E’ l’inizio di una escalation autonomista-separatista o l’apice di una velleità che ripiegherà – nel migliore dei casi – nel rivendicazionismo istituzionale? Il risultato di questi inediti referendum consultivi lombardo veneto ci consegna un interrogativo, a mio avviso, a risposta apertissima. Il pensiero corre subito a Barcellona dove si sta consumando una vicenda che si trascina da anni, che ha trovato di volta in volta soluzioni di tregua non di pacificazione, dove le ragioni di gretta convenienza si intrecciano con sentimenti profondi di identità territoriale. Basti pensare che la Catalogna non solo è la più ricca regione spagnola, ma il catalano – lingua insegnata dall’asilo, anche ai bimbi stranieri – in realtà è la prima lingua di quella popolazione.
E’ facile scacciare quel pensiero; le due situazioni non sono oggettivamente paragonabili se non sul piano strettamente economico. Come la Catalogna, stiamo parlando delle due Regioni più ricche d’Italia e dal benessere tra i più diffusi d’Europa. E nonostante ci sia chi sta facendo di tutto per disegnarle come assatanate di quattrini, considerati rubati dal resto d’Italia per essere sperperati nel peggiore dei modi, non c’è niente che autorizzi questa meschina interpretazione. Neanche il referendum.
Che oltre il 60% dei lombardi e poco più del 40% dei veneti non siano andati a votare non è poca cosa. Questa diserzione non è dovuta soltanto alla consapevolezza che i referendum fossero consultivi e quindi senza conseguenze pratiche immediate, o alla pigrizia domenicale, o all’accumulo di insoddisfazioni che la politica (con la p minuscola) sta alimentando. Ci sono anche queste considerazioni, ma è legittimo ritenere che in quel bacino di non voto ci sia tanto, tanto spirito solidaristico che non ha dato credito ai promotori del referendum. Un realismo, in parte scettico sulle possibilità di ribaltone che venivano indicate come vincenti, in parte e forse prevalente, convinto che i quesiti referendari non fossero ragionevoli e giusti.
E’ vero che chi non vota non conta. Ma non autorizza neanche i vincitori a candidarsi a rappresentare tutta la popolazione. Come non consente tranquillità sia a chi, tra le forze politiche, si è dichiarato esplicitamente contro – come quell’ ex operaio metalmeccanico che orgogliosamente, uscendo dalla cabina “elettronizzata” ha dichiarato il suo no – sia a quanti si sono tatticamente curvati verso il sì, senza spendere energie mentre, con buona lena, hanno finanche boicottato. Anzi, costoro, contrariamente a chi è prevalso e cerca di fare “asso piglia tutto”, hanno ancora da assolvere l’onere di chiarire la loro posizione. E che lo debbano fare in fretta, è reso evidente dalla volontà dei vincenti di voler passare all’incasso rapidamente, anche per conquistare la benevolenza dell’elettorato che non si è espresso.
La situazione è quindi ancora magmatica. Non è il caso di fare dell’allarmismo, né di declassare la questione a normale dialettica tra Stato e Regioni, come l’immagine della firma del protocollo per
l’applicazione dell’ articolo 116 della Costituzione, tra il Governo centrale e quello emiliano poteva dare ad intendere. Il terreno su cui si muoveranno tutti i protagonisti è accidentato e può far perdere il controllo della situazione. Zaia vuole i poteri da “Regione a Statuto speciale”. Berlusconi ha proposto che tutte le Regioni aprano il negoziato con il Governo centrale. Maroni sembra interessato soltanto a battere cassa. Senza una capacità di dare una impostazione solida alla questione, posizioni come quella di Martina (“si discute di tutto meno che di tasse”) potrebbero risultare difensive o arroganti.
C’è bisogno di chiarezza. In primo luogo, sfatando la questione “paghiamo di più”. Fin quando la tassazione sarà progressiva e il benessere farà consumare maggiormente dove c’è più ricchezza, è inevitabile che al Nord si pagheranno più tasse. Soltanto mettendo in discussione queste “ovvietà” si potrebbe aprire una questione redistributiva. Ma c’è di più ancora. Qualora avesse ragione la logica risarcitoria, ciò che non arriva allo Stato – che però deve continuare a sostenere le spese dell’istruzione, della sicurezza, del funzionamento della pubblica amministrazione e via dicendo – dovrà essere coperto inevitabilmente da nuove tasse. Dove si vanno a prendere le risorse? Nella lotta alla corruzione, al mal funzionamento delle attività pubbliche, all’evasione fiscale? Premesso che sarebbe comunque necessario svuotare questi bacini di illegalità, chi crede che tutto ciò sia sufficiente per compensare ciò che viene decentrato, sta banalizzando.
Il Paese è pieno di disuguaglianze sociali, economiche, ambientali e la coesione sociale passa attraverso l’attenuazione di queste storture. Questa dovrebbe essere la priorità delle priorità e orientare le scelte nella direzione di mettere i cittadini almeno in pari condizioni di partenza. Se al Sud c’è spreco, inefficienza, illegalità vanno combattute da tutti e non prendere la scorciatoia di non voler più mandare i propri soldi in quel tritacarne improduttivo. Creare occupazione stabile, amministrazioni sane e trasparenti, sanità attrezzata, scuola che prepari veramente, tutti questi temi – e non solo questi – hanno bisogno di competenze e risorse. Ma come investire in questi campi, se ciascuna Regione seguisse l’esempio della Lombardia e del Veneto?
Infine, un Paese consapevole della fase che si sta vivendo, piena di trasformazioni epocali non dovrebbe accapigliarsi se riconoscere o meno il Veneto come “Regione a Statuto speciale”. Perché se questo è il tema, allora dovremo aspettarci che s’alzi il grido “todos Caballeros”. Se proprio si deve discutere del ruolo delle Regioni, a partire da quelle a Statuto speciale esistenti, lo si deve fare non escludendo di giungere alla conclusione che è meglio eliminarle. D’altra parte, il referendum sulla riforma costituzionale del 4 dicembre scorso ha risuscitato le Province e quindi si dovrà ben discutere su “chi fa che cosa”. E se la competenza più consistente delle Regioni è la Sanità, senza la quale le altre sono rilevanti ma non così invadenti, ci dovremo porre la domanda se vale la pena di avere 21 sistemi sanitari, spesso tra loro concorrenti e in conflitto, in termini di organizzazione e di prestazioni.
Quindi, prima di scivolare, passo dopo passo, verso l’irreversibilità dell’errore, sarebbe utile – nella nuova legislatura – che nel paese si discuta laicamente e senza pregiudizi del futuro delle Regioni. Se questo succederà, il referendum lombardo veneto del 23 ottobre un contributo positivo l’avrà fornito: riaprire il dibattito pubblico sulle nostre istituzioni. Se ciò non succedesse…che vinca il migliore!