Le grandi entusiasmanti manifestazioni del 27 settembre in tutto il mondo hanno diviso, com’era giusto il mondo politico e quello dell’informazione. «Gretini» comincia a chiamare i giovani manifestanti la stampa di destra che inizia a ragionare – si fa per dire – su quale super ricco e super potente ci stia dietro, accompagnando l’onda di un senso comune abbastanza diffuso che tende a disconoscere e ridurre alla misura dell’utile e dell’interesse qualsiasi azione dettata dalla solidarietà e dalla generosità.
Trump e Bolsonaro, col silenzio e con le parole, hanno preso le distanze dal commosso intervento di Greta all’Onu, il vicepremier ungherese parla di una piccola bambina malata, Salvini tace sullo specifico ma mobilita i suoi in nome di una crescita indifferente al consumo di suolo e di energia. Ed è naturale che sia così. Rispetto a quelli che continuano a dire prima l’America, prima l’Italia, o la Francia o l’Ungheria, questi ragazzi dicono «prima il genere umano». E si pongono in prima persona, con le loro parole e i loro corpi, come la critica più radicale al sovranismo.
La politica e la stampa democratica applaude e si commuove. Sembra quasi pensare di avere in questi ragazzi una rendita di posizione rispetto alle pulsioni sovraniste. Sarebbe bene che si disilludessero in fretta, perché i ragazzi visti nelle piazze non si accontenteranno di buone parole e di pacche sulle spalle. Così Fioramonti, che pensava di conquistarseli per sempre con la circolare sulle assenze giustificate, si è sentito chiedere conto, come garanzia di credibilità, di quanto il governo investirà in istruzione e ricerca, di come si cambieranno i programmi per fare della salvezza del genere umano una priorità educativa per tutte le discipline, e di interrompere rapporti e progetti di ricerca in comune fra le Università e le imprese che inquinano e con quelle che fabbricano armi.
E a brevissimo Sala come Raggi, che hanno proclamato a Milano e a Roma lo stato di emergenza climatico, dovranno puntualmente spiegare come questo si concilia con i grandi stadi in progettazione e si vedranno contestare ogni albero abbattuto e ogni centimetro di terra che respira ricoperto di asfalto o da cemento. E dovranno spiegare, Pd e 5stelle, come si possa essere per Greta e andare avanti con la Tap, con le trivelle, e con la Tav. Greta e i ragazzi diffidano giustamente della politica, e vigileranno con cattiveria sulle scelte di chi governa, in Italia e nel mondo.
Ma se hanno giustamente messo al bando dei loro cortei i simboli e le bandiere dei partiti politici c’è nel contempo una apertura di credibilità nei confronti del sindacato, e in particolare della Cgil di Maurizio Landini alle cui iniziative hanno partecipato in tutta Italia. La Cgil, con quasi tutte le categorie, ha deciso di essere al fianco degli studenti, ma nel suo appello lo stesso segretario generale non nasconde i grandi problemi che una svolta verde dell’economia e della società implicherà per il sindacato.
Far pagare chi inquina, producendo o trasportando; ridurre drasticamente l’estrazione e l’uso di ogni tipo di combustibile fossile; scegliere la strada dell’economia circolare, che non è solo questione di riciclo ma che inizia dalla produzione di cose che durano di più e che sono riparabili; fare dei servizi per la mobilità, e non dell’aumento della produzione e della vendita di automobili, il cuore di una nuova politica industriale di settore; usare come indicatore per la politica di innovazione e di diffusione delle tecnologie non il puro e semplice aumento della produttività, ma la capacità o meno di ridurre l’inquinamento; scegliere una politica delle infrastrutture che privilegi la coesione dei territori e la vita dei pendolari per lavoro o per amore rispetto alle grandi infrastrutture, sono tutte scelte che se possono far crescere nel medio lungo periodo il lavoro in quantità e qualità, nel breve produrranno tensioni e contraddizioni, e il rischio di perdita di posti di lavoro.
Ci sarà bisogno di ridefinire le politiche di sostegno al lavoro rispetto a questo obiettivo. Non solo dal punto di vista degli ammortizzatori sociali necessari, ma attraverso un progetto in grande stile di formazione volto alla riconversione professionale e all’arricchimento culturale delle persone che lavorano.
Magari riducendo da subito, con questa finalità, l’orario di lavoro. In fin dei conti il primo grande segnale politico di internazionalismo venne dal mondo del lavoro. «Proletari di tutto il mondo unitevi». E a quel segnale deve molto tutta la cultura dei diritti umani, a partire dall’ambientalismo e dal femminismo. Provare per quanto sia difficile a rimetterlo all’ordine del giorno, progettando un possibile internazionalismo del lavoro accanto all’internazionalismo degli studenti, sarebbe il contributo più grande da parte del sindacato alla lotta per salvare il futuro del genere umano, e il suo stesso futuro
(*) Il Manifesto, 29/09/2019
(**) Già sindacalista della Cgil