, del resto, era consapevole del ruolo politico che potevano e dovevano giocare i corpi intermedi, della cui autonomia era peraltro geloso custode. L’autonomia infatti, in assenza di un orizzonte politico, rischiava di degradare rapidamente in corporativismo: così come il sistema dei partiti era degradato in partitocrazia nel momento in cui aveva ignorato le ragioni del pluralismo. Ne era consapevole fin dal 1966: quando – rispondendo all’appello di Livio Labor – con Baldassare Armato, Luigi Macario, Fernando Santi, Vittorio Foa, Bruno Trentin, Giorgio Benvenuto ed Enzo Mattina aveva lanciato il progetto dell’unità sindacale in contrapposizione all’idea di costituire un “sindacato socialista” che, nel contesto dell’unificazione fra Psi e Psdi, veniva caldeggiato invece non solo dai vertici della Uil ma anche (se non soprattutto) da quelli della Cisl e della Cgil, interessati a consolidare i rispettivi (e protettivi) collateralismi.

Il dialogo tra cattolici e socialisti                                                                                                    

E fu in quest’ottica che due anni dopo pose rimedio ad uno dei possibili effetti collaterali dell’unificazione socialista: quando a Milano sostenne in modo determinante la rielezione in Parlamento di Riccardo Lombardi, altrimenti insidiata dai signori delle preferenze di provenienza Psdi. Sempre in quest’ottica, negli anni seguenti, aveva appoggiato Labor nelle iniziative volte al tempo stesso a garantire l’autonomia sindacale ed a valorizzarla nell’ambito della auspicata “ristrutturazione della sinistra”: dalla battaglia per l’incompatibilità fra cariche sindacali e cariche politiche (che perse nel 1969 contro Storti) fino alla costituzione dell’Acpol, l’associazione di cultura politica che metteva insieme cattolici e socialisti. E quando – con le elezioni anticipate del 1972 – quel progetto naufragò, fu lui a suggerirci di entrare nel Psi, nonostante i dubbi che si potevano nutrire sull’agibilità di quel partito allora lottizzato secondo ferree logiche correntizie. Ovviamente il suo impegno maggiore fu nel sindacato, e soprattutto nella valorizzazione della capacità di innovazione che era stata propria della Cisl fin dall’origine anche grazie alla miscela di cultura e attivismo che in essa si realizzava, e che trovava l’ambiente più significativo nella scuola di Fiesole, dove militanti provenienti dal mondo della produzione si incontravano con gli economisti, i giuslavoristi e i sociologi provenienti dall’Università cattolica e non solo.

 Il taglio della scala mobile

Dalla Cattolica, per esempio, non veniva Ezio Tarantelli. Ma fu proprio per sostenere le sue tesi che Carniti si impose per la seconda volta all’attenzione del mondo politico: prima partecipando ad alcune migliaia di ore di trattativa sul taglio della scala mobile; poi – quando si rese conto che per Berlinguer era in gioco la rappresentanza esclusiva del mondo del lavoro che fino ad allora la democrazia consociativa aveva tacitamente riconosciuto al Pci – raccogliendo la sfida fino in fondo, magari anche forzando la mano a Craxi in occasione del referendum del 1985 che il leader socialista, rappresentato da Forattini con gli stivaloni e la camicia nera, avrebbe volentieri evitato. Quella fu una delle rare battaglie vinte in campo aperto dal riformismo italiano: e chi sa come sarebbero andate le cose se quella vittoria non fosse stata archiviata troppo rapidamente.

Così come non si sa come sarebbero andate le cose nel 1986, quando rinunciò alla presidenza della Rai perché non volle accettare di essere affiancato da un vicepresidente designato dal Psdi. In quell’occasione Craxi – che pure aveva appoggiato la sua candidatura anche per sfidare un De Mita che riteneva ancora la Cisl parte del latifondo democristiano – gli spiegò che 643111 non era un numero di telefono, ma la proporzione dei seggi spettanti ai partiti dell’arco costituzionale in seno al Consiglio d’amministrazione dell’ente radiotelevisivo: anche in questo caso dimostrando incertezza nello sfidare un sistema partitocratico il cui crollo alla fine lo avrebbe travolto.

 Dal Psi ai Cristiano-sociali

Quello che si sa, invece, è che nel 1989 i socialisti lo elessero al Parlamento europeo, e che nel 1993 ebbe anche modo, alla vigilia dello scioglimento dell’XI legislatura, di subentrare al Senato ad un senatore socialista prematuramente deceduto. E che poi, dopo l’infelice conclusione di quella riunione convocata nel suo studio da Amato, diede vita con Ermanno Gorrieri al movimento cristiano-sociale. Non era quella, probabilmente, la sua prima scelta. Per tutta la vita si era battuto per contaminare il cattolicesimo sociale con altre tradizioni culturali, nella consapevolezza che solo da un felice meticciato poteva nascere una sinistra riformista in Italia. Ma i tempi sono stati quello che sono stati, e molti di noi hanno dovuto ripiegare sulle seconde e sulle terze scelte. A lui almeno, che se n’è andato mentre un professor Nessuno presentava il suo governo alle Camere, è stata risparmiata la quarta.

*già Senatore della Repubblica

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