dalla Newsletter n.66 del 27/04/2011
1. Scomodità-necessità delle innovazioni economico sociali
“Nessun pasto è gratis”. Molti ricorderanno questo detto, semplice ed efficace, di Milton Friedman, un premio Nobel dell’economia. Nella società attuale è però diffusa la sensazione che Friedman possa, in molti casi, aver torto, che si possa cioè “pranzare” senza pagare il conto, che gli obiettivi “buoni”, proprio in virtù della loro bontà, siano raggiungibili senza costi.
Purtroppo non è così: ogni traguardo implica quanto meno la rinuncia a qualche obiettivo alternativo, e le rinunce sono sempre costose. Non basta quindi enunciare obiettivi “buoni” come non basta illudersi che, proprio in grazia della loro inevitabilità, siano privi di costi i cambiamenti inevitabili, come quelli indotti dalla globalizzazione.
E l’economia è la scienza – se così la si vuol chiamare – che permette di confrontare i costi con i benefici di ogni azione della vita normale, la scienza, come si dice in termine tecnico, dei trade off; che insegna a calcolare la “scomodità” economico- sociale di ogni tipo di innovazione e quindi consente (o dovrebbe consentire) decisioni razionali circa l’effettiva convenienza dell’innovazione stessa.
2. Mercato del lavoro e sistema di welfare: due trasformazioni parallele
Nell’attuale, confusa situazione italiana ed europea, questo tipo di calcolo economico-sociale è sicuramente applicabile a due radicali trasformazioni che, negli ultimi tre-quattro lustri, hanno profondamente inciso sulla vita degli individui, sul ruolo delle famiglie, sul modo di essere dell’economia e della società. Si tratta delle trasformazioni parallele, e ancora in corso, del mercato del lavoro e del sistema di welfare, ambedue inevitabili e all’insegna di nuove forme di “flessibilità” sociale.
In linea di principio, per quanto concerne il mercato del lavoro, la flessibilità dovrebbe consentire, o quanto meno facilitare, la realizzazione della piena occupazione, declinata con modalità e retribuzioni adeguate a un normale ciclo di vita, personale e famigliare. Per le giovani generazioni, questo obiettivo sembra però allontanarsi come una chimera, sotto i colpi dell’aspra competizione tra paesi di un mondo globalizzato, del mutamento tecnologico e, da ultimo, della crisi finanziaria. Per quanto riguarda invece il welfare, la flessibilità può essere essenzialmente intesa, nella maggior parte degli altri Paesi avanzati, naturalmente Italia compresa, come lo strumento per evitare il collasso finanziario di sistemi pensionistici il cui futuro è costellato di “promesse” – ossia impegni di pagamento di benefici da parte dello Stato – che si rivelano insostenibili nell’attuale contesto di invecchiamento della popolazione, di rapido aumento della vita media residua di chi va in pensione.
Calata nella realtà italiana, la riforma del mercato del lavoro avrebbe dovuto realizzare il passaggio dal sistema tradizionale, modellato sull’occupazione “regolare e protetta” del maschio capofamiglia (il “breadwinner”, ossia colui che “porta a casa il pane” della letteratura sociologica anglosassone) a un sistema più ampio che avrebbe dovuto fare maggior spazio ai giovani, alle donne e agli anziani, ossia ai segmenti tradizionalmente più deboli del nostro mercato. Nel caso della riforma previdenziale, anch’essa peraltro largamente ispirata a principi di flessibilità, si trattava di restituire fondamenta finanziarie a un sistema pubblico minato da decenni di politiche miopi di allargamento, senza alcuna base finanziaria, dei benefici promessi.
A posteriori, sono però sempre più numerose le voci critiche che sottolineano come nel mercato del lavoro la flessibilità si sia trasformata in precarietà, dove bassi salari si combinano generalmente con rapporti di lavoro discontinui, se non marginali, e come nella previdenza la stabilità finanziaria abbia fatto premio sull’adeguatezza delle prestazioni, sicché il sistema sarà sì sostenibile ma non in grado, soprattutto nei confronti delle generazioni più giovani, di fornire benefici atti al mantenimento di un adeguato tenore di vita nell’età anziana.
3. La ridistribuzione del rischio dalla collettività all’individuo.
I risultati di queste importanti riforme parallele appaiono quindi francamente deludenti e, per impostare qualsiasi azione efficace, occorre domandarsi, in primo luogo, che cosa sia andato storto e, in secondo luogo, se abbia senso riproporsi di tornare semplicemente all’antico mondo della stabilità e continuità nei rapporti di lavoro, caratterizzati da garanzie robuste e da tutele forti, anche in campo previdenziale, limitate, però, di fatto a pochi.
Una prima risposta a questa domanda è questa: l’elemento comune delle trasformazioni che stanno modificando il ciclo di vita delle persone è l’incapacità dei paesi avanzati, soprattutto di quelli europei – altri hanno avuto difficoltà analoghe, se non peggiori, di quelle italiane – di gestire e ridistribuire i rischi connessi proprio con il ciclo di vita, ossia quelli legati al lavoro nell’età attiva e quelli legati all’insufficienza di risorse durante il pensionamento. Con la globalizzazione, e con il contestuale allargamento, geografico e settoriale, del modello concorrenziale il rischio è diventato un elemento insopprimibile mentre i nostri modelli occupazionali e di protezione sociale sono rimasti ancorati a strutture produttive e sociali non più attuali.
Per conseguenza, si è introdotto il nuovo (i contratti di flessibilità, soprattutto per i giovani e le donne; le pensioni contributive, ancora essenzialmente per le giovani generazioni), senza modificare il vecchio. In altre parole, si è fatto un cospicuo travaso di responsabilità, dalle scelte collettive a quelle individuali senza modificare in profondità né gli atteggiamenti culturali né la struttura degli incentivi economici, e senza preparare le persone a queste nuove responsabilità. Per l’Italia, in particolare, ciò si è tradotto in un’ennesima riproposizione del dualismo tipico di molti aspetti dell’economia e della società, un dualismo che in questo caso tocca direttamente i rapporti tra le generazioni.
Questa risposta inevitabilmente porta con sé un’altra domanda: perché non ha funzionato la giustapposizione di vecchio e nuovo? Anche se le ragioni sono probabilmente molte, una è forse in grado di riassumerle tutte, soprattutto per l’Italia: si tratta della bassa crescita strutturale delsistema economico, alla quale si è sovrapposta – fornendo un alibi all’impotenza della politica – la crisi finanziaria ed economica in corso dal 2008.
In altre parole, la flessibilità, così come è stata introdotta, avrebbe funzionato (o almeno avrebbe funzionato meglio) se soltanto l’economia fosse cresciuta di più e quindi se ci fosse stata, da un lato, una maggiore domanda di lavoro, e più proiettata sul medio lungo termine; dall’altro, un maggiore base contributiva e un più alto tasso di remunerazione dei contributi in vista del futuro pagamento delle pensioni. In termini un po’ approssimativi: ogni punto percentuale in più di crescita del prodotto lordo italiano avrebbe consentito la creazione di 200-250mila posti di lavoro, portato circa sette miliardi in più nelle casse pubbliche e migliorato il “libretto pensionistico” dei giovani soggetti alle pensioni contributive. Questi elementi avrebbero sicuramente contribuito a ridurre, se non a eliminare, il carattere di urgenza del problema occupazionale. Il divario di crescita di lungo periodo tra l’Italia e il nucleo duro dell’Unione Europea si misura così in milioni di posti di lavoro non creati, svariate decine di miliardi di imposte e contributi non incassati, e un più basso “rendimento” degli stessi contributi.
In una situazione di crescita, la flessibilità non si trasforma in precarietà, e le pensioni contributive non rischiano l’inadeguatezza. La crescita, però, non piove dal cielo, non è, in termini tecnici, un “fattore esogeno”. E qui sta il nostro principale problema. Le politiche italiane per la flessibilità del mercato del lavoro e per la sostenibilità del sistema previdenziale non hanno considerato la crescita come un risultato da raggiungere, ma piuttosto come un presupposto, per l’appunto un elemento esogeno.
E qui, il parallelismo tra le riforme del mercato del lavoro e quelle pensionistiche può avere termine, nel senso che, mentre nel caso delle pensioni il processo di riforma può dirsi sostanzialmente completato (con l’eccezione di alcune aree di privilegio che permangono, relative, non a caso, alla classe politica e a gran parte delle categorie dei liberi professionisti e di aree sotto presidiate, come quella della cura di lungo termine), nel mercato del lavoro la riforma appare lungi dall’essere compiuta. Troppo poco è stato fatto – e quindi molto resta da fare – affinché tutti (giovani, donne, lavoratori anziani) possano lavorare sia pure con diverse modalità (per l’appunto flessibili) e soprattutto troppo poco è stato fatto, e quindi molto resta da fare, perché la flessibilità lavorativa sia davvero una fase iniziale della carriera lavorativa e non si trasformi, invece, in una sorta di ghetto di lavoro sottopagato e di prospettive negate.
4. Circoli viziosi da spezzare
In effetti, mentre le riforme pensionistiche hanno spazzato via, o fortemente ridimensionato, le precedenti distorsioni e in particolare la convenienza, insita soprattutto nelle pensioni di anzianità, a non continuare a lavorare oltre i requisiti minimi stabiliti dalla legge, in corrispondenza con età ancora relativamente giovani (la cosiddetta “tassa implicita” sul proseguimento del lavoro), molte distorsioni sono presenti nella flessibilità del nostro mercato del lavoro.
Più specificamente, alcuni aspetti, peraltro ammirevoli, di tenuta economico-sociale hanno impedito evoluzioni drastiche, rendendo però più difficile una reazione positiva e quindi prolungando e aggravando il “blocco” in atto. Il ruolo di sussidiarietà della solidarietà famigliare è stato rafforzato dal mancato adeguamento del sistema di protezione sociale alla nuova flessibilità e si è così ripercosso negativamente in particolare sul lavoro femminile.
L’insufficienza di nidi e scuole materne in molte parti del paese e l’assenza di interventi sistematici nel campo della dipendenza in età anziana, accompagnate dalla scarsa diffusione dei contratti di lavoro a tempo parziale e in generale di politiche per la conciliazione del lavoro delle donne con la formazione di una famiglia, hanno di fatto limitato l’offerta di lavoro femminile, contribuendo al poco onorifico primato italiano della bassa occupazione delle donne.
Si determinano così due circoli viziosi: il primo riguarda la dipendenza dei giovani dalla solidarietà dei loro congiunti, che non solo appesantisce bilanci famigliari spesso modesti e comunque in contrazione, con effetti negativi sulla domanda globale, ma finisce anche per ridurre la mobilità dei giovani stessi e per minare la loro determinazione a cercare un’occupazione, e a farsi essi stessi una propria famiglia. La precarietà, in altre parole, tende a persistere e a generare nuova precarietà. Il secondo, riguarda il carattere ancora accessorio del lavoro femminile, generalmente collocato in posizione di subalternità rispetto alle esigenze della stessa famiglia. Questi circoli viziosi andrebbero risolti anche travasando le risorse liberate dalle riforme nell’ambito della spesa pensionistica ad altri ambiti dell’”assicurazione sociale”, e in particolare alle politiche di sostegno delle attività di cura (dei bambini, degli inabili, degli anziani), in modo da limitarne gli effetti negativi sull’occupazione, sui redditi e sulla progressione di carriera delle donne.
5. Alcuni percorsi possibili verso la “flessibilità buona”
La “flessibilità buona” si può quindi individuare precisamente nella riduzione/eliminazione della convenienza a comportamenti, sia delle persone, sia delle imprese, che tendono a trasformare la flessibilità in precarietà. Per lungo tempo si è cercato (e non soltanto nel nostro Paese) di contrastare la disoccupazione con incentivi fiscaliecontributivi alle assunzioni “atipiche”. L’occupazione atipica è cresciuta e ciò ha sicuramente limitato le conseguenze negative della crisi sui bilanci famigliari, ma ne è derivato un inaccettabile e persistente dualismo del mercato del lavoro. E’ dubbio, però, che possa bastare una riduzione della convenienza per le imprese verso queste forme contrattuali a spostare il peso dell’occupazione a favore dei contratti a tempo indeterminato.
Una via percorribile e più efficace potrebbe essere quella del contratto unico di lavoro, una proposta – avanzata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi su www.lavoce.info.it e successivamente fatta propria da un folto gruppo di parlamentari – in grado di conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con l’aspirazione alla stabilità rivendicata dai lavoratori.
Il contratto potrebbe essere modellato in modo da adattarsi maggiormente sia alle diverse esigenze del ciclo di vita delle persone – con un periodo iniziale di formazione anche sul posto di lavoro, minore risparmio previdenziale e quindi aliquote contributive inizialmente più basse – sia alle esigenze delle imprese, con una retribuzione e condizioni di impiego commisurate alla produttività. La proposta di legge riduce fortemente la convenienza alle assunzioni con un contratto a tempo determinato o a progetto, anche ponendo dei vincoli in termini di soglie di salario annuale (di almeno 25mila euro per la prima tipologia e 30mila euro per la seconda) per la legittimità di queste forme contrattuali. Naturalmente il punto critico del contratto unico rimane la licenziabilità dei lavoratori che dovrebbe diventare progressivamente più difficile mano a mano che il lavoratore acquisisce esperienza e diventa più produttivo.
La flessibilità buona implica anche l’abbandono dell’approccio “totalitario” al lavoro e al pensionamento per cui un giorno si è senza lavoro, il giorno successivo si è assunti a tempo pieno, e, all’altro estremo, un giorno si lavora e il giorno dopo si è in pensione. Flessibilità significa pertanto anche gradualità dei passaggi nell’ingresso e nell’uscita dall’età lavorativa. Difficile da realizzare nei tradizionali sistemi industriali, basati sulla “catena di montaggio” e sulla minore importanza del capitale umano essa appare molto più consona alla produzione postindustriale: un medico, un insegnante possono andare in pensione con gradualità quando non prendano più pazienti nuovi o allievi nuovi. Diventa sempre più realistico pensare a un impiegato che non segua più nuove pratiche ma porti a esaurimento quelle vecchie. E gli esempi potrebbero continuare. A questa nuova flessibilità relativa al mondo del lavoro deve pertanto fare riscontro la flessibilità pensionistica, ossia il pensionamento variabile entro una fascia d’età, con pensioni più basse per chi va in pensione a un’età più giovane, secondo la formula contributiva già introdotta.
Alla flessibilità agli estremi della vita lavorativa si deve poi accompagnare la flessibilità all’interno della vita lavorativa. Un’attenzione particolare deve essere riservata ai modelli di lavoro olandese, danese e svedese che consentono periodi piuttosto lunghi di attività parziale – con retribuzione ugualmente parziale – di lavoratori altrimenti a tempo pieno, collegati a specifiche situazioni famigliari, spesso relative ai figli. Si andrebbe così verso quel modello di flessibilità e di sicurezza, detto flexicurity che consente, soprattutto nei Paesi Bassi, la presenta, all’interno di un nucleo famigliare di un lavoratore/trice a tempo pieno e un altro/a a tempo parziale, in grado di adempiere a determinati doveri famigliari. Essenziale per il funzionamento del sistema è infine la disponibilità del lavoratore a cambiar lavoro, con qualifiche e retribuzioni equivalenti, nella
sua stessa area di residenza; si passerebbe così dalla difesa del posto di lavoro alla difesa del lavoro tout court. Tale disponibilità implica l’accettazione da parte del lavoratore della necessità di acquisire, naturalmente in forma gratuita, competenze diverse da quelle del suo lavoro precedente nel periodo di passaggio che gli viene retribuito. Più in generale, appare indispensabile un’estesa attività di “manutenzione” e miglioramento del capitale umano dei lavoratori, soggetto a invecchiamento come e forse più del capitale fisico. E’ sintomatico dell’arretratezza italiana che (anche) nell’istruzione degli adulti, come in molti altri aspetti del sistema di istruzione, l’Italia sia largamente nelle ultime posizioni in classifica.
Il percorso non è necessariamente breve, soprattutto in quanto ogni passaggio può implicare una non facile contrattazione politico sociale. Si tratta comunque dell’unica strada percorribile: per superare lo stallo di una società che non cresce, occorre puntare prioritariamente e necessariamente sul lavoro, sul capitale umano a esso associato e su una rete di sicurezza di tipo nuovo.
(*) Docente all’Università di Torino